AGIS (EST) - 03/12/2004 - 14.56.00
UCRAINA PARLAMENTO RUSSO DEFINISCE "DISTRUTTIVO" RUOLO EUROPA
Mosca, 2 dic. - Il parlamento russo ha approvato a stragrande maggioranza una risoluzione in cui definisce "distruttivo" il ruolo avuto dalle istituzioni europee nella crisi ucraina. La risoluzione, che ha avuto 415 voti a favore e 8 contrari, accusa l'Unione europea, l'europarlamento e l'Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce) di avere risvegliato un radicalismo che potrebbe avere conseguenze negative per tutta l'Europa. Le stesse istituzioni, prosegue la risoluzione, hanno fomentato i disordini di questi giorni che potrebbero degenerare "in rivolte di massa, nel caos e in una spaccatura del Paese". Questa condotta, afferma il documento dal titolo 'Riguardo i tentativi di interferenza distruttiva nello sviluppo della situazione in Ucraina,, "avra' conseguenze molto negative non soltanto per l'Ucraina ma anche per la Russia, per tutta l'Europa e per la comunita' internazionale nel suo insieme. Le forze straniere... devono assumersi la responsabilita' di risolvere la situazione nel rispetto del diritto". Il documento invita anche a rafforzare "le tradizionali relazioni di amicizia fraterna tra i popoli russo e ucraino".
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South Stream/Radicali: con ingresso tedeschi di bsf continua operazione russa di erosione politica energetica europea autonoma
Pubblicato il 24/03/2011
IL GOVERNO NON HA NULLA DA DICHIARARE SU SOCIETA' MISTA GAZPROM/ENI IN SVIZZERA? INTERPELLANZA RADICALE.
"La Stampa", 24/03/11
LA PROPOSTA DELL’EX MINISTRO DI BELGRADO
“La Russia diventi socia di Fiat Serbia”
BELGRADO
Mladjan Dinkic, ex ministro dell’economia serbo e leader del Partito G17 plus (al governo), ha proposto che la Russia diventi co-proprietaria di Fiat Automobili Srbija (Fas), nell’ambito di una rafforzata collaborazione fra i due Paesi nell’industria automobilistica. Dinkic, che si è dimesso dal dicastero dell’economia nelle scorse settimane nell’ambito del rimpasto attuato dal premier, Mirko Cvetkovic, ha illustrato la sua proposta nel corso di un breve colloquio con il premier Vladimir Putin, ieri in visita a Belgrado.
«Ho suggerito che il governo russo garantisca un contingente di esportazione di auto verso il loro mercato, con noi che faremmo altrettanto nei loro confronti, e proporrei inoltre al governo e alla Fiat che la Federazione russa diventi co-proprietaria di Fiat Automobili Srbija attraverso una delle compagnie russe, partecipando in tal modo ai profitti derivanti dall’export di auto», ha detto Dinkic citato dalla Tanjug.
A suo avviso, sia la Serbia che Fiat Automobili Srbija e la Russia trarrebbero beneficio da tale iniziativa, dal momento che la produzione aggiuntiva di altre 100 mila vetture creerebbe nuovi posti di lavoro, l’export della Serbia crescerebbe e la parte russa ne trarrebbe profitto. Putin, secondo quanto riferito da Dinkic, ha detto che prenderà in considerazione tale proposta. [R. E.]
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nel cantone elvetico le società dei gasdotti russi verso l'Europa e con la Serbia
Eni, i segreti di South Stream
nella scatola svizzera di Zug
La galassia delle società miste di Gazprom e i bilanci «flessibili»
nel cantone elvetico le società dei gasdotti russi verso l'Europa e con la Serbia
Eni, i segreti di South Stream
nella scatola svizzera di Zug
La galassia delle società miste di Gazprom e i bilanci «flessibili»
L'agenzia del turismo del Cantone di Zug raccomanda soprattutto il tramonto sul lago, «un'esperienza da non mancare». Oppure la vista dei giochi di luce sulla facciata della stazione ferroviaria, opera del californiano James Turrell. Difficile però che qualche centinaio di grandi «corporation» di tutto il mondo e di ricchi contribuenti siano confluiti verso la campagna, i laghi e i monti della Svizzera centrale solo per le attrazioni locali. Diciamola subito: a Zug si va perché si pagano poche tasse, e le aliquote fiscali per le aziende sono tra le più basse della Svizzera, e quindi d'Europa. Tra il 9 e il 15%. Ma non solo: il «tax ruling» locale dà alle società che decidono di installarsi nel Cantone la possibilità (teorica ovviamente) di confezionare bilanci che sarebbe un eufemismo definire incompleti e poco trasparenti. Qualche esempio di illustri «clienti fiscali»? A Zug, e nei suoi dintorni, hanno deciso di spostare la propria sede mondiale o europea grandi multinazionali americane. Così nel giro di pochi chilometri quadrati si ritrovano Foster Wheeler, Noble, Amgen. Il colosso del trading Glencore. Persino la Transocean, la società petrolifera responsabile del disastro del Golfo del Messico nell'estate scorsa, ha sede a Zug. Le grandi corporation sfruttano le agevolazioni cantonali, e così anche i loro manager.
I gasdotti
L'attrazione esercitata dalla Svizzera e da Zug non ha effetto solo sulle aziende occidentali. Gli oligarchi russi spuntati dopo la dissoluzione della vecchia Urss hanno ampiamente sfruttato le «opportunità» concesse dalle leggi e dal tax system elvetico. Le società intermediarie al 50% tra Gazprom e l'Ucraina nel corso del conflitto del gas dell'inverno 2005-06 (come la Centragas Holding) avevano sede in Svizzera, e ora sono da tempo liquidate. Per il colosso moscovita del gas, tuttavia, l'abitudine di servirsi dello Stato alpino per i propri affari è diventata un'usanza consolidata. Come nel caso del progetto South Stream, oggetto dei preoccupati «cable» delle ambasciate americane rivelati da Wikileaks. Il memorandum tra l'Eni di Paolo Scaroni e i russi viene siglato il 23 giugno 2007. Il 18 gennaio 2008 viene costituita la South Stream Ag, posseduta al 50% ciascuno da Gazprom e da Eni International Bv. Dove? A Zug naturalmente. Nello stesso luogo dove, dal dicembre 2005, si trova anche il veicolo societario per il gasdotto «Nord Stream», il fratello gemello sul fondale del mar Baltico che dovrà bypassare la Polonia, e che vede tra i soci la tedesca E.On e come presidente l'ex cancelliere Gerhard Schröder. Ancora: quando all'incirca un anno fa i russi chiudono il negoziato con la Serbia per il transito del South Stream si comportano nello stesso modo. Creano al 50% con Srbijagas la South Stream Serbia Ag, infilano in consiglio il capo di Gazpromexport Alexander Medvedev (solo omonimo del presidente Dmitri), quello di Srbijagas Dusan Bajatovic, e dove la piazzano? A Zug naturalmente. Curioso: in Serbia l'aliquota sui profitti «corporate» è già al 10%, e di meno in Europa non si trova, se si fa eccezione per il Montenegro (9%). Per i russi, evidentemente, in queste scelte giocano altri fattori, primo fra tutti la riservatezza, se si vuole utilizzare anche in questo caso un eufemismo. In Svizzera, dettaglio non da poco, le società non quotate in Borsa non hanno alcuno obbligo di deposito del loro bilancio, che rimane a disposizione esclusivamente dell'amministrazione finanziaria.
Costi a forfait
Focus su Zug, dunque. Dove ci si può immaginare che su mandato di Gazprom e Eni un esperto professionista locale abbia costituito la joint-venture in tre-quattro giorni e con una spesa di 7-8 mila franchi. «Diciamo che le autorità cantonali - commenta Tommaso di Tanno, docente di diritto tributario a Siena - hanno una "capacità dialettica" assai elevata nel negoziato con aziende e contribuenti facoltosi». Con vantaggi fiscali di tutto rilievo: una tassa federale dell'8,5% sugli utili alla quale se ne aggiunge una cantonale del 6,5%, che tuttavia le holding non pagano, visto che a Zug possono godere di regimi «privilegiati». Il tutto grazie alla «concorrenza fiscale» interna alla Svizzera, che fa sì che tra i quaranta luoghi migliori in Europa per non pagare le tasse una ventina siano cantoni elvetici. Ma, soprattutto, a far premio c'è la «flessibilità» sulla redazione dei bilanci, che per quanto riguarda attivi e profitti devono semplicemente soddisfare dei «principi di ordinata presentazione». Senza l'obbligo, quindi, di uniformarsi a standard internazionali riconosciuti, come quelli Ias o quelli americani Gaap. E in particolare - nel caso di aziende che operano «estero su estero» come è e sarà il caso di South Stream - è possibile trattare direttamente con l'amministrazione fiscale un forfait sui costi da riconoscere in bilancio. Una quota percentuale prefissata sui ricavi, detratta la quale resta l'imponibile su cui pagare le tasse. Un sistema che come si può facilmente immaginare lascerebbe un'autostrada davanti a chi volesse mettere in atto pratiche poco trasparenti o addirittura al di là della legge, come consulenze facili, o addirittura la costituzione di fondi. Questione delicata, e all'Eni comunque percepita, visto che nei bilanci la quota del 50% in South Stream Ag (che non è consolidata) compare con una sintetica noterella a margine: la società, si precisa, come altre partecipate svizzere del gruppo risulta ricadere nella «black list» stilata dal ministro Giulio Tremonti nel 2001. Tuttavia essa dichiara che «non si avvale di regimi fiscali privilegiati». Corretto, ma se alla fine South Stream Ag pagherà sugli utili l'aliquota svizzera «senza privilegi» (15%), o quella italiana, pare tutto sommato una questione secondaria rispetto alle domande che pone l'adozione di un sistema, diciamo così, «flessibile» di redazione dei bilanci.
Arriva Gazprombank
Sul versante Nord delle Alpi, però, negli ultimi tempi la partita Gazprom non si è giocata solo sulle joint-venture per i gasdotti. Da un anno e mezzo a questa parte, infatti, in Svizzera ha fatto la sua comparsa anche il braccio finanziario del monopolista di Mosca: Gazprombank, terzo istituto di credito della Russia, dove la casa madre energetica conta per il 41% del capitale e controlla sostanzialmente il board, presieduto da Andrey Akimov. Nel giro di pochi mesi Gazprombank ha messo a segno un paio di manovre che si intersecano con i vecchi scenari noti anche in Italia (caso Mentasti) e lasciano il sospetto che, forse per volontà del Cremlino, si siano ormai regolati diversi affari del passato. A metà 2009 Gazprombank ha acquistato da Vtb, la seconda banca russa, il controllo della Russian Commercial Bank, uno storico crocevia degli interessi russi in Europa occidentale. Ma meglio sarebbe dire che Gazprombank ha provveduto a un vero e proprio salvataggio della Rcb, visto che in pochi mesi ha dovuto sborsare tra garanzie e fondi supplementari 160 milioni di dollari. Rcb, dal 2006, era la controllante del fondo del Liechtenstein Idf, a sua volta controllante della Centrex austriaca ai tempi dello sfumato affare Mentasti. L'uno-due di Gazprombank, che sostiene di aver approfittato dell'occasione per accaparrarsi una banca che ha piena licenza operativa in Europa, ha di fatto azzerato anche i conti sospesi degli anni precedenti. Tra i fondi dei clienti della Rcb si è assistito nel corso del 2009 a una migrazione particolare: 600 milioni di dollari che risultavano attivi su Cipro, dove opera una Russian Commercial Bank Cyprus, sono improvvisamente rientrati verso Mosca. E in questi movimenti non sembrano essere coinvolti interessi esclusivamente russi.
Stefano Agnoli
10 dicembre 2010
"Il gasdotto non è a rischio, recentemente ci siamo accordati con il primo ministro turco di presentare la documentazione legata agli aspetti ambientali e uno studio di fattibilita", ha dichiarato Putin dicendosi fiducioso sulla prospettiva che la Turchia dia il suo placet per il South Stream. Putin ha però indirettamente messo in guardia il governo di Ankara, non escludendo altre opzioni e varianti, rispetto a quella originaria che preved e il trasporto di gas sul fondo del Mar Nero, fino alla Bulgaria dalla quale poi via Serbia, Ungheria e Slovenia dovrebbe raggiungere l'Italia.
"Sebbene ci aspettiamo una risposta positiva dalla Turchia, noi siamo pronti anche per delle alternative", ha detto indicando l'ipotesi di comprimere il gas in un impianto sul Mar Nero per trasportarlo in Bulgaria e rigassificarlo prima di immetterlo nel gasdotto.
"Esistono numerose varianti, e le stiamo valutando e studiando, partendo dal presupposto che niente possa compromettere la realizzazione del South Stream", ha concluso Putin.(ANSA).
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"La Stampa", 22/03/11
Putin: “Una crociata medievale”
Medvedev furioso per il paragone incontra il capo del Pentagono
ANNA ZAFESOVA
La guerra nel Mediterraneo ne fa scoppiare un’altra al Cremlino, con Dmitry Medvedev e Vladimir Putin che si scontrano apertamente. Ieri per la prima volta il presidente ha censurato apertamente il suo predecessore, mentore e premier, che poche ore prima aveva definito la risoluzione dell’Onu sulla no fly zone «un appello medievale alle crociate», che «autorizza tutto, anche l’intervento in un Paese sovrano». Espressioni «inaccettabili», ha subito replicato Medvedev dalla sua dacia di Gorki, ammonendo il premier contro «l’uso di espressioni che possono portare allo scontro di civiltà che rischiano di produrre una situazione di gran lunga peggiore di quella attuale».
Il giovane presidente ha anche dato il suo appoggio alle decisioni prese al Palazzo di Vetro: «Penso che nel complesso la risoluzione rifletta la nostra visione della situazione in Libia, ma non del tutto, per questo non abbiamo esercitato il nostro diritto di veto», ha spiegato. Inutile «starnazzare e dire che non abbiamo capito quello che facevamo», si è lasciato andare Medvedev, quando «la decisione di astenersi all’Onu è stata meditata e realizzata in base alle istruzioni da me impartite al ministero degli Esteri». Un monito più che trasparente a Putin: in Russia è il presidente che detta la politica estera, e il premier può esprimersi solo a titolo personale.
Uno scontro aperto, dunque, dopo mesi di punzecchiature e dispetti, ma anche un’esplicita dichiarazione di due visioni della politica russa. Per Putin - che non a caso ha fatto le sue dichiarazioni da una fabbrica militare, annunciando contemporaneamente il raddoppio della produzione di missili strategici per il 2020 -, «in base a nessun parametro il regime libico può essere annoverato fra le democrazie, ma questo non significa che qualcuno possa intervenire dall’esterno in un conflitto politico, sia pur armato, difendendo una delle parti». Per Medvedev, la condotta di Gheddafi è stata «orribile» e si è macchiato di «crimini contro il suo stesso popolo». Una svolta nella politica estera del Cremlino, che negli ultimi anni aveva sempre preso le difese dei regimi, ma soprattutto una smentita di quella che è stata la linea di difesa dello stesso Putin, da presidente, negli anni dell’offensiva contro la Cecenia.
Ieri - mentre a Mosca arrivava il capo del Pentagono Robert Gates - il presidente e il premier sono apparsi più che mai come i leader di due fazioni diverse dentro il potere russo. Anche per le soluzioni proposte. Per Putin - che ha dato la colpa di quanto sta accadendo in Libia agli Usa, ricordando il loro interventismo in Jugoslavia, Afghanistan e Iraq -, la risposta è armarsi: «Non vogliamo combattere nessuno, ma quello che sta accadendo in Libia è l’ennesima dimostrazione che dobbiamo aumentare la nostra difesa». Per Medvedev, il Colonnello «non è un tipo a cui qualcuno vuole stringere la mano», ma si offre come mediatore fra Tripoli e la comunità internazionale, aggiungendo però che in questo momento «non è chiaro con chi parlare laggiù», se con il regime o con gli insorti. Il «tandem» del Cremlino si è sciolto, e ciascuno pedala per conto suo. Fino alle elezioni del 2012.
"La Repubblica", MARTEDÌ, 22 MARZO 2011
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LIBIA/RADICALI: SIGNIFICATIVA PRESA DI DISTANZE DI MEDVEDEV DA DICHIARAZIONI PUTIN SU CROCIATE. SOLO IL FATTO DI ESSERE RUSSO HA IMPEDITO A PUTIN DI ESSERE INCRIMINATO COME GHEDDAFI E MILOSEVIC DAL TRIBUNALE DELL’AJA PER GENOCIDIO CECENO.
MarcoPerduca (senatore radicale/PD, vice-presidente del Senato del Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito) e Giulio Manfredi (vice-presidente Comitato nazionale Radicali Italiani):
E’ di grande rilevanza politica la presa di distanze del presidente russo Dmitri Medvedev dalle dichiarazioni del premier Vladimir Putin , che aveva sostenuto che la risoluzione dell'Onu sulla Libia ricorda “gli appelli medioevali alle Crociate”. Medvedev dimostra di possedere equilibrio e autonomia di giudizio, mentre Putin, attaccando l’intervento in Libia, difende se stesso: solo il fatto di essere russo gli ha impedito di essere incriminato davanti al Tribunale dell’Aja per i crimini di guerra e i crimini contro l’umanità compiuti dalle truppe russe in Cecenia a partire dal 1999 (100.000 civili uccisi su una popolazione complessiva di 1 milione di abitanti).
Putin meriterebbe lo stesso trattamento riservato dalla giustizia internazionale oggi a Gheddafi e ieri a Milosevic ; noi radicali non ci rassegnamo; il tempo è stato galantuomo per il dittatore nazicomunista serbo, lo può essere anche il nuovo zar russo e il vecchio raiss libico.
Roma, 21 marzo 2011
da rainews24
"Siamo pronti a fare da mediatori"
Medvedev: "Inaccettabili le parole di Putin su "crociata"
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Il presidente russo Dmitry Medvedev ha reagito duramente alle affermazioni del primo ministro Vladimir Putin, suo predecessore, che aveva criticato la risoluzione delle Nazioni Unite, in forza della quale è scattato l'intervento militare occidentale in Libia, paragonandola a una "chiamata alle Crociate come nel Medio Evo", aggiungendo che l'esistenza di un regime quale quello di Muammar Gheddafi di per sè non autorizza un'operazione bellica del genere.
Contrasto inedito tra Putin e Medvedev
Mosca, 21-03-2011
Il presidente russo Dmitry Medvedev ha reagito duramente alle affermazioni del primo ministro Vladimir Putin, suo predecessore, che aveva criticato la risoluzione delle Nazioni Unite, in forza della quale è scattato l'intervento militare occidentale in Libia, paragonandola a una "chiamata alle Crociate come nel Medio Evo", aggiungendo che l'esistenza di un regime quale quello di Muammar Gheddafi di per se' non autorizza un'operazione bellica del genere.
Parole del genere, ha denunciato Medvedev, sono semplicemente "inaccettabili" giacche' "in nessuna circostanza è tollerabile l'uso di espressioni, tipo 'crociata' o altro, che in sostanza conducono a uno scontro di civiltà.
Si tratta della più clamorosa manifestazione pubblica di contrasto mai avvenuta tra i due leader del Cremlino, in concorrenza tra loro per le presidenziali previste in Russia l'anno prossimo. "E' inaccettabile", ha ripetuto Medvedev, "altrimenti qualsiasi cosa può andare a finire peggio ancora di come sta andando adesso la situazione. Chiunque", ha volutamente rimarcato, "se lo deve ricordare". Poi ha sottolineato che quanto sta avvenendo nel Paese nord-africano "deriva dall'orrendo comportamento dei suoi vertici" e "dai crimini da essi perpetrati contro il loro stesso popolo".
Il presidente russo ha quindi ribadito che Mosca non intende unirsi alla coalizione multinazionale anti-Gheddafi, ma è tuttavia disposta a partecipare ad attivita' di interposizione tra ribelli e lealisti libici.
diretta di repubblica.it
"Affari Internazionali"
Mercato del gas
L’Europa verso la diversificazione energetica
Nicolò Sartori
13/03/2011
Le crisi in Nord Africa e Medio Oriente alimentano crescenti dubbi e speculazioni sul futuro energetico dell’Italia e dell’Unione europea. Al centro dell’attenzione è stato finora il petrolio, il cui prezzo è salito considerevolmente, ma anche il settore del gas naturale sta risentendo dei sommovimenti politici in atto nel Mediterraneo. In particolare, la recente chiusura del gasdotto italo-libico Greenstream, in grado di trasportare otto miliardi di metri cubi di gas naturale sulle coste siciliane, ha evidenziato l’importanza di efficaci politiche di diversificazione energetica.
Se l’interruzione delle forniture libiche non ha causato eccessivi problemi agli approvvigionamenti del vecchio continente, lo si deve infatti alle politiche di diversificazione delle fonti di approvvigionamento energetico attuate dai governi negli ultimi anni. Servono però ulteriori passi avanti sulla via della diversificazione sia a livello nazionale che europeo.
I nodi del mercato del gas
All’interno dell’Unione europea si consumano attualmente circa 500 miliardi di metri cubi di gas naturale, che vengono principalmente utilizzati per scopi domestici, ma che forniscono un contributo sempre più decisivo alla generazione di energia elettrica. Il peso del gas naturale sul mix energetico dei paesi europei è destinato a crescere, per raggiungere una percentuale del 34% nel 2030.
I principali consumatori sono Germania, Regno Unito, Francia, Spagna e ovviamente Italia, il cui mix energetico è particolarmente sbilanciato a favore del gas naturale. Ciascuno di questi paesi ha sviluppato una propria strategia per la gestione e la diversificazione degli approvvigionamenti. Mentre paesi come Germania e Italia hanno sviluppato intense relazioni bilaterali con la Russia, la Spagna ha puntato su partnership regionali con i produttori nordafricani, mentre il Regno Unito gode tuttora della propria (seppur declinante) capacità di produzione domestica. I paesi dell’Europa orientale sono quasi completamente dipendenti dalle forniture russe.
L’incidenza delle importazioni da paesi non-Ue è inferiore rispetto al petrolio grazie alla produzione di paesi come Regno Unito, Olanda e Germania. A differenza del greggio, il grosso delle importazioni di gas naturale proviene da un ristretto numero di paesi: Russia, Norvegia, Algeria, Libia e Nigeria. Sebbene non siano finora sorti gravi problemi per gli approvvigionamenti dall’estero, già prima delle recenti tensioni in Nord Africa e Medio Oriente, le dispute sulle forniture di gas dalla Russia avevano portato alla ribalta la necessità di diversificare le fonti di gas naturale. Le ingenti risorse del Mar Caspio e il gas naturale liquefatto (Lng) sembrano le opzioni migliori.
Caspio e corridoio sud
Un tempo cuore dell’industria energetica sovietica, il Mar Caspio e i paesi rivieraschi, come Azerbaijan, Kazakhstan e Turkmenistan, hanno attirato una crescente attenzione da parte dei governi occidentali. Le aspettative che la regione potesse diventare un nuovo centro gravitazionale del mercato energetico globale sono state però ridimensionate da circostanze di tipo geologico, politico, legale e commerciale.
I tre paesi in questione ospitano attualmente il 3,5% delle riserve accertate di greggio ed il 6% di quelle di gas naturale. Il Kazakhstan, con il 3% delle riserve globali, spicca nel settore petrolifero, mentre il Turkmenistan è il quarto paese al mondo (4,3%) per il gas naturale. Questi dati giustificano l’interesse degli attori esterni, ma non sono tali da configurare le risorse della regione come un alternativa a quelle del Medio Oriente e, in genrale, dei paesi Opec.
Russia e Cina sono i partner energetici più influenti, soprattutto nei due paesi centrasiatici: Pechino, grazie alla propria intraprendenza economica e commerciale, e Mosca, grazie ai legami politici di cui gode, sono in grado di contenere le velleità occidentali nella regione.
A ciò si aggiunge l’incerto status legale del Mar Caspio, tutt’ora oggetto di aspra contesa tra gli stati rivieraschi (Russia, Kazakhstan, Turkmenistan, Iran e Azerbaijan), che impedisce il trasporto delle forniture kazake e turkmene verso occidente, se non passando attraverso il territorio di Russia e Iran (che non hanno interesse a favorire le esportazioni dei paesi della regioni verso occidente).
Queste circostanze limitano notevolmente la possibilità di ottenere abbondanti e sicure forniture dalla regione caspica. Attualmente, infatti, le uniche risorse commercialmente disponibili sembrano essere quelle azere, il cui sviluppo ha tuttavia conosciuto notevoli ritardi e intoppi negli ultimi anni. Di qui anche le difficoltà degli ambiziosi progetti infrastrutturali europei per il corridoio sud. Nabucco, un gasdotto da 31 miliardi di metri cubi annui e un costo di 14 miliardi di euro, ha scarsa sostenibilità commerciale, date le limitate risorse a cui può effettivamente attingere.
Sembra dunque necessario un approccio più graduale. Si tratta di garantirsi l’accesso alle (effettive e potenziali) risorse energetiche del Caspio, evitando però di imbarcarsi in investimenti dai costi sproporzionati e non giustificati dalle potenzialità commerciali.
La Trans-Adriatic Pipeline (Tap) e l’interconnettore Turchia-Grecia-Italia (Itgi), entrambi pensati per sfruttare le infrastrutture energetiche già presenti sul territorio turco, sembrano in grado di rispondere alle esigenze di flessibilità e di contenimento dei costi dettate dall’attuale situazione sul lato delle forniture, permettendo di investire i fondi risparmiati in altri settori chiave per la sicurezza energetica europea.
La nuova frontiera del gas liquefatto
Il grande vantaggio di una soluzione di questo tipo è la possibilità di destinare parte dei fondi risparmiati a investimenti nel settore del gas naturale liquefatto (Lng), un settore che potrebbe diventare fondamentale per le strategie europee di diversificazione energetica.
Ad oggi, poco più di 60 miliardi di metri cubi, su un totale di circa 450, vengono annualmente forniti al mercato europeo dal Lng. Tuttavia, i progressi tecnologici e i crescenti sforzi di paesi produttori fino a pochi anni fa scarsamente presenti sul mercato (a causa della rigidità dello stesso) stanno rendendo l’opzione Lng sempre più appetibile anche per il continente europeo. In effetti, le importazioni di Lng sono passate da 47 bmc nel 2007 a 63 bcm nel 2009, nonostante la crisi globale abbia ridotto i consumi totali.
L’eccesso di offerta determinata dalla crisi globale e la prospettiva che le ingenti riserve di shale gas scoperte negli Stati Uniti modifichino la geografia delle forniture globali di gas naturale, liberando risorse di paesi produttori quali Canada, Trinidad e Tobago, Egitto, Qatar e Nigeria, impongono alle autorità e alle compagnie europee di riflettere seriamente sulla necessità di avviare investimenti per incrementare la capacità di ricezione e approvvigionamento di Lng. Fra i paesi all’avanguardia si segnala la Spagna, che importa da sola quasi la metà dell’Lng destinato al mercato europeo. La stessa Italia, grazie anche alle sue (seppur ancora ridotte) capacità di rigassificazione è recentemente riuscita a far fronte efficacemente all’improvvisa chiusura del gasdotto Greenstream.
Lo sviluppo di un’articolata capacità di rigassificazione e stoccaggio, pianificata razionalmente in modo da servire gli interessi di tutti gli stati membri, dovrebbe perciò diventare un tassello fondamentale della strategia di diversificazione energetica perseguita dalle autorità europee e nazionali.
Nicolò Sartori è assistente alla ricerca dell’Istituto Affari Internazionali.
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"La Stampa", 19/03/11
La Bielorussia rischia l’asservimento alla Russia
[JASON BUSH]
La causa immediata di questo nervosismo risiede nel rilassamento delle politiche fiscali e monetarie della Bielorussia - frutto dell'eccesso di spesa e di credito che ha preceduto le elezioni presidenziali dello scorso dicembre. Ma esistono anche cause più profonde. Il presidente Alexander Lukashenko, con la sua demagogia anti-occidentale, ha rifiutato per anni qualunque riforma del mercato. Poteva permetterselo finché poteva contare su un afflusso di petrolio e gas a basso costo dalla Russia, materie prime che poi la Bielorussia riesportava ricavandone alti profitti. Ma la Russia ha progressivamente aumentato i prezzi dell'energia, mettendo a nudo la natura assai poco competitiva dell'economia di stato bielorussa. Tra il 2008 e il 2010, il disavanzo di conto corrente è cresciuto dall'8,6% al 16% del PIL. Negli stessi tre anni, il debito esterno è schizzato dal 25% al 52%. Il debito pubblico è salito dal 6,8% del PIL al 21% - senza includere le numerose aziende di proprietà statale che stanno contraendo prestiti in abbondanza. Ora Lukashenko ha poche alternative se non quella di presentarsi col cappello in mano dalla Russia, che astutamente gli sta facendo intravedere la possibilità di un prestito da 3 miliardi di dollari condizionato all'impegno a varare riforme strutturali del tipo richiesto dall'FMI. E la dipendenza dai capitali russi metterà in evidenza anche il crescente asservimento politico della Bielorussia al suo potente vicino.
Per approfondimenti: http://www.breakingviews.com/ (Traduzioni a cura del Gruppo Logos)
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"La Repubblica", VENERDÌ, 11 MARZO 2011
Mosca
La porta dei desideri è di alluminio anodizzato. Qui si entra per chiedere giustizia, strappare qualche favore, invocare un miracolo che possa cambiarci la vita. Via Perejaslavskij numero 4, periferia nord di Mosca, palazzina rosa, proprietà del partito di governo Russia Unita. Sulla targa d´ottone c´è scritto: «Accettazione delle richieste per Vladimir Vladimirovic Putin». Niente qualifiche, basta il nome. Lui ascolta le suppliche, lui risponde sempre e con firma autografa, e qualche volta risolve anche il problema. La coda è ordinata, venti persone già all´apertura, alle 10 del mattino. Ne arriveranno più di cento da qui alle 17, ora di chiusura. L´accoglienza ispira fiducia. L´anziana con il foulard colorato che aspetta da un´ora, fissa rinfrancata i divani di pelle, i distributori di bevande, le foto del premier che riempiono due pareti. Dodici gentilissimi impiegati l´aiutano a superare le difficoltà del metal detector, la invitano ad accomodarsi con gli altri che ammirano speranzosi la sala d´attesa. Presto le loro richieste verranno tradotte per iscritto, registrate e messe al vaglio del premier. Lui, giurano, viene almeno una volta alla settimana a leggere, esaminare, provvedere. Natasha ringrazia, posa sul tavolo in vetro fumé la borsa della spesa. Accanto le si è seduto Vassilij, un colosso biondo con le mani tatuate. E´ arrivato da Rostov sul Don. Anche lì, e in tutta la Russia ci sono uffici come questo ma lui vuole essere sicuro di raggiungere il Capo. Mostra una borsa piena di carte: «Abito da anni in una casa che non mi lasciano privatizzare. Sono tutti corrotti, giudici, ingegneri comunali. Povero Putin, lui non può saperlo. Appena leggerà la mia supplica caccerà tutti a pedate e mi darà ragione».
Alla speranza del biondo si associa un vecchio dagli occhiali scuri e il bastone. Anche lui viene da lontano, dal confine bielorusso: «Per 40anni ho cercato le tracce di mio fratello Volodja, caduto con l´Armata Rossa in Polonia. Poi ho finalmente individuato la sua tomba ma non ho i soldi per il viaggio. Putin mi aiuterà, deve farlo». Il coro sui divani di pelle si alza gonfio di speranza. Un distinto quarantenne vuole far pubblicare la sua teoria sul rinnovo urbanistico di Mosca che «i burocrati mi stanno boicottando». Una donna del sobborgo di Kimki, chiede un aiuto contro delle strane voci che sente in casa. L´impiegato sorride complice: «Di questi ne vengono tanti. C´è chi sente oscure presenze, chi accusa il medico di avergli messo un chip nel cervello...». E Putin che fa? «Prepariamo risposte generiche e affettuose, e magari informiamo discretamente i familiari». Un giovane con gli occhiali fissa il pavimento con l´aria timida: «Cosa chiedo? Questioni familiari. Riservate». Ma non vorrà per caso parlare a Putin dei suoi problemi di cuore? Lui sospira teatrale: «E a chi, se no?».
L´arte della supplica, antica tradizione degli zar ripercorsa da Lenin ai primi anni della Rivoluzione, ha terreno fertile tra i russi. Via Perejaslavsjkij 4, è ormai un´istituzione che rivaleggia con il più pomposo indirizzo postale «Dmitri Medvedev, presidente di Russia, Cremlino». Un operaio che chiede giustizia per una lite in fabbrica spiega la differenza: «Tutti abbiamo scritto a Medvedev ma arrivano solo prestampati pieni di parole difficili. Putin invece si interessa davvero». Tocca a Natasha che per concentrarsi si toglie il foulard colorato e detta la sua supplica. Chiede giustizia per il nipote Aleksej, capitano della squadra della scuola media al torneo rionale. L´arbitro, dice, lo ha espulso ingiustamente. La squadra ha perso e quindici ragazzi di 14 anni piangono inconsolabili. Nonna Natasha fissa l´impiegato negli occhi: «Lo scriva bene. Queste sono proprio le cose che Putin non può soffrire. Ci penserà lui a mettere a posto quel venduto».
http://www.balcanicaucaso.org/aree/Georgia/Conflitti-congelati-conflitti...
Conflitti congelati, conflitti protratti ita
Marilisa Lorusso
7 marzo 2011
1 Commento
Sede della Nazioni Unite a Ginevra (flickr/un_photo)
Il 4 marzo scorso si è tenuta la quindicesima sessione delle Discussioni di Ginevra, il difficile esercizio diplomatico che cerca di trovare risposta politica alla guerra dell’agosto 2008 in Georgia. Sul terreno non si registrano scontri, tutto sembra stabile. Ma la situazione nelle due entità secessioniste è in continua evoluzione
Le fonti internazionali hanno usato per anni l’espressione “conflitti congelati”, per descrivere lo stallo che caratterizzava le negoziazioni per una soluzione politica dei conflitti riguardanti Abkhazia, Ossezia del Sud e Nagorno Karabakh. Il rappresentante speciale OSCE per i conflitti sud caucasici al tavolo delle trattative di Ginevra ha invece come parte della sua denominazione ufficiale la formula “for protracted conflicts”, “per conflitti protratti”. Non è un virtuosismo linguistico, e non solo perché i conflitti che riguardano le regioni secessioniste georgiane si sono “scongelati” nell’agosto 2008. A differenza di “conflitto congelato”, la formula “conflitto protratto” suggerisce che la situazione nei territori contesi sia in continua evoluzione.
Così dall’inizio degli anni ’90, quando al crollo dell’Unione Sovietica scoppiarono le due guerre secessioniste in Ossezia del Sud e in Abkhazia, alla guerra e invasione dell’agosto 2008, la situazione delle due repubbliche secessioniste ha continuato a evolversi: sono state adottate le costituzioni, si sono tenute le elezioni per gli organi di amministrazione locale, esecutivi, legislativi, si sono consolidate le istituzioni statali, i gruppi di interesse, la narrazione della storia.
Indipendenza in evoluzione
Vai al dossier di Osservatorio sul conflitto dell'agosto 2008
Il cessate il fuoco insito nel Six Point Agreement [l'accordo, noto anche come Medvev-Sarkozy, che il 12 agosto 2008 ha posto fine alle fase più acuta delle ostilità tra Russia e Georgia, ndr] ha in effetti fermato il conflitto nei territori contesi, tanto che il territorio georgiano è l’unico in tutto il Caucaso a non registrare dall’inizio dell’anno episodi di sangue. Non si è invece arrestato il consolidamento di Abkhazia e Ossezia del Sud, le due repubbliche de facto che sempre di più si allontanano da Tbilisi. Hanno una politica estera indipendente, in primis con la Russia, poi con i Paesi che le riconoscono (Venezuela, Nauru, Nicaragua) e con quelli che per un motivo o per l’altro (Turchia, Giordania) intrattengono rapporti commerciali con esse. Esercitano la propria sovranità, a volte con un forte condizionamento russo, sulla gestione del territorio, del sottosuolo, delle fonti di ricchezza e della sua ripartizione.
In Abkhazia una commissione russo-abkhaza fornisce pareri e indicazioni sulla gestione degli immobili di appartenenza degli sfollati dei due conflitti. Contro questa politica tuona il ministero degli Esteri georgiano, che accusa la Russia di “fascismo etnico”, poiché i diritti di proprietà dei cittadini russi di origine georgiana non sarebbero garantiti o rispettati dalle decisioni della commissione. L’annosa questione delle proprietà private degli sfollati si intreccia con il problema irrisolto dei rientri e delle richieste di compensazione di guerra che rappresentano il lato più sensibile delle trattative post-conflitto non solo dal punto di vista economico, ma anche per quanto riguarda la sicurezza delle persone.
Se questa situazione si è solo inacerbita rispetto al quadro pre-agosto 2008, altri elementi di sovranità georgiana hanno subito un ridimensionamento più significativo: l’uso della moneta, gli attraversamenti della linea di divisione amministrativa, i documenti personali, sono tutti fattori che negli ultimi due anni stanno rendendo la spaccatura fra Tbilisi e Sukhumi/Tskhinvali sempre più difficile da ridurre.
Fino al 2008 il Lari, la moneta georgiana, pur non essendo la moneta “nazionale” di Abkhazia e Ossezia del Sud, veniva utilizzato soprattutto nelle zone con traffici più diretti e intensi con i distretti sotto controllo georgiano, per esempio ad Akhalgori. Dal 17 febbraio scorso l’utilizzo del Lari è vietato per delibera delle autorità sud ossetine.
La progressiva trasformazione della linea di demarcazione amministrativa in “confine di Stato” ha avuto una serie di conseguenze che vanno dalla riduzione del numero dei punti di attraversamento alla militarizzazione degli attraversamenti stessi e – effetto nefasto per la popolazione – ad un aumento delle detenzioni per “attraversamento illegale”. Quest’ultimo fenomeno appare particolarmente critico lungo i “confini” dell’Ossezia del Sud, dove dall’inizio dell’anno almeno 4 persone sono state arrestate in simili circostanze. Ripreso a funzionare il Meccanismo per Prevenzione e Reazione degli Incidenti a Ergneti/Dvani, le vittime di questo procedimento hanno un forum idoneo dove i loro casi possono venire discussi dalle parti e – possibilmente – risolti. Il Meccanismo, abbreviato in IPRM (Incident Prevention and Response Mechanism) è ripreso dopo una pausa di circa un anno, mentre a Gali, sul fronte abkhazo, si è tenuto con regolarità dalla sua introduzione, giungendo attualmente a 25 incontri tenutesi a cadenza bi-tri settimanale. Per quanto riguarda la questione degli attraversamenti fra Abkhazia e Georgia il Presidente de facto Sergej Bagapsh ha dichiarato: “Non ci opponiamo al fatto che gli abitanti del distretto di Gali vadano a trovare i propri cari nel vicino distretto di Zugdidi. Ma un sistema deve essere applicato, devono essere determinate le regole e i punti di passaggio di attraversamento della frontiera con la Georgia. In futuro se verranno stabilite normali relazioni con la Georgia, potremmo avere due o tre punti di passaggio di questo tipo”. In un futuro in cui – cioè – la Georgia rinunciasse alla propria integrità territoriale. Un futuro che a Tbilisi non pare plausibile nemmeno in via ipotetica.
Passaporti e demografia
Fino al conflitto del 2008 le entità non avevano perseguito una politica rigorosa nella creazione di un corpus di cittadini. Dopo il conflitto la “passaportizzazione” ha subito un’accelerata che è culminata quest’anno in Ossezia del Sud con la distribuzione dei passaporti interni nel distretto di Akhalgori, che in effetti sostituiscono le carte d’identità emesse dal governo di Tbilisi, pur senza l’obbligo di rinunciare alla cittadinanza georgiana. Dal 15 febbraio i nuovi passaporti biometrici dovrebbero essere in distribuzione su tutto il territorio della regione. In Abkhazia la validità dei passaporti sovietici è scaduta con la fine di gennaio. I cittadini che dovessero lasciare la Repubblica dovrebbero essere in possesso di un passaporto russo o di uno dei 17.337 passaporti abkhazi recentemente emessi. Sukhumi ha inoltre tenuto, dal 21 al 28 febbraio, un censimento “nazionale”. L’ultimo censimento ufficiale era quello sovietico, del 1989, secondo il quale dei 525.061 cittadini residenti in Abkhazia, il 45,7% erano georgiani etnici, il 17,8% abkhazi, il 14,6% armeni, il 14,3% russi. Secondo una stima dell'International Crisis Group del 2006, i residenti in territorio abkhazia sarebbero ridotti a 157.000-190.000, mentre nel 2003 le de facto autorità di Sukhumi dichiararono una cifra di 215.000 cittadini, di cui il 43,8% abkhazi, il 20,8% armeni, il 19,6% georgiani.
Sullo sfondo di questo panorama sempre più complesso, demograficamente impoverito, regionalmente meno integrato e più conflittuale, le Discussioni di Ginevra sono l’unico canale politico aperto di trattativa. Altri strumenti sono a disposizione delle parti (l’attività della Croce Rossa o del Consiglio d’Europa) per la risoluzione di episodi specifici, ma solo a Ginevra abkhazi, ossetini, russi, georgiani, siedono, a fianco di una delegazione americana e sotto la guida di OSCE, Unione Europea, ONU, per confrontarsi sulle proposte e sulle esigenze delle differenti parti. Certo è che, se non verrà rinforzato dalla pressione continua della comunità internazionale intesa anche come singoli Stati e – ancora più significativamente – dalla volontà politica delle parti direttamente coinvolte, è un canale attraverso cui si cerca di far passare un fiume.
(http://marilisalorusso.blogspot.com/ - il blog di Marilisa Lorusso dedicato al Caucaso del sud)
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