PINELLI Una finestra sulla strage

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PINELLI
Una finestra sulla strage
CAMILLA CEDERNA
Feltrinelli, 1971

Mezzanotte è passata da poco, ma è difficile dormire bene dopo una giornata come quella del 15 dicembre 1969, dopo il funerale delle vittime della Banca dell'Agricoltura. Come se tutta quell'angoscia fosse entrata nelle ossa insieme a una nebbia mai vista che rendeva bassissimo il cielo e nero il mezzogiorno. E con ancora nelle orecchie l'eco dei singhiozzi delle famiglie mentre il coro delle voci bianche in Duomo pregava Dio di aprire le porte del cielo ai loro parenti straziati. Poi quel silenzio compatto, monumentale, che aveva salutato le bare sul sagrato, quei grappoli oscuri di gente ai balconi e alle finestre, quel tappeto di folla immobile e buia nel buio che copriva tutta la città paralizzata, una quantità di gente venuta da lontano a circondare il Duomo, visi chiusi, espressioni sgomente, un dolore unanime e una tensione quasi fisicamente percepibili.

Cinque ore in Duomo in piedi a un banco per meglio vedere e sentire, un'ora in giro dopo, a casa a scrivere uno degli articoli piú difficili di una lunga carriera (dovevo cominciare dalle bombe del 12, da tutto quel sangue, i rottami, i carabinieri che svengono, il sindaco che esce dalla banca coi viso color terra, i parenti che vengono portati via piegati in due con la faccia tra le mani, i racconti degli scampati, il volo dei corpi mutilati sotto la cupola dei salone, ecco la guerra, i bombardamenti, il caos, il massacro, il macello, ecco l'odor di guerra, di sangue caldo e di polvere da sparo, di carne bruciata e di zolfo). E adesso a letto col sonno che non arriva.Arriva invece una telefonata. "Sei già a letto? -Non importa. Fra cinque minuti davanti al tuo cancello.» «Perché? » «Un uomo si è buttato da una finestra della questura, non farci aspettare, andiamo a dare un'occhiata. » Sono due amici coi quali ho sempre corso in questi giorni, Corrado Stajano e Giampaolo Pansa, hanno la faccia e i modi di questi giorni, gesti frettolosi, rabbia e dolore negli occhi.
Via di corsa al Fatebenefratelli dove è stato trasportato il morente
nell'atrio c'è un gruppetto di poliziotti.
Curiosa come sempre, guardando davanti a me come se qualcuno mi aspettasse con ansia, mi dirigo verso le stanzette del Pronto Soccorso. Mi imbatto in poliziotti in borghese, riesco a vedere i piedi di un uomo disteso su un lettino, mi viene incontro il medico capoturno (saprò dopo che è Nazzareno Fiorenzano).

Prima che alle mie spalle un giornalista concorrente faccia segno a un agente di non lasciarmi passare, il medico mi dà notizie del nuovo arrivato. «Niente piú attività cardiaca apprezzabile, polso assente, lesioni addominali paurose, una serie di tagli alla testa. Abbiamo tentato di tutto, ma non c'è niente da fare, durerà poco. » Fa a tempo a chiedermi se so chi è quest'uomo con la barbetta che è stato accompagnato all'ospedale da una scorta imponente della questura, dirigenti in testa e anche carabinieri, perché a lui, nonostante l'avesse chiesto píú d'una volta, non avevano voluto rispondere. "E' un anarchico," gli dico, «si chiama Giuseppe Pinelli," l'ho saputo un minuto prima, senza rendermi conto naturalmente che sarebbe diventato per me un nome dei piú familiari, che di lí a pochi mesi mi sembrerà d'averlo conosciuto da sempre, lui, i suoi sogni, la sua generosità leggendaria, la sua sete di sapere, la sua voglia di vivere, le sue bambine, la mogli, Licia che un po' l'ammira e un po' lo prende in giro.

E adesso come non correre a casa sua a parlare con la moglie? Via Preneste 2, una casa popolare, una povera scala e già due cronisti del "Corriere» che la scendono in fretta. Sono stati loro ad avvertire la signora Pinelli che suo marito si è gettato dalla finestra. E noi siamo lí subito dopo, io almeno con quel senso di vergogna che prende un giornalista quando entra nella casa dei dolore, a tendere il collo sopra il taccuino, a far domande alle volte anche crudeli a chi piange. Ma Licia Pinelli non piange, ed è per questo che fa piú impressione è lí tutta dritta nella sua vestaglietta rosa dal collettino ricamato, con un bel viso grigio di pallore e gli occhi intenti che han sotto un alone scuro. Parla piano per non svegliare le bambine, ma, decisa a non lasciarci entrare, socchiude appena la porta, e sta lí ben piantata in quella fessura, a difendere la sua casa.

La sua voce è ferma, senza incrinature il marito lei non lo vede dal pomeriggio del 12, da quando, dopo aver dormito fino a mezzogiorno e dopo aver fatto da mangiare, era uscito a prendere la tredicesima. Lei sa che poi era andato alla sede del Movimento anarchico, sa che ha seguito i poliziotti in questura, lui le ha telefonato due volte al giorno per dirle di star tranquilla, tanto è abituato a questi incontri; e hanno fatto anche una perquisizione in casa, bisognava vedere com'erano spaventati i poliziotti da tutti quei libri avevan finito col portare via qualche documento e delle lettere personali. Certo che non è per la violenza, è partigiano della fratellanza, universale, lui vuole soltanto una società piú umana. Le hanno detto soltanto che si è buttato, non le hanno detto ancora che è morto mentre parliamo, passa tra noi e la porta una vchíetta dagli occhi rossi e il fazzoletto nero in testa è la madre di Pinelli che corre all'ospedale.

Ed è ora per noi di andarcene ce lo fa capire senza dircelo la signora Licia, la cui dignità, non solo fisica, colpisce soprattutto i due uomini. La notte però non è finita se non si fa un salto in questura.

In fondo al cortile a sinistra, sotto un grande arbusto dai rami spogli (e qualcuno è a terra spezzato), tra una palma e un abete, c'è ancora un'umida macchia, quasi un'oscura impronta della recente caduta non c'è bisogno di passar di là per raggiungere lo studio del questore Marcello Guida sta al primo piano nel corpo anteriore di quello che è stato una volta il mio liceo, è proprio dove c'era l'ufficio del preside, e qualche volta, in tempi ormai molto lontani, in occasione di un sette in condotta per un'indisciplina flagrante, ero stata chiamata in quella stanza da un vecchio accigliato per un rimbrotto severo.

Tutta diversa l'atmosfera di questa notte aspettiamo qualche minuto che esca un uomo dall'aspetto stravolto (è l'on. Malagugini, corso a parlare con le autorità a pochi minuti dal fatto) e siamo ricevuti con gentilezza insieme a chi aspettava con noi, la giornalista Renata Bottarelli dell"Unità,» il giornalista Giampietro Testa dei «Giorno.» Comode le poltrone, spesse le tende, giustamente decorativi i quadri Ottocento alle pareti, belle verdi le piante negli angoli, un'atmosfera rilassata, anzi quasi euforica, come se niente di cosí terribile fosse successo da poco a pochi metri di là, o come se quello che era successo avesse finalmente sciolto un difficile nodo; e un bel sorriso sul volto roseo del questore che, vestito di grigio-e cravatta azzurra come i suoi occhi, ci viene incontro tendendo la mano. «La signora Cederna?" mi fa. «Sono contento di conoscerla, la leggo sempre, le dirò anzi che sono un suo ammiratore, che mi diverto a leggere i suoi articoli» (certamente non immaginando come di lí a poco e per due anni almeno i miei articoli l'avrebbero reso furioso), quindi con un gesto di cordiale benvenuto ("vuol fumare? Le dà fastidio il fumo? Vuole che apriamo la finestra? Per carità, allora fumiamo noi ... ») mi fa sedere in poltrona. Mi sforzo di guardare tutto, di non perdere un particolare, un tono di voce; non so come, ma sento che è una notte importante, una circostanza che certo avrà un seguito.

Alla destra della poltrona del questore c'è la bandiera; alla sua sinistra stanno schierati gli altri funzionari, il capo dell'ufficio politico Antonino Allegra, il commissario Luigi Calabresi con uno dei suoi pullover di cashemire chiaro dal collo alto che fanno di lui, se non l'uomo più elegante, almeno il piú moderno della questura. Una scena che non dimenticherò mai, un salotto in cui mancava appena che venisse offerto un bicchiere di whisky, un tono leggero e mondano, appena incrinato da un'altra presenza da quel tenente dei carabinieri in uniforme che stando un po' in disparte ogni tanto se ne andava su e gíú sullo sfondo, ed era il tenente Savino Lo Grano, l'unico a parere, ad alcuni di noi, inquieto e turbato.

Il questore Guida non l'avevo mai visto all'una e mezza di notte e in quel salotto mi parve l'immagine del gentiluomo napoletano di vecchio stampo, di piglio garbato e di eloquío condiscendente, né ancora sapevo che nel '42 aveva diretto il confino politico di Ventotene. Il dottor Allegra l'avevo conosciuto a una conferenza stampa il 26 aprile dopo gli attentati alla Fiera e alla stazione, con un cartoccio in mano, e dentro del filo metallico, una specie di rocchetto e una rotellina da mostrare ai giornalisti, la prova, secondo lui, insieme a un disegno incomprensibile, che gli attentati erano «quasi sicuramente di matrice anarchica.» Di Calabresi sapevo che sulla mia agenda degli indirizzi figurava tra i vari funzionari di questura e, tra parentesi, avevo scritto quello che mi aveva suggerito un amico, cioè «intellettuale" (quello che leggeva, che stava al corrente).

Che non fosse un intellettuale me n'ero dovuta però accorgere per la prima volta un paio di mesi prima. Infatti, quando in occasione di un articolo sull'ordinanza del consigliere istruttore Antonio Amati che respingeva le istanze di scarcerazione di cinque anarchici detenuti da cinque mesi per gli attentati del 25 aprile (con una motivazione che sarebbe piaciuta a Ferravilla «Perché risultavano prove evidenti, prove certe essendo state raggiunte»), proprio allora l'avevo visto in azione.

Per ben due volte in settembre (un giorno in occasione di una manifestazione di anarchici che protestavano contro la reclusione dei loro compagni, un altro giorno durante uno sciopero della fame fatto sempre davanti al palazzo di giustizia per solidarietà coi detenuti), sui dimostranti avevo visto abbattersi a ondate successive gruppetti di funzionari di questura. Con scatto deciso e cupa eccitazione, a píú riprese i questurini eran balzati fuori dalla 1100 blu a strappare i cartelli, a minacciare i dimostranti. infine a malmenarli con durezza. Sempre di corsa e in composizione alterna erano cinque uomini fra cui i commissari Pagnozzi e Zagari, il vicequestore Luigi Vittoria, e il piú ginnasticato ed elastico di tutti, precisamente il bruno Calabresi, dal ciuffo denso e il colletto dolcevita. (Di qui la denuncia alla Procura contro di loro per attentato ai diritti politici dei cittadini; e l'avevano firmata, oltre a dei passanti esasperati, anche alcuni avvocati del Comitato di difesa e di lotta contro la repressione.)

Ed eccolo, il Calabresi, nello studio del questore, la notte dal 15 al 16 dicembre, che annuisce gravemente a quel che dice il suo superiore. "Cos'è successo, chi era il Pinelli, perché si è buttato?» le domande dei giornalisti.
E il questore «Era fortemente indiziato di concorso in
strage... era un anarchico individualista... il suo alibi era
crollato... non posso dire altro... si è visto perduto... è stato un gesto disperato.'. una specie di autoaccusa insomma.." (queste le frasi scritte sul mio taccuino). «Era fermato o arrestato? » chiede uno di noi. « Il suo era un fermo di polizia prorogato dall'autorità." Alla domanda sul perché, con quel freddo, la finestra fosse aperta, aveva
risposto «Per via dei fumo. Fumavano tutti, fumava anche lui. »

Al momento della domanda sull'identitá del personaggio era stato Allegra a rispondere " Lo conoscevamo da tempo, era stato interrogato anche per gli attentati del 25 aprile. Era un esponente anarchico, responsabile del Circolo della Ghisolfa. " E qui era intervenuto il Calabresi con la sua voce bassa e ovattata « Lo credevamo incapace di violenze, invece... è risultato collegato a persone sospette... le sue erano implicazioni politiche ... » Parla con calma, quasi con ponderazione, nessuno lo direbbe il funzionario che un'ora prima, quando Licia Pinelli gli aveva telefonato per chiedergli se era vero che suo marito era caduto dalla finestra, e perché non l'avesse avvisata, non aveva trovato altro da dire "Ma sa, signora... abbiamo molto da fare.»

Alla domanda finale sul come fosse avvenuto il salto, riprese a parlare il questore «Gli si è detto che erano successe alcune cose. Gli è stato fatto il nome di una certa persona. Eravamo in fase di contestazione di indizi. Evidentemente a un certo punto si è trovato come incastrato. Allora è crollato psicologicamente. Non ha retto... Non è stato verbalizzato niente» (sempre dal mio taccuino).

Il colloquio è finito, la notte è cupa e freddissima, non c'è una persona in giro, ognuno di noi è perplesso, scosso, scontento, e naturalmente non ha sonno. Quelli dei quotidiani corrono ai loro giornali, io torno a letto in stato di confusa stanchezza, continuando a ripensare a quanto ci hanno detto questi signori tranquilli, a chiedermi cosa mai ci potesse esser dietro la loro mimica e i loro sorrisi, la loro disinvoltura quasi salottiera rivedo Licia Pinelli, tragicamente impavida sulla soglia di casa, mi ricordo di altri caduti dalle finestre della questura durante un interrogatorio (uno in Venezuela, un altro in Grecia, mi pare, e poi il comunista spagnolo Grimau), e al mattino rimetto insieme i brandelli di un sogno, che formano un preciso ricordo, quel che era capitato alla mia zia Bice, all'indomani della Liberazione.

Aveva passato una notte in questura, in seguito alla fuga di un uomo da casa sua (piú precisamente dalla metà dell'appartamento che le era stato sequestrato durante la guerra per far posto agli sfollati, e a lei era toccato un fascista di Savona). Della fuga lei non sapeva niente perché quel tale aveva il suo ingresso particolare, ma l'avevano portata lo stesso in questura. E nello stanzone dei fermati, dato il suo aspetto tranquillo, e dabbene, le si era avvidnato un tipo spaventato a chiederle aiuto, dandole anche nome e indirizzo perché in caso di disgrazia per favore avvertisse sua moglie. In breve l'avevano preso a caso per l'uccisione di un inglese, alle sue proteste d'innocenza non avevano creduto; comunque, attardandosi un momento fuori dalla stanzetta dell'interrogatorio, i due agenti parlottare fra loro «Be', facciamo cosí quando stasera andrà al gabinetto, lo buttiamo giú dalla finestra.» Perciò aveva passato una notte quasi avvinto al braccio di mia zia; con rabbia degli agenti, all'intimazione di andare al gabinetto, aveva risposto che non ne aveva alcun bisogno. Finché al mattino ' all'arrivo del giovane questore in carica da poche ore (di nome Rossi), la zia Bice aveva insistito perché il giovanotto allarmato gli raccontasse ogni cosa. Un paio di giorni dopo gli aveva telefonato era tornato felicemente a casa, ma ancora in preda allo choc.

Sui giornali del mattino, appare la versione della questura. Pinelli si è gettato intorno alle 23,50. «Nell'ultimo interrogatorio il dottor Calabresi gli aveva rivolto contestazioni piuttosto precise e lui si era sbiancato in volto. Allora il commissario se n'era andato per riferire ad Allegra ' e, nonostante i cinque uomini nella stanza il Pinelli aveva spiccato un balzo felino buttandosi nei vuoto." Nel confermare che Pinelli era sospettato per gli attentati del 25 aprile a Milano e sui treni in agosto in varie località italiane, il "Corriere della Sera» riferisce altre parole di Guida «Era tutta una catena di sospetti il principale era per venerdí e poi si andava indietro. "

Che nei tre giorni di interrogatori apparisse tranquillo, rispondendo sicuro ' Parco di parole, spesso sardonico alla richiesta di informazione, era l'opinione comune, «perchè allenato a questo tipo di indagini ed era difficile ríuscire a metterlo in difficoltà.,, Ma durante l'ultimo supplemento di interrogatorio «era successo qualcosa che ha inspiegabílmente spezzato in lui quell'apparente maschera di serenità e di distacco... Ha risposto calmissimo alle prime domande... Si è reso subito conto tuttavia che gli inquirenti erano venuti a conoscenza di qualcosa che gli premeva tener nascosto. Le contestazioni si sono fatte serrate. Poi stavano per essere sospese. Ma sul far della mezzanotte un'ultima contestazione gli è stata rivolta dal funzionario e dall'ufficiale. Un nome, un gruppo, li conosceva? lì aveva visti? e quando? Poi, loro usciti dalla stanza, d'improvviso lo scatto di Pinelli la finestra era socchiusa, lui ha spalancato i battenti e si è gettato nel vuoto

La sera del 16 vedo alla televisione Guida e il suo bel faccione pacioso, che tranquillizza gli italiani sulla fine del Pinelli. All'indomani titoli enormi sui giornali. Pietro Vaipreda è stato arrestato per la strage alla banca, il tassista portato in aereo a Roma l'ha subito riconosciuto. Cosí si mette a posto il mosaico della questura. Logico che il 12 pomeriggio all'anarchico Sergio Ardau, prelevato al circolo di via Scaldasole e portato in questura da Calabresi e dal brigadiere Panessa sulla loro 850 blu (mentre Pinelli andrà dietro coi motorino), Calabresi parli subito di «certi pazzi criminali che si sono infiltrati fra voi, tra cui il Vaipreda..." e gli chieda se ultimamente l'ha visto e se frequenta il circolo.

Ben riuscito il colpo di fermare Valpreda il 15 mattina all'uscita dall'ufficio del giudice Amati che l'aveva convocato per un affare di manifestini anti-papa. Quale disegno può andar meglio di questo, dal momento che come dinamitardi sono stati scelti gli anarchici? (Subito dopo l'esplosione il giudice Amati, telefonando in questura, aveva consigliato di iniziare le indagini fra di loro, mentre la sera stessa all'inviato della «Stampa" Calabresi dichiarerà che i responsabili sono da cercare fra gli estremisti di sinistra e conclude «è opera degli anarchici.» Mentre a un giornalista che la sera stessa gli chiedeva se secondo lui la strage poteva esser collegata a qualche altro precedente attentato, «sí," aveva risposto Guida, «alle bombe del 25 aprile.») Ecco che un anarchico ha provocato la strage, ma non basta; c'è un altro anarchico che «una volta scoperta la matrice della strage" si suicida, avallando questa tesi. Secondo le prime notizie ufficiali che resteranno tali per molti mesi, Calabresi dice a Pinelli «Inutile che tu continui a negare. Il tuo amico Valpreda ha già confessato.» Pinelli allora si sbianca in volto (mai che, cambiando i testimoni, qualche volta cambi anche il verbo) e grida
« Allora è la fine dell'anarchia! », quindi siamo al balzo felino. Si parla di «saldatura del cerchio delle indagini,» di
"conclusa stretta finale, " di « anelli sparsi riuniti in catena, »
della "raggiunta precisa fisionomia del crimine,» mentre
nei giornali del pomeriggio Valpreda lo chiamano «la belva umana,» o semplicemente la bestia," il massacratore, la iena, che per fortuna ha una «feroce morsa» nelle arteríe delle gambe, il galoppante morbo di Bùrger.
L'affare Valpreda, il percorso del tassí, le contraddi zioni del Rolandi (chi scrive che in quella cupa notte dal 12 al 13 era già andato in questura a denunciare il suo strano cliente, mentre secondo il professor Liliano Paulucci, sarà lui a persuaderlo tre giorni dopo ad andare a raccontar tutto), il processo tolto di mano al giudice mi
lanese e trasferito a Roma, la composizione del Circolo XXII marzo, il gran parlare che si fa del ballerino segregato a Regina Coeli e chi crede i suoi alibi di Milano e chi non ci crede; son tutti fatti che occupano l'opinione pubblica e i giornalisti, distraendoli temporaneamente dal caso Pinellì.
Gli hanno fatto il funerale il giorno 20 dicembre, c'erano vecchi anarchici col nero cravattone svolazzante, i soliti ragazzi delle manifestazioni con i colbacchi e frange di barba di varia lunghezza, tutti i giovani professori e studenti che davano da battere a macchina le loro tesi alla signora Licia, e un bel po' di quanti non conoscevano il Pinelli ma non hanno creduto al questore. Bandiere nere
nella nebbia, la polizia che fa sciogliere il corteo, i compagni del morto che davanti alla fossa n. 434 nel campo 764 di Musocco cantano l'Internazionale e Addio Lugano bella, i poliziotti tutti in gruppo, e vestiti di scuro, al di là di una fila di croci.

Ma Pinelli è e resterà sempre un morto ingombrante.
Seppellito dentro la sua bandiera nera, non dà pace ai vivi
che l'hanno portato alla tomba. Il suo nome infatti torna fuori sempre più di frequente, a poco a poco diventa come un rimorso comune, una causa di fondo disagio, infine un'accusa. Ben presto (il giorno dopo per i suoi amici) diventano flagranti menzogne le dichiarazioni di Guida, intanto cresce di continuo la gente che vorrebbe sapere come sono andate davvero le cose quella tal notte in questura, chi l'ha conosciuto ne parla e ne scrive, facendo il ritratto tanto di un uomo del tutto estraneo a qualsiasi episodio di violenza, come assolutamente alieno dal volersi togliere la vita.

Comincia a circolare fra i giornalisti la lettera che proprio il giorno 12 Pinelli ha scritto a Paolo Facciolí, il piú giovane degli anarchici incarcerati per gli attentati del 25 aprile. Gli chiede che libri vuole, lui gli manderebbe l'"Antologia di Spoon River" («non posso mandartene di politici perché me li renderebbero»), ricordandogli fra l'altro che "l'anarchismo non è violenza, la rigettiamo, ma non vogliamo subirla. Esso è ragionamento e responsabilità e questo lo ammette anche la stampa borghese; ora speriamo lo comprenda anche la magistratura. Nessuno riesce a capire il comportamento dei magistrati nei vostri confronti.»

Sull'Espresso,» e sull'"Astrolabio," ai primi di febbraio vien pubblicata la lettera di Giuseppe Gozzini, il primo obiettore di coscienza cattolico, amico del Pinelli, ed è giusto che a due anni di distanza la legga chi allora se l'era lasciata sfuggire. «Aveva seguito gli sviluppi del mio processo negli ambienti cattolici (soprattutto fiorentini) ed era come affascinato dal tipo di testimonianza. Conosceva, e non per sentito dire, movimenti e gruppi che si ispiravano alla non-violenza e voleva discutere con me sulle possibilità che la non-violenza diventasse strumento d'azione politica e l'obiezione di coscienza stile di vita, impegno sociale permanente.

« Io gli parlavo di 'società basata sull'egoismo istituzionalizzato,' di 'disordine costituito,' di 'lotta di classe' e lui mi riportava oltre le formule, alla radice dei problemi, incrollabile nella sua fede nell'uomo e nella necessità di edificare l'uomo nuovo,' lavorando dal basso. Poi ci vedemmo in molte altre occasioni e i punti fermi
della nostra amicizia divennero don Primo Mazzolarí e don Lorenzo Milani, due preti 'scomodi,' che hanno
lasciato il segno e non solo nella chiesa.

«Viveva del suo lavoro, povero 'come gli uccelli dell'aria,' solido negli affetti assetato di amicizia, e gli amici li scuoteva con la sua ineusaribile carica umana. Le etichette non mi sono mai piaciute. Quella che hanno appioppato a Pinelli 'anarchico individualista,' è melensa, per non dire sconcia. Si è sempre battuto infatti contro l'individualismo delle coscienze addomesticate lui, ateo, aiutava i cristiani a credere (e lo possono testimoniare tanti miei amici cattolici); lui operaio, insegnava agli intellettuali a pensare, finalmente liberi da schemi asfittici. Non ignorava le radici sociali dell'ingiustizia, ma non aveva fiducia nei mutamenti radicali, nelle 'rivoluzioni' che lasciano gli uomini come prima. Paziente, candido, scoperto nel suo quotidiano impegno, era lontano dagli 'estremismi' alla moda, dalle ideologie che riempiono la testa ma lasciano vuoto il cuore. Stavo bene con lui, anche per questo.»

E' sempre Gozzini che poi mi parlerà di lui, di com'era genuino, Pieno di intuizioni intelligenti, di come sapeva leggere, assimilando bene, smaltendo in fretta. Di come gli piaceva aver intorno tanta gente per parlare, tirar tardi la notte a discutere, magari sull'ultimo libro di don Milani. Sapeva stare a suo agio con gli operai e coi borghesi, coi cattolici e coi giovani beat. E' orribile pensare che si sia potuto sospettare di lui. Che si fosse ucciso non ci ho maicreduto. Alla notizia ho pensato che 'fosse stato morto',ecco quello che ho pensato' »

Mentre sulla sua morte viene aperta un'inchiesta che la magistratura affida al sostituto procuratore Giovanni Caizzi, e che vien condotta nel massimo segreto (impedendo tra l'altro che la madre e la vedova si costituiscano parte civile), non passa giorno, si può dire, che attraverso i giornali, le confidenze degli amici, una conversazione con la mamma e la moglie, non si impari qualche cosa di nuovo sulla figura del Pinelli, la quale a poco a poco diventa sempre meno segreta, anzi assune contorni precisinon è più soltanto "il ferroviere anarchico autodidatta" dei primi giorni, con la barba nera, il sorriso pungente, gli occhi castani.

Parlo ancora con dei giovani intellettuali, con Bruno Manghi e con Luigi Ruggiu, redattori ambedue di «Questitalia,» la rivista del dissenso cattolico, e il ritratto, invece di scolorire col tempo, si fa sempre piú vivo; il personaggio ambiguo presentatoci in questura spicca subito come eroe positivo. Quello che colpiva di piú quanti capitavano in casa sua magari per far copiare a macchina un saggio o una tesi, e immancabilmente si trovavan di lí a qualche giorno a colazione dai Pinelli, era il carattere tradizionale della famiglia. Soltanto due le stanze nella casa francamente brutta, costruita intorno agli anni Quaranta, ma sempre il modo di sistemare un ospite di passaggio o un amico senza un soldo.

Cosí esuberante, giovane, eccessivo, agli amici intellettuali Pinelli pareva un personaggio del passato, un po' sul tipo di quegli operai comunisti che la sera leggevano Gorki. E sembrava loro che appartenesse al passato anche per quel suo frequente discorso sui valori piuttosto che sulle strategie politiche o sul problema del potere,
abbastanza tipico di una certa categoria di anarchici. Una sua idea fissa era quella dell'avvicendarsi delle cariche e dei ruoli in una società dove tutti contassero in modo uguale, per evitare la scissione tra il lavoro manuale e quello intellettuale.

Era uno dei suoi discorsi preferiti e una delle sue piú ingenue speranze. Ma la sua ingenuità si rivelava anche nel rispetto per la cultura con la C maiuscola chiedeva a tutti che gli traducessero certi brani di riviste, mentre la sua visione internazionale dell'anarchia si rivelava, oltre che nei suoi discorsi, anche nella cura con cui conservava documenti e scritti in lingua straniera (cubani, svedesi, spagnoli) che non sapeva decifrare, ma gli davano forse il senso della presenza del movimento al di là dei confini dell'Italia e dell'Europa. Teneva discorsi, organizzava marce, era membro attivo di quel Centro di tutela e di solidarietà degli anarchici che è la "Croce Nera, » di aiuto inoltre ai perseguitati Politici e alle loro famiglie, a chi è in carcere o di passaggio.

La ferrovia era un grosso mito per lui, e agli amici raccontava i tratti umani di questo suo lavoro, mai cose tecniche, ma storie
e vite di ferrovieri. L'equilibrio della piccola famiglia era tale che marito e moglie spesso e volentieri si scambiavano il lavoro casalingo lei a scrivere a macchina le tesi che la interessavano (ed imparava sempre qualcosa di nuovo anche lei esercitando a sua volta un'autorità quasi materna sui giovani universitari), lui invece che portava a scuola le bambine, le andava a prendere, faceva la spesa al supermercato e per divertirsi faceva benissimo da cucina il risotto se appena c'era un ospite era la sua specialità, insieme alla polenta e al coniglio arrostíto con le erbe.

Non tollerava che qualcuno si drogasse, irritandosi se da qualche altro sentiva vantare un'eccessiva libertà di rapporti sessuali. Vestiva francamente male a non era il malvestito in costume di oggi; lui non badava a quel che aveva addosso, magari la giacca con le spalle cascanti, le scarpe scalcagnate ' il colletto con una punta qui e una là.

La madre racconta che da ragazzo il suo Pino si era esercitato alla boxe in palestra, ma aveva smesso presto perché gli seccava picchiare, non sapeva farlo, detestava il corpo a corpo, la colluttazione. La moglie amava in lui tutti quegli aspetti spiccioli di bontà, sensibilità e gentilezza, ma si preoccupava anche un po' per gli elementi di disordine materiale che comportava una vita come la sua, cosí spesso fuori dalla famiglia (come aveva cominciato a fate in quel caldo 1968), e poi sempre gente fra i piedi, anarchici, ferrovieri ' studenti di sociologia, economia, filosofia ' psicologia («tu t'impegni troppo e su troppi quadranti, non sei mai a casa quando ti vorremmo»). Ma proprio anche attraverso la moglie, Pinelli aveva fatto molti incontri e rafforzato la sua fiducia sull`appropriazione» del sapere.

Eran cinque o sei tra i suoi migliori amici a sapere che negli ultimi mesi della sua vita, per esempio anche durante l'ultimo sciopero della fame degli anarchici davanti a San Vittore, Pinelli aveva ricevuto dure minacce dalla polizia. Passato il tempo da quando Allegra e Calabresi gli avevano regalato "Mille milioni di uomini" di Enrico Emanuelli; ora lo guardavano scuri in viso, spesso provocandolo, e una volta lo avevano anche severamente avvertito di stare attento ("potresti anche perdere il posto»). Si era accorto di esser pedinato.

continua

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Iscritto dal: 10/10/2003
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L'elenco presente su http://www.memore.splinder.com/ contiene solo due nomi in meno rispetto a quello presente nel libro di Sofri "La notte che Pinelli": uno di questi due nomi è quello di Pannella. Ho chiesto a Sofri se è sicuro che Pannella abbia firmato e mi ha risposto di no e che avrebbe chiesto a Pannella.

Pannella oggi l'ha risposta l'ha data. Tra l'altro Gemma Capra nel suo libro scritto con Luciano Garibaldi cita i politici che hanno firmato: nomina Teodori ma non il più noto Pannella.

Iscritto dal: 18/11/2000
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Quelli "pubblicati" su quei 3 numeri dell'Espresso sono SOLO ALCUNI, una parte, dei firmatari !!

Sono più di 35anni che non è una novità per nessuno. Pannella, come tutti i vigliacchi di ieri firmò e come tutti i vigliacchi di oggi finge di non ricordare.

E' stato Marco Pannella ad affossare i 20 referendum rifiutandone l'accorpamento elettorale con le amministrative e la conseguente garanzia di quorum.

 

Iscritto dal: 10/10/2003
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Nella conversazione settimanale di oggi si è parlato dell'appello su Calabresi.

Pannella ha detto che gli pare che non ci fosse nessun radicale tra i firmatari. Bordin gli ha obiettato: guarda che mi sembra tu lo abbia firmato, controlla.

Bordin credo si sbagli: Pannella non firmò (il suo nome nei numeri dell'"Espresso" non appare). Anche Pannella però ricorda male: il suo nome non c'è ma ci sono quelli di Massimo Teodori, Lino Jannuzzi, Marcello Baraghini e Bruno Zevi.

Iscritto dal: 10/10/2003
User offline. Last seen 5 anni 19 settimane ago.

Sulla presenza del nome di Pannella tra i firmatari dell'appello ho fatto venire il dubbio anche a Sofri (l'ho contattato un po' per caso e gli ho fatto qualche domanda sul suo libro): chiederà a Pannella mi farà sapere.  Speriamo si ricordi (di chiedere e di farmi sapere). Al momento la presenza di Pannella tra i firmatari di quell'appello resta incerta.

Il libro di Sofri ha soddisfatto la mia curiosità relativa alle citazioni tratte da "Lotta Continua" del 6 Giugno 1970. Ecco il brano da cui sono tratte:

A questo punto qualcuno potrebbe esigere la denuncia di Calabresi e Guida per 'falso ideologico in atto pubblico'; noi, che più modestamente di questi nemici del popolo vogliamo la morte, ci accontentiamo di acquisire anche questo elemento [...] Questo processo lo si deve fare, e questo marine dalla finestra facile dovrà rispondere di tutto. Gli siamo alle costole ormai, ed è inutile che si dibatta 'come un bufalo inferocito che corre per i quattro angoli della foresta in fiamme'.

L'articolo è intitolato "Un'amnistia per Calabresi?". La parte sul bufalo è una citazione. Forse, ipotizza Sofri, si tratta di "una citazione maoista sull'imperialismo".

E' un articolo certamente sinistro, però si parla di denunce e processi. Le citazioni che circolano in rete (che vengono dal libro di Gemma Capra) sono tagliate in maniera poco corretta, eliminando il riferimento al processo e all'"accontentarsi"

«Questo marine dalla finestra facile dovrà rispondere di tutto. Gli siamo alle costole, ormai, ed è inutile che si dibatta come un bufalo inferocito (...) Qualcuno potrebbe esigere la denuncia di Calabresi per falso in atto pubblico. Noi, che più modestamente di questi nemici del popolo vogliamo la morte...».

Iscritto dal: 10/10/2003
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Nel suo ultimo libro "La notte che Pinelli" (Sellerio), Adriano Sofri riporta l'elenco dei firmatari dell'appello dell'"Espresso.

Nel suo elenco c'è anche Marco Pannella.

Dunque Pannella va rimesso, anche se non capisco perché nelle pagine scansionate dell'"Espresso" il suo nome non ci sia.

Iscritto dal: 10/10/2003
User offline. Last seen 5 anni 19 settimane ago.

Al limite gli puoi addebitare le cose scritte quando direttore responsabile era lui.

La frase "ci vuole la calibro 38 special" non c'entra con Calabresi. E' tratta da un articolo a commento dell'attentato a George Wallace.

Ripropongo la domanda. Qualcuno mi sa dire il seguito di questo brano tratto da "Lotta Continua" del 6 Giugno 1970?

«Qualcuno potrebbe esigere la denuncia di Calabresi per falso in atto pubblico. Noi, che più modestamente di questi nemici del popolo vogliamo la morte...»

Iscritto dal: 09/11/2006
User offline. Last seen 5 anni 46 settimane ago.

Palombo, non ti fare insultare, applicandoti l'epiteto di "palummella": sei troppo lungo, perché credi che i forum di discussione servano per scriverci dei romanzi?

Bene, ti sintetizzo in due parole: Pinelli l'ha ammazzato Sofri, che siccome, era un confidente della polizia, quella sera era nella stessa stanza con Calabresi, per ricevere il compenso mensile per le sue spiate.

Fine. Costa così poco essere sintetici?

A. coppeto