F U T U R O E L I B E R T A' P E R L'I T A L I A

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Si chiamerà così il gruppo parlamentare dei “finiani”.
Una denominazione che ci piace davvero tanto. Dall’idea di Generazione Italia: “Per costruire l’Italia del 2020, bisogna ripartire da un rinnovato senso dello Stato. Un nuovo orgoglio nazionale che dovremo trasmettere nella scuola, nel mondo della giustizia e dell’economia. Solo così potremo salvare il nostro Paese dal declino e dalla sensazione di decadenza tanto diffusa tra gli italiani”

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Libia, bombardano anche i Tornado italiani

Lunedì 21 Marzo 2011 00:36 

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Operazione Odissea all’alba, Tripoli proclama il cessate il fuoco, mentre anche sei Tornado italiani sono stati impegnati nelle azioni aeree sui cieli libici, decollati dalla base di Trapani. L’Italia è di fatto a pieno titolo nella missione, ora anche con un intervento diretto dei caccia, dopo aver inviato cinque navi, tra cui la portaerei Garibaldi, con a bordo otto aerei Harrier a decollo verticale. Il Pentagono però non crede al fatto che il colonnello manterrà la parola, ribadendo di non essere a caccia di Gheddafi, ma colpire solo gli obiettivi per rafforzare la no fly zone. Il vice ammiraglio Usa Bill Gorney ha precisato che Gheddafi “in questo momento non è nella lista degli obiettivi”.

Il premier turco Erdogan ha proclamato l’adesione di Ankara all’operazione, auspicando che non sia necessario un intervento di lungo termine. “Se solo la Libia avesse avviato un processo di cambiamento, come è avvenuto in Tunisia e in Egitto - ha detto in visita in Arabia Saudita- non avrebbe pagato un prezzo così alto”. Sull’atteggiamento della Francia è intervenuto il sottosegretario alla Difesa Crosetto, rilevando come “non ci siano retro-pensieri vetero espansivi da parte dell'Italia, né un tentativo di ripensare alle colonie, ma il rispetto per popolo e per un paese da cui traiamo il 14% delle nostre risorse di gas e il 26% di petrolio”. Il segretario generale dell'Onu, Ban Ki-Moon, si è detto fiducioso che “le forze militari libiche mantengano la promessa fatta di un immediato cessate il fuoco”. Dal momento che in precedenza Tripoli aveva proseguito nell’attaccare i civili. Ma se il colonnello intendesse fermare davvero le operazioni, allora si potrebbe negoziare. Anche sul versante umanitario l’Italia sta facendo la sua parte con la consegna di beni umanitari e medicinali alla popolazione libica della Cirenaica. L’intervento è stato compiuto dai ministeri di Esteri e Difesa, per un totale di 65 tonnellate di beni, messi a disposizione dalla Cooperazione italiana e da una azienda privata. Intanto quasi quattromila rifugiati hanno oltrepassato il confine tra la Libia e l'Egitto come ribadito dall’Agenzia dell'Onu per i rifugiati, sostenendo che molti libici hanno trascorso la notte nelle loro macchine e poi tornare in Libia la mattina successiva.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Luigi il Grande

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Libia: l’Italia torni protagonista

di Giuseppe Tatarella

 

Napolitano: “Non possiamo rimanere indifferenti alla compressione di fondamentali diritti umani in qualsiasi paese. Non possiamo lasciare che vengano distrutte, calpestate le speranze che si sono accese di un Risorgimento anche nel mondo arabo. Mi auguro che le decisioni da prendere siano circondate dal massimo consenso”.
Siamo felici di riscontrare nelle dichiarazioni del nostro apprezzato presidente della Repubblica, la nostra stessa idea riguardo ai fatti libici. Siamo conviti che l’Italia debba uscire dalla ipocrisie delle ultime settimane e chiedere all’Onu, alla Nato e all’ UE di guidare la colizione militare che interverrà – in vario modo – all’interno del complicato scenario libico.
La nostra comunità politica, fin da Mirabello e prima di altri, si è schierato contro il regime di Gheddafi e a favore dei giovani del Mediterraneo che dall’Egitto alla Libia stanno combattendo per la libertà, unica bandiera sotto la quale tutti i popoli – anche nelle dovute differenze – devono riconoscersi.
Ecco perchè l’Italia deve riacquistare centralità in un momento tanto importante quanto drammatico per il Mediterraneo, che avrà inevitabili conseguenze anche sul nostro Paese e sul nostro ruolo in Nord Africa. Il nostro Paese non può continuare a stare a guardare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Luigi il Grande

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IL SILENZIO DEGLI IMMATURI

 

IL SILENZIO DEGLI IMMATURI - FUTUROLIBERO

In questi momenti di forte tensione internazionale dal governo vengono soltanto atteggiamenti di potente immaturità non appena il tema superi di poco la “bassa lega” di problemi come il federalismo o i posti di potere.

di Giuliano D'Aria

Mentre gli aerei dell’Alleanza accendono i motori e Gheddafi continua a bombardare le posizioni dei ribelli in Italia emerge tutta la pochezza di un governo che ad ogni occasione importante dimostra la propria immaturità. Hanno firmato sei mesi fa un accordo con la Libia che prevedeva anche il mutuo aiuto in caso di aggressione militare. Una follìa che è stata stracciata subito, esponendo però il Paese, il suo territorio alle rappresaglie libiche. Per la quale – quando e come finirà questa storia – in molti ci presenteranno il conto sia da una parte sia dall’altra. L’Italia comunque sia ci perderà da questa avventura in terra libica.

E ieri, quando si è trattato di aderire alla coalizione che con il placet dell’Onu e l’impegno Nato dovrebbe portare a costringere Gheddafi a lasciare il potere, la Lega si è sfilata. I suoi parlamentari non si sono presentati nelle Commissioni Esteri e Difesa dove si doveva “recepire” la risoluzione delle Nazioni Unite. L’unico presente era Calderoli, che poi si è astenuto. L’impegno militare è dunque passato con i voti di FLI, UDC e PD, perché anche la terza gamba del governo, i “responsabili” si erano squagliati per dare un segnale di rottura a Berlusconi che non gli dà i desiderati posti di governo.

Sono atteggiamenti di potente immaturità, di incapacità di affrontare un percorso comune non appena il tema superi di poco la “bassa lega” del federalismo, della polemica con la magistratura, le beghe di potere in Rai, Eni, Enel.

Lo stesso dietrofront sul nucleare, dopo i tragici fatti giapponesi, dimostra che è il “sondaggetto” quotidiano a muovere i passi del governo, non un progetto politico di orientamento e sviluppo della struttura economico sociale italiana. Il patetico centro-destra venuto fuori dalla magica serata del “predellino” altro non è che il coacervo di tanti miserabili interessi di bottega e di bottegai. Magari ci fossero ancora i mercanti e gli usurai contro i quali faceva salire il suo potente canto Ezra Pound e contro i quali scriveva i suoi affilati fondi Giano Accame. Questi hanno la mano così fissa sul portafoglio che non possono mettersela sul cuore e al primo posto delle preoccupazioni c’è il futuro della prole (Marina e il Trota già sono in rampa di lancio), nella più classica e tarpana tendenza basso padana e meneghina. La Lega, poi, resta in un guado stagnante. Le polemicuzze sull’Anniversario italiano (vado, non vado, canto l’inno o il Va pensiero) sono state stupide, prima che vergognose. Altri segnali di forte immaturità, personale prima che istituzionale. E’ tutto così minimalista in questo governo e in questo schieramento che anche il suo tramonto non è più acceso dell’affievolirsi della fiammella di una candela. Tra un po’ semplicemente, rischiano di non trovarsi più. Il problema è anche che l’Italia sta sparendo dalle cartine per tornare ad essere una mera espressione sulla carta geografica e geopolitica.

(19 MARZO 2011)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Luigi il Grande

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Odissea all’alba: notte di guerra in Libia

Sabato 19 Marzo 2011 23:14

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L’hanno chiamata Odissea all’alba, forse richiamando l’epica traversata omerica, forse per conferire un che di misterioso ad una cosa dura che si chiama guerra. Ma che, di fatto, è la risposta all’ostinazione di Gheddafi. Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Canada e Italia hanno monopolizzato lo spazio aereo antistante le coste libiche, con il comando dell’operazione interamente nelle mani americane. Portaerei, sottomarini, fregate e cacciabombardieri stanno affrontando prima la contraerea libica. Al fine di “purificare” i cieli, per poi valutare le opzioni attualmente in campo, con le truppe di terra virtualmente pronte in qualsiasi momento.

Il Mediterraneo, come da anni non lo era, è intasato di navi militari, al momento venticinque (di cui cinque italiane, in testa la Garibaldi, con a bordo otto aerei Harrier a decollo verticale), coordinate dalla base napoletana di Capodichino, designata come centro logistico delle operazioni. Pioggia di missili Tomahawk, ben 110, sono partiti da sommergibili britannici diretti sulla capitale libica, e dalle fregate, colpendo almeno venti obiettivi strategici nella zona occidentale del Paese. Tra cui sistemi di difesa aerea e altri snodi di comunicazione, come dichiarato dal Pentagono, oltre che tank libici. E con il sostegno dei nuovi caccia Eurofighter specializzati nella guerra elettronica. Nelle basi italiane sono atterrati anche caccia belgi e spagnoli, pronti all’occorrenza.

A Tripoli predisposti scudi umani per proteggere il colonnello, i cui militari attaccano anche un campo della Croce Rossa. Una notte di battaglia, con le condanne di Putin e del presidente venezuelano Chavez. La Lega araba ha fino ad oggi appoggiato la no-fly zone, senza però offrire sostegno. Qualora decidesse di contribuire, lo farebbe con cacciabombardieri americani ed europei (F-15 sauditi e F-16 degli Emirati). Al pari dell’Egitto, che ha F-16 e Mirage 2000, ma che si è detto disponibile solo a fornire armi leggere ai ribelli.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Luigi il Grande

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La primavera araba e noi

Domenica 20 Marzo 2011 09:22

C’è la storia che si manifesta con la spontaneità e la generosità di una generazione araba che si vuole risvegliare. E c’è chi cerca con la violenza, la menzogna e l’arroganza di arginare quest’onda che sta travolgendo i paesi del Maghreb e dell’Africa mediterranea. Ci sono i ragazzi in piazza che da Tunisi a Bengasi hanno rappresentato la risposta migliore al familismo di regime che ha bloccato lo sviluppo di paesi con grandi risorse. E c’è chi sta cercando ancora di difendere un potere che non ha più rappresentatività se non nel delirio militante dei propri fedeli. Ci sono questi ragazzi che su facebook hanno raccontato la verità sulla repressione e tracciato quel sogno di vivere le opportunità dei coetanei europei. E ci sono quelli che chiamano le legittime richieste di libertà di questi ragazzi roba da “terroristi”.

 

Si dirà: non tutti credono che la vicenda che è riuscita a ribaltare alcuni regimi decennali sia realmente partita da un ragazzo tunisino, Mohamed Bouzizi, che si è dato fuoco lo scorso 17 dicembre a Sidi Bouzid in segno di protesta per le condizioni di vita, la povertà, la frustrazione cui il regime dell'ex presidente Ben Ali aveva costretto lui e i suoi coetanei. E a questi si risponderà: di sicuro ci hanno creduto migliaia di quei giovani che stanno riprendendosi il proprio destino a pochi chilometri da un’Europa sempre più stanca e lenta che li osserva sì con preoccupazione. Ma anche con molto rispetto. E, con molta probabilità, un po’ di invidia.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Luigi il Grande

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Gli animalisti difenderanno anche il “cane pazzo”?

 

Gli animalisti difenderanno anche il “cane pazzo”?

di MARIANNA MASCIOLETTI - “Cane pazzo”. Così Ronald Reagan definì – in maniera abbastanza azzeccata, bisogna dire, viste le sue prodezze - il dittatore della Libia Muammar Gheddafi, in questi giorni tornato più che mai al centro dell’attenzione sui media occidentali.

Il Re dei Re, bisogna ben dirlo, di scheletri nell’armadio ne ha parecchi. Anzi, vista l’accondiscendenza (meglio sarebbe, forse, dire “deferenza”) con cui i Paesi occidentali, Italia in prima fila, l’hanno trattato fino – letteralmente – all’altro ieri, di tenerli nell’armadio non ne ha neanche bisogno, a dire il vero. E’ abituato a esporli come vuole, quando vuole, ché comunque nessuno, tra noi furbacchioni avvezzi alle raffinatezze della realpolitik, si scandalizza più di tanto.

O almeno, eravamo veramente in pochi a scandalizzarci prima che in Libia, come in tutto il Maghreb, esplodesse la rivolta, e prima che il Colonnello ritenesse opportuno massacrare i ribelli in maniera talmente cruenta e talmente sfacciata da rendere impossibile il far finta di non sapere e doverosa almeno una presa di distanza.

Adesso, nelle ultime ore, la situazione è precipitata: Francia, USA e Gran Bretagna hanno dato un ultimatum a Gheddafi.
Non sappiamo cosa succederà domani, come andrà avanti la questione nei prossimi giorni; quel che è certo è che un intervento militare dell’Occidente, dato per improbabile fino a pochissimo tempo fa, è diventato ora una possibilità quanto mai realistica.

Le opinioni in merito, naturalmente, sono le più varie: ci sono quelli che lo auspicavano già da tempo, quelli che tuttora rimangono contrari e quelli che, come il nostro stimabile ministro degli Esteri, sono passati in poche settimane dall’elogiare la “stabilità” (sic) della dittatura del Colonnello al mettere a disposizione uomini e mezzi per combatterlo.

Le argomentazioni contro l’intervento militare (lasciando stare, per carità di patria, quelle leghiste e considerando solo quelle degli autonominatisi Veri Pacifisti) sono le più varie; in Italia, si sa, qualunque decisione venga presa trova sempre un nutrito gruppo di detrattori che gridano il loro “no” senza peraltro, nella maggior parte dei casi, fornire un’alternativa.

Fu così al tempo della guerra in Iraq: tra milioni di persone orgogliose delle loro bandiere arcobaleno e della loro inerzia, solo pochi si impegnarono seriamente per una possibile soluzione incruenta della questione (tra quei pochi, per quel che vale, c’era anche chi scrive).

I pacifisti dell’epoca, nel gridare il loro no, si spesero senza risparmio.
Sventolarono incessantemente le proprie colorate bandiere (un rapporto segretissimo, divulgato recentemente da Wikileaks, rivela che qualcuno di loro, nella coraggiosa opera, arrivò perfino a slogarsi un braccio); gridarono a gran voce di essere pacifisti “senza se e senza ma”, affrontando con animo lieto le difficoltà derivanti dal fare a meno, nella vita quotidiana, di queste due utilizzatissime congiunzioni (un effetto positivo fu che molti smisero di dire “ma però” e “se sarei”); fecero perfino dieci chilometri di passeggiata nel centro di Roma, impresa che provocò ad alcuni, non forniti di scarpe adeguate, dolorose vesciche ai piedi, guarite comunque - sempre secondo Wikileaks - con l’applicazione di appositi cerotti.

Cotale e cotanto dispiego di forze non parve impressionare George W. Bush e i suoi alleati, che – sulla base di rapporti quantomeno traballanti su presunte armi di distruzione di massa presenti in Iraq – decisero di attaccare comunque il regime di Saddam Hussein.

Le armi di distruzione di massa, a quel che sappiamo, non le hanno ancora trovate; c’è però da dire che anche lo stesso Saddam, vista la quantità di persone uccise dal suo regime, come arma di distruzione di massa è stato abbastanza letale, e che gli orrori perpetrati dal suo establishment - non dissimili peraltro da quelli libici - spinsero molti a rimproverare gli USA non per aver dato inizio alla guerra, ma per non essere intervenuti prima e per aver addirittura sostenuto, nel passato, il dittatore.

Ma, comunque, per i pacifisti di allora i morti per mano americana ”pesavano” molto di più di quelli uccisi da Saddam; anche oggi, a proposito della Libia, troviamo chi, nonostante tutto, continua a pensare che sia meglio lasciar massacrare i ribelli dai loro connazionali, vuoi mettere come soffrono meno se non vedono la bandiera a stelle e strisce mentre muoiono fucilati o bombardati.

E poi, insomma, chi saranno mai questi ribelli? Siamo sicuri che siano tanto meglio dei governativi? Chi gliel’ha fatto fare a ribellarsi con le armi quando potevano tirar fuori striscioni e bandiere e dar vita ad un colorato happening pacifista e nessuno si sarebbe fatto male?

I nostri “senza se e senza ma”, ricordiamolo, non si sono mai preoccupati gran che di Gheddafi, anzi, alcuni, per il suo antiamericanismo e “antisionismo” sfegatato, ne avevano persino stima. E hanno continuato a stimarlo, o comunque a non preoccuparsi eccessivamente dei suoi crimini, fino a pochissimo tempo fa. D’altronde, per molti di loro, se sul campo di battaglia non appaiono gli americani o gli israeliani (naturalmente nella parte dei cattivi) significa che non esiste battaglia di cui doversi preoccupare.

Tutt’a un tratto, però, Gheddafi ha commesso la più grande sciocchezza della sua vita. Cioè?

Ha lanciato missili su Lampedusa? Pfui, no, bazzecole, l’ha fatto per scherzo, l’ha detto pure Andreotti.

Ha insultato l’Italia in tutti i modi possibili e immaginabili? No, beh, e che vuoi che sia, per loro è anche meglio, loro di essere italiani “si vergognano”.

Ha fatto sparare ad un peschereccio italiano, senza nemmeno pensare poi a chiedere scusa? Eh, ma non bisogna giudicare in modo affrettato, si sa. E comunque la motovedetta gliel’abbiamo prestata noi, orsù, vergogniamoci tutti insieme di essere italiani.

E poi, peraltro, siamo sicuri che quelli del peschereccio – già colpevoli di uccidere poveri pesciolini indifesi per sacrificarli alla voracità di criminali non ancora convertitisi al veganesimo – rispettassero tutti i requisiti di tutela dell’ambiente? E della flora? E della fauna? E delle alghe? E delle specie rare? E di quelle comuni?

No, Gheddafi, per quanto riguarda i pacifisti all’amatriciana (di soia), poteva stare tranquillo per tutta la vita. Ma a un certo punto, com’è come non è, ha commesso un irrimediabile passo falso: ha cominciato ad entrare in intima amicizia con Silvio Berlusconi. Più che diventargli amico, in effetti, s’è lasciato amare un po’, ma sia come sia, tanto è bastato ai nostri tutti d’un pezzo per gridare all’orrore, allo scandalo, all’abominio.

Ci sarebbe da domandare, così, di passata, come mai D’Alema e Amato accolti dal Colonnello “come vecchi amici” (cit. Repubblica) invece non erano abbastanza abominevoli, però forse rischieremmo di andare fuori tema.

Insomma, mentre da queste parti ce n’eravamo accorti da tempo, che il Re dei Re non fosse proprio un amico raccomandabile, ai pacifisti nostrani la molla non è scattata finché non l’hanno visto insieme al loro nemico giurato, il Cav. nazionale.

Da quel momento, Gheddafi ha avuto i giorni contati. E’ diventato bersaglio di terribili strali d’indignazione, di infuocati editoriali, forse anche – Wikileaks dà la notizia come non confermata - di qualche sventolio di bandiere arcobaleno. Roba da far scappare a gambe levate chiunque, come i lettori capiranno, ma il Colonnello ha sfoderato un inatteso coraggio ed è rimasto ben saldo al suo posto.

Adesso, però, quando pare che la gravità dei crimini compiuti dal regime libico l’abbiano capita tutti (perfino l’ONU, per dire), quando l’Occidente ha finalmente preso posizione con chiarezza contro i massacri di civili e minaccia azioni militari, i pacifisti si dividono.

Ci sono quelli che continuano a rimanere tutti d’un pezzo, senza se e senza ma, contrari ad intervenire in Libia, perché l’imperialismo, perché l’Italia ripudia la guerra, perché i civili innocenti (che, come dicevamo, ad essere bombardati da Gheddafi invece se la godono un mondo), perché “è la loro cultura”. Fuori dal mondo, più cinici dei sostenitori della realpolitik, pilateschi, d’accordo, però coerenti con ciò che hanno sempre sostenuto.

Ci sono invece altri che, duri e puri come pochi all’epoca di Saddam, oggi invocano a gran voce il bombardamento a tappeto della Libia, l’uccisione di Gheddafi, la liberazione di Tripoli, insomma, sembra che abbiano proprio voglia di vedere una guerra in piena regola. E pare che stavolta non li vogliano, i nomi di chi ha mentito, di chi ha parlato di una guerra giusta.

Uno li guarda, se li ricorda avvolti nella bandiera arcobaleno nel 2003, strabuzza gli occhi, si gratta la testa, poi però – è un impulso insopprimibile – cerca di capire.

E capisce un paio di cose. La prima, che la sinistra nostrana deve sempre, fisiologicamente dividersi tra chi è di sinistra e chi è ancora più di sinistra, e che la divisione, potenzialmente, può replicarsi all’infinito (questo Wikileaks probabilmente ancora non lo sa, ma glielo diciamo noi, entusiasti di collaborare); la seconda, che forse per convincerla – rectius, per convincerne almeno una parte, quella non abbastanza di sinistra - a prendere le distanze chiaramente e definitivamente dal regime cubano bisognerebbe mandare Berlusconi a stringere amicizia con Fidel Castro.

Ad ogni modo, da queste parti non possiamo che rallegrarci del fatto che sempre più persone, in Italia, prendano atto se non della necessità, almeno dell’opportunità di un intervento militare in Libia.

Però, però… alla sinistra animalista (o meglio, a quella parte della sinistra animalista che non è abbastanza di sinistra da non volere l’intervento in Libia, lo so, Julian, è complicato, poi te lo spiego meglio) non glielo dite, mi raccomando, che Gheddafi è un “cane pazzo”.

Date retta. “Cane” no. Altrimenti è probabile che ce li ritroviamo a raccogliere le firme per salvarlo, povero cucciolo.

 

Inserito da:

Marianna Mascioletti - che ha inserito 261 articoli in Libertiamo.it.

Nata a L'Aquila nel 1983. E’ stata dirigente politica dell’Associazione Luca Coscioni e tra gli ideatori del giornale e web magazine Generazione Elle. Fa cose, vede gente. In Libertiamo sta bene.
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Luigi il Grande

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Una nuova agenda per il futuro della nazione

 
 

di: Gianfranco Fini

 
Un grande statista europeo del dopoguerra, Konrad Adenauer, disse che i «partiti esistono non per se stessi, ma per il popolo». Sembra un’affermazione scontata. Ma risulta assai meno ovvia se applicata all’Italia di questo inizio di decennio. Da molto tempo la politica pare ripiegata su se stessa, mentre l’agenda degli interventi strutturali per far ripartire un’Italia immobile, stanca e sfiduciata continua a essere desolatamente vuota. La lista dei meriti esibiti contiene solo interventi di emergenza: una volta sono i rifiuti campani, un’altra è il rischio default per i titoli pubblici. «Andiamo avanti così, fino alla prossima emergenza»? è vero senso di responsabilità verso il paese affermare «accontentiamoci, perché potevamo finire come la Grecia»? Può esserlo nella sola prospettiva del presente. Sicuramente non lo è riguardo al futuro, anche prossimo. Può essere realmente rassicurante (e coinvolgente) soltanto un discorso di questo tipo: «Proviamo a fare come la Germania, che ha tagliato tutte le spese meno quelle destinate alla ricerca e all’innovazione». Visto che siamo in tema, vale la pena ricordare un’amara verità: se c’è un paese che gli investimenti destinati alle idee dovrebbe aumentarli anziché diminuirli, questo paese è proprio l’Italia. Riserviamo alla ricerca circa la metà delle risorse mediamente impiegate a tale scopo dai paesi dell’Ocse e siamo decisamente lontani dal livello minimo (3% del Pil) stabilito da Obiettivo Europa 2020: la percentuale in Italia è infatti dell’1,13. Questo significa che dovremo triplicare, nel giro di qualche anno, l’entità degli investimenti da destinare all’innovazione. Al di là di quello che dicono le cifre, il punto vero e drammatico è che la politica italiana ha bisogno di un salto di qualità e di mentalità. Deve passare dalle enunciazioni e dagli annunci ai fatti e all’operatività. E deve compiere un simile passo nel più breve tempo possibile perché il futuro è già cominciato nei paesi dell’area più avanzata del mondo. Quello delle scarse risorse per la ricerca non è il solo fattore di ritardo. Ce ne sono purtroppo molti altri, che concorrono, tutti insieme, a tenere cronicamente inchiodata l’Italia a irrisori livelli di crescita economica. Non può produrre nuova ricchezza un paese dove l’imposizione fiscale è tra le più alte nel mondo, dove la giungla burocratica ostacola l’attività d’impresa e tiene lontani i capitali d’investimento esteri, dove il lavoro è peggio remunerato e meno produttivo che altrove, dove le infrastrutture (viarie, portuali e telematiche) sono insufficienti, dove non sono avvenute liberalizzazioni (se non nelle telecomunicazioni) ma solo privatizzazioni di monopoli pubblici per fare cassa e non per aprire il mercato dei servizi alla concorrenza, dove la mobilità sociale è in discesa, dove la natalità è tra le più basse d’Europa, dove i livelli di corruzione di politici e dirigenti pubblici sono preoccupanti, dove prospera una gigantesca economia in nero che non si traduce in ricchezza sociale, dove la criminalità organizzata esercita il suo potere di ricatto su vaste aree del sud e inquina l’economia legale. L’elenco sarebbe ancora lungo, ma è bene fermarsi qui perché quanto detto è sufficiente a far capire che la ricreazione è finita e che non ci sono più scuse per la politica del giorno per giorno, del circo mediatico, della rissa permanente. Una grande lezione è venuta recentemente dal caso Mirafiori, che ha dimostrato quanto le forze dell’economia e del lavoro siano comunque vive nel nostro paese. Però, chiunque pretendesse di strumentalizzare politicamente un simile risultato compirebbe un’operazione arbitraria. Perché la politica ha fatto assai poco per creare le condizioni generali – quindi non solo a Torino, ma in tante altre parti d’Italia – per rendere convenienti gli investimenti di capitale nel nostro territorio. Occorre passare dalle enunciazioni ai fatti non in nome della ormai frustra retorica del “fare”, ma sulla base di una grande idea dell’Italia prossima ventura. L’obiettivo deve essere un Progetto di Italia per il 2020, il progetto di realizzare riforme che cambino profondamente il volto del nostro paese nel giro di qualche anno, liberando le energie della società e offrendo concrete opportunità di affermazione ai giovani, ai lavoratori, agli imprenditori. Poiché non ci saranno prove d’appello, occorre riscrivere subito l’agenda della politica e fissare gli appuntamenti chiave, quelli più urgenti. Al primo posto dovranno comparire la crescita economica e il futuro dei giovani, insieme con le riforme istituzionali e la necessità di superare il divario tra nord e sud. Essenziale, per quanto riguarda la crescita, è ridurre il carico fiscale su famiglie e imprese cominciando a lavorare per una riforma tributaria all’insegna della riduzione e della rimodulazione delle aliquote. Parallelamente, sarà necessario aumentare la competitività del sistema attraverso l’aumento della produttività del lavoro e dell’impresa, il sostegno all’internazionalizzazione delle aziende e all’innovazione dei processi produttivi, il disboscamento della giungla burocratica e la riforma del processo civile, l’accesso al credito per le piccole e medie imprese, l’incremento delle risorse da destinare alla ricerca, all’università e all’istruzione. Tutto ciò mentre dovranno essere realizzati gli obiettivi, necessariamente a più lunga scadenza, dell’ammodernamento infrastrutturale, a partire dalla differenziazione delle fonti energetiche. Per quanto invece riguarda i giovani, al netto dei benefici che potranno arrivare dagli auspicabili maggiori investimenti in istruzione e ricerca, bisognerà costruire un sistema di flessibilità positiva che combatta la vergogna della precarietà unita ai bassi salari e realizzare un collegamento più stretto tra scuola, università e mondo del lavoro. Occorre anche favorire l’intraprendenza dei giovani attraverso un fondo di garanzia pubblico per spingere le banche a finanziare i ragazzi che vogliano frequentare un master all’estero, aprire un’impresa, acquistare una casa. Indipendentemente dalle misure che potranno essere varate nel concreto, il principio da affermare è che la questione – giovani è una delle questioni strategiche dell’Italia e che tra dieci anni – quando i ragazzi di oggi saranno adulti – dovranno poter vivere in una società che pone realmente il merito tra i suoi valori centrali. è una rivoluzione etica e culturale molto più profonda e decisiva di quello che comunemente si pensa. è bene a questo punto avvertire che sono poche le riforme a costo zero. è quindi chiaro che occorrerà spostare risorse da un settore a un altro, tagliare rami di spesa improduttivi, mettere in discussione rendite consolidate. è anche chiaro che, quello riformatore, non sarà un processo indolore perché ci sarà chi nell’immediato ci guadagnerà e chi nell’immediato ci perderà. Però deve essere altrettanto chiaro che i sacrifici di un paese non si decidono sulla base di un criterio meramente ragionieristico ma eminentemente politico. Criterio politico vuol dire trovare un accordo ampio e solido tra partiti, forze sociali, imprenditoriali, sindacali per stabilire gli obiettivi strategici, e cominciare subito a inserirli nell’agenda di Italia 2020 stabilendo le priorità necessarie con equità e giustizia. Rimboccarsi le maniche? Alcuni sicuramente diranno «ma chi ce lo fa fare?», memori forse dei tempi in cui Andreotti diceva «tanto in Italia tutto s’aggiusta» e Craxi affermava «la nave va». Mi dispiace per lorsignori, ma quei tempi non torneranno più, nel bene e nel male. In conclusione: qual è il rischio di continuare a ripetere «tutto bene madama la marchesa»? è quello di fare la fine della rana nella pentola. Questa metafora, rilanciata in un recente pamphlet dallo scrittore Olivier Clerc, s’adatta assai bene all’Italia dominata da una politica minimalista e di corto respiro. «Una rana, immersa in una pentola d’acqua che si riscalda molto lentamente, all’inizio si trova bene, ma quando l’acqua comincia a scottare non ha più le forze per saltare fuori». La morale della favola è semplice: non c’è alternativa a una politica ambiziosa e profondamente riformatrice.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Luigi il Grande

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Dieci anni per ricominciare

 
 

di: Adolfo Urso

 
I primi dieci anni di questo secolo avrebbero dovuto essere quelli del Grande Cambiamento. Così è stato per la Germania, la Francia e per molti altri paesi europei, che hanno cercato di contendere il campo ai nuovi attori della scena mondiale. E in parte ci sono riusciti. L’Italia avrebbe dovuto realizzare quella grande rivoluzione liberale che da tanto tempo attendeva e che era stata a lungo promessa. Berlusconi l’aveva già annunciata nel 1994, all’atto del primo insperato successo, e per la verità allora vi aveva seriamente tentato, con la riforma delle pensioni su cui si realizzò il ribaltone della Lega. Alla ripresa del potere, nel 2001, aveva certamente la maggioranza per farlo, e noi con lui, ma le cose non sono andate per il verso giusto, anche per le conseguenze del terribile attentato dell’11 settembre sulla scena economica e non solo su quella militare. L’Italia, alle prese con le nuove emergenze, non seppe affrontare i nodi strutturali che da troppo tempo si trascinava, a cominciare dal debito pubblico che ora pesa su ogni prospettiva. I primi dieci anni di questo secolo sono stati anni sprecati. I divari interni si sono accresciuti e rischiano di lacerare il paese, i divari esterni anche, e rendono più difficile competere su scala globale. La protesta giovanile è la punta dell’iceberg che evidenzia gli uni e gli altri. I giovani sono infatti coloro sui quali pesano di più le mancate riforme. Protestano perché è stato scippato il loro futuro ma anche perché è stato scippato il futuro al loro paese. I numeri parlano chiaro. In questi dieci anni è aumentato il divario tra giovani e adulti, sia per quanto riguarda l’occupazione sia per quanto riguarda il reddito, e siamo diventati il penultimo paese al mondo per l’occupazione giovanile, meglio solo dell’Ungheria. È aumentato il divario tra chi vive di rendita, cioè di capitali, e chi produce reddito attraverso il proprio lavoro, e ciò garantisce chi ha (e quindi soprattutto i più anziani) a scapito di chi fa (e quindi a scapito anche dei giovani). Oggi il 45% della ricchezza è nelle mani del 10% della popolazione, che peraltro non l’investe per creare nuova ricchezza. L’Italia è un paese seduto, stanco, in cui non si investe nel futuro, tutt’al più si amministra il presente, come dimostrano i dati inquietanti sulle scarse risorse destinate a innovazione e ricerca, scuola ed università e sulla scarsa propensione a fare impresa nei settori dinamici e competitivi. L’Italia non investe nel futuro, come se fosse ancora nel Novecento, alle prese con le lacerazioni ideologiche e il linguaggio violento tra gli schieramenti sembra mutuato da allora, anzi addirittura peggiorato. In queste decennio è aumentato anche il divario tra nord e sud, con la sistematica sottrazione dei fondi destinati alle aree più deboli, come mai era accaduto prima, mentre nel resto d’Europa si riducevano i divari tra le aree più ricche e quelle più deboli, come dimostrano i casi della Germania, con il magistrale sforzo per recuperare l’est, ma anche di Spagna e Gran Bretagna, per non parlare della Francia, in cui è prevalsa la politica di coesione. In Italia, invece, il 150° anniversario dell’Unità coincide con il massimo divario storico. Nel contempo, abbiamo perso terreno in ogni classifica di competitività: hanno perso terreno le nostre università, fuori da ogni classifica; hanno perso terreno le nostre aziende, solo Eni, Finmeccanica e Fiat ancora resistono; hanno perso terreno ricercatori, scienziati, inventori e persino letterati. L’Italia retrocede nella classifica delle libertà economiche e anche in quella della coesione sociale, retrocede in competitività e in produttività, nella formazione e nell’amministrazione del fisco e della giustizia. In questi dieci anni avrebbe dovuto dispiegarsi la rivoluzione liberale e invece nell’anno che si è chiuso siamo saliti al terzo posto al mondo per la pressione fiscale con il 43,5% (più di noi solo Danimarca e Svezia, che però forniscono in cambio ben altri servizi sociali) e solo il 21,5% dei giovani ha una occupazione e in molti casi precaria, il 5% delle famiglie non riesce più a pagare il mutuo sulla prima casa. Se poi guardiamo alle prospettive future i dati sono ancora più inquietanti: il debito pubblico è ormai vicino al 121% del Pil, la natalità è ferma alla metà della Francia e solo gli immigrati ci danno un po’ di respiro, le pensioni dei nostri figli non supereranno il 30% del loro reddito, il nostro sistema produttivo ha rinunciato a competere sui settori a più alta tecnologia e su quelli strategici. Il bilancio del berlusconismo è purtroppo negativo, dietro gli spot nulla o quasi. E la spazzatura di Napoli che ritorna ad invadere le strade è la parabola di un epoca. Certo, è anche colpa nostra, e non possiamo né vogliamo esentarci. È responsabilità di tutta la classe dirigente, che troppo spesso ha tirato a campare, utilizzando a parti inverse l’arma della demagogia invece di far leva sulla responsabilità. Il decennio che si è chiuso lascia troppi problemi irrisolti e nodi ancora più stretti. Far finta di nulla significa essere conniventi con la storia. Il decennio che si apre ha quindi una eredità ancora più pesante: sino al 2020 c’è ancora la possibilità di uscirne, se si parte subito e senza più fiction. La politica degli annunci lascia Napoli maleodorante, quella del sorriso si trasforma in smorfia. È necessaria una svolta a partire dalla destra, anche se fosse lacerante, purché utile al paese. È necessaria una destra davvero liberale e nel contempo solidale, laica e plurale, aperta e inclusiva, nazionale ed europea, riformista e modernizzatrice. È necessario imporre l’agenda delle riforme, subito e non domani, dieci cose da fare in questo 2011, da consacrare all’unità del paese, per avviare una vera politica solidale che punti a colmare il divario tra giovani e adulti, nord e sud, capitale e lavoro, e nel contempo davvero liberale, fatta di liberalizzazioni e privatizzazioni, efficienza e merito, investimenti in ricerca e innovazione, cultura e università. Futuro e libertà su questo dovrà misurarsi e questo dovrà prospettare al paese: sacrifici, certo, ma con il chiaro scopo di costruire un futuro migliore. Dieci riforme nel 2011, cento in dieci anni sino al 2020. Un’agenda ambiziosa ma necessaria fatta di cose concrete e obiettivi misurabili per superare le asticelle della competizione internazionale e farlo senza lasciare nessuno indietro e soprattutto facendo esprimere i migliori. L’Italia merita di più, dieci anni sembrano tanti, sono forse pochi per recuperare quel che non si è fatto negli ultimi cinquanta. L’Italia del 1961 celebrava il centenario sulle emozioni del miracolo economico, l’autostrada e la tv avevano unito il paese; l’Italia di questo 2011 è più divisa che mai, lacerata da chi dovrebbe unirla. Basta percorrere la Salerno-Reggio Calabria per rendersene conto, basta ascoltare Mediaset o il Tg1 per capirlo. Ci vuole tanta forza per ricominciare, ci vuole a sinistra, e soprattutto a destra. Ci vuole forza e coraggio e la convinzione di essere nel giusto. Noi sappiamo di esserlo, non sappiamo se ne avremo abbastanza. “Un giorno, questa terra sarà bellissima”, disse Paolo Borsellino. Un giorno, forse non il nostro, ma certo anche grazie a noi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Luigi il Grande

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Visione e coraggio per recuperare un decennio perduto

 
 

di: Piercamillo Falasca

 
Un paese stanco e sfiduciato, ingabbiato da una politica miope e spesso autoreferenziale, con un’economia incapace di ritrovare il cammino dell’innovazione e della crescita. Quanto è diverso il 2011, l’anno del centocinquantesimo anniversario dell’unità dell’Italia, dal centenario del 1961! Quell’Italia – che con le Olimpiadi di Roma mostrava al mondo di aver ormai sostanzialmente colmato il gap di sviluppo con l’Europa, con la straordinaria produzione cinematografica tornava alla ribalta culturale del pianeta e con la sua competitività industriale si affermava in settori di frontiera – era ancora una società arretrata e frugale, ma offriva ai suoi abitanti un dinamismo ed una prospettiva futura invidiabile. Le case si riempivano di elettrodomestici e le città di automobili (erano gli anni della prima Fiat 500), il tasso di scolarizzazione aumentava (nel nord l’analfabetismo era ormai residuale), la famiglia usciva gradualmente dal modello patriarcale, aprendo le porte del lavoro extra-domestico anche alle donne, le cui gonne da lì a qualche anno si sarebbero accorciate. I figli avevano davanti a sé un orizzonte di reddito e benessere superiore a quello dei padri. Non tutto andò per il verso giusto, ovviamente: proprio in quegli anni si consolidava un sistema politico clientelare e corrotto, che nei decenni successivi avrebbe provocato l’esplosione del debito pubblico, mentre si affermava una politica per il Mezzogiorno ispirata ai principi keynesiani del sostegno esogeno allo sviluppo, che avrebbe finito per rendere il sud Italia dipendente dall’assistenzialismo pubblico e illuso dal mito dello Stato come “creatore” di ricchezza; la generosità del sistema pensionistico, in attivo grazie ad una demografia molto favorevole (pochi anziani e molti giovani), poneva le basi per gli squilibri welfaristici di oggi. Nonostante tutto questo (e non è poco, in verità), l’Italia del 1961 appariva, ed in effetti era, un paese ambizioso, proiettato in avanti, dove le istanze di modernizzazione prevalevano su quelle di retroguardia. Trent’anni dopo, con la fine dei regimi comunisti dell’est europeo e lo scoppio della “bolla politica” della Prima Repubblica (l’acquisto del consenso attraverso la produzione di spesa pubblica, ergo di deficit e debito), si archiviò certamente una fase storica. Dopo un biennio di governi tecnici di emergenza, fu offerta alla classe politica – nuova, sopravvissuta o “sdoganata” – una chance importante di “ristrutturazione” del paese. Il primo centrodestra berlusconiano del 1994 ebbe vita troppo breve per rispondere a quella domanda politica di innovazione che lo aveva portato al potere (gli storici noteranno probabilmente un elemento di incoerenza sistemica in quell’alleanza asimmetrica tra Forza Italia, Alleanza nazionale e Lega Nord, corollario della eccezionalità della discesa in campo di Berlusconi, ma difficilmente potranno scagionare Bossi dalla responsabilità di aver scelto deliberatamente la fine di quell’esperienza di governo). Toccò di nuovo ad un “ceto tecnico” e poi al centrosinistra, irrobustito tra l’altro dall’ingresso nelle sue fila di quegli stessi tecnici, traghettare l’Italia fuori, lungo il sentiero delle riforme: pensioni, mercato del lavoro, stabilizzazione dei conti pubblici, privatizzazioni, ingresso nell’unione monetaria europea. Pur tra errori e incoerenze ideologiche, quel litigioso centrosinistra si pose e conseguì obiettivi notevoli, primo tra tutti l’adesione all’euro, raggiunti i quali esaurì fisiologicamente la sua esperienza di governo. Il paese sentiva l’esigenza di uno scossone liberale e di un’iniezione di dinamismo. La vittoria della Casa delle Libertà alle elezioni politiche del 2001, apice di un ciclo positivo inaugurato già con le elezioni europee del 1999 e proseguito con la tornata regionale del 2000, poneva le basi per una politica economica che avrebbe dovuto orientarsi all’alleggerimento del ruolo e del peso dello Stato – il “meno tasse per tutti” era una sintesi elettorale paradigmatica – e all’apertura di una stagione di riforme sistemiche nei grandi comparti dell’azione pubblica, dal welfare al diritto del lavoro, passando per le grandi opere infrastrutturali. Se il 1994 fu una splendida illusione, la primavera del 2001 appare, agli occhi di chi oggi l’analizza, la grande occasione mancata. L’esecutivo che Berlusconi guidò dal 2001 al 2006 operò bene in alcuni ambiti, ad esempio sulla scena internazionale, con un approccio atlantista molto diverso dall’attuale disegno filo-satrapico e partecipando con merito e buoni risultati all’impegno internazionale contro il terrorismo. Ma non seppe infondere nella sua politica economica quello scatto di libertà che la maggioranza degli elettori italiani aveva chiesto con il voto. Non riuscì ad adempiere alla promessa “storica” di una riforma del fisco orientata al lavoro, alla libera intrapresa e alla famiglia, rinunciò alla possibilità di un sano “conflitto” sociale sull’articolo 18 che in qualche modo potesse completare il sentiero della legge Biagi, si tenne lontano da provvedimenti di liberalizzazione nei grandi comparti dell’economia e da riforme organiche del sistema di giustizia. Last but not least, permise ad una componente strisciante della spesa pubblica locale – i consumi intermedi della regioni e degli enti territoriali – di assorbire completamente le molte decine di miliardi di risparmio di interessi sul debito che l’adesione alla moneta unica aveva offerto. Rientrato al potere nel 2008, dopo il biennio fallimentare dell’Unione prodiana, Berlusconi ha fatto dell’immobilismo – che dal 2001 al 2006 era stato spesso, ma non sempre, l’esito indesiderato della dinamica politica della maggioranza di centrodestra – un vero e proprio modus operandi, sostituendo all’azione politica una “narrazione politica” diversa e a volte contrapposta alla realtà. Il ritornello “il nostro paese sta uscendo dalla crisi meglio degli altri”, con il quale si è cercato negli ultimi due anni di anestetizzare la discussione sulle riforme necessarie a ritrovare un sentiero di crescita, è diventato un mantra insopportabile e auto consolatorio. I dati mostrano purtroppo il contrario: l’Italia è entrata nella crisi con i più bassi tassi di crescita d’Europa; ha affrontato il biennio horribilis con la contrazione del reddito nazionale più marcata del continente; ha ripreso a crescere solo dell’1% all’anno, nonostante il resto del Vecchio Continente proceda a ritmi ormai doppi. Il debito pubblico sfiora di nuovo il 120% del Pil, valore raggiunto, nel Dopoguerra, solo ad inizio anni Novanta. La pressione fiscale in rapporto al Pil ha raggiunto la cifra record del 43,6%, secondo i dati Ocse: solo danesi e svedesi pagano più tasse degli italiani (ma hanno un sistema di welfare ed una macchina amministrativa oggettivamente più efficienti, capaci di promuovere e non ostacolare la competitività dell’economia e la valorizzazione del capitale umano). La disoccupazione aumenta fino all’8,7% (cifra alla quale, secondo Bankitalia, andrebbero aggiunti i lavoratori in cassa integrazione straordinaria), quella giovanile sfiora pericolosamente il 30% (a novembre 2010 ha raggiunto il 28,9%, record dal 2004). Nel 2010 il reddito pro capite degli italiani sarà in termini reali inferiore a quello del 2000, un salto all’indietro inedito nella storia dell’Italia unita. Più che i dati relativi alla contingenza, sono le fondamenta del sistema Italia ad essere marce: uno zoppicante sistema d'istruzione e formazione, che forma buone individualità ma che consegna al paese un capitale umano non sempre all’altezza delle sfide della globalizzazione; una burocrazia pletorica, accompagnata da una classe politica locale e nazionale mediamente di scarso livello; una giustizia lenta e iniqua; una regolazione dei servizi professionali di stampo corporativo e ottocentesco; un sistema degli ammortizzatori sociali che lascia al potere politico intollerabili margini di discrezionalità, con i quali discriminare tra settore e settore, tra grandi e piccole aziende, tra lavoratori più garantiti e lavoratori privi di ogni tutela. Un decennio perduto, quello dal 2001 al 2011, ultimo atto di un cinquantennio che ha visto il paese diventare da povero e ambizioso a ricco e sfiduciato. Come un vecchio nobile decaduto che per mantenere uno stile di vita consono al suo lignaggio, vende pezzo dopo pezzo l’argenteria di famiglia, così l’Italia sembra aggrapparsi alla sua ricchezza accumulata – il patrimonio privato dei cittadini – per contrastare la bassa crescita del reddito nazionale. L’elevato livello di patrimonializzazione delle famiglie funge da welfare privato per le giovani generazioni escluse dal mercato del lavoro o tenute per effetto di legge in una condizione di pesante precarietà. Paradossalmente, il disagio giovanile non si trasforma in “scontro generazionale” perché la generazione dei garantiti e quella degli esclusi sono padre e figlio. Tramontato (e non poteva essere altrimenti) il mito del “posto fisso”, che troppi continuano strumentalmente a evocare, la politica non ha saputo offrire alle nuove leve ciò che queste chiedono: la creazione di opportunità, anche grazie all’abbattimento di quelle inique barriere all’ingresso nei grandi mercati del lavoro autonomo e dipendente. Non è un caso che, in un decennio, il tasso di occupazione della popolazione in età da lavoro (15-64) è rimasto pressoché invariato: era il 55,4% nel 2002, è stato del 56,8% nel 2010; la crisi recente conta poco: il valore è cambiato di poco nei dieci anni, il “massimo storico” è stato poco superiore al valore iniziale e a quello finale, il 58,7 nel 2008. Per un paese che nel 2000 sottoscrisse la Strategia di Lisbona, impegnandosi a portare il tasso di occupazione al 70% in dieci anni, anche questa suona come una clamorosa sconfitta. Di questo fallimento non c’è cartina al tornasole migliore della cosiddetta

 

emigrazione dei talenti (termine abusato, ma in fondo efficace). Quasi 9mila laureati, tra i 25 e i 44 anni, hanno lasciato l’Italia nel 2008 (erano poco più di 3800 nel 2002). Mentre il flusso complessivo di chi si lascia l’Italia alle spalle è sostanzialmente stabile (circa 50mila all’anno dal 2002 in poi), la quota di laureati sul totale è passata dal 9,7 del 2002 al 16,6% del 2008. Si tratta del 54% circa dell’insieme degli emigranti di quella fascia d’età (il 57% circa nel centro-nord, il 47 nel sud). I dati Istat colgono il fenomeno solo parzialmente: non tutti quelli che lasciano l’Italia s’iscrivono all’anagrafe per i residenti italiani all’estero e non tutti lasciando l’Italia cambiano residenza. Altre stime credibili (quella di Confimpresa) dicono che i laureati rappresentano circa il 70% degli espatri under 40. Più che l’emigrazione intellettuale in sé, il problema è rappresentato dall’assenza di una contestuale immigrazione di talenti. Che i talenti viaggino per il globo è storia antica, ma una nazione è davvero vitale se riesce a controbilanciare l’uscita di menti brillanti con un’entrata altrettanto consistente di talentuosi stranieri. Un problema italiano, rispetto ai paesi più ricchi del pianeta, è invece la scarsa capacità di attrazione: ogni cento laureati nazionali ce ne sono 2,3 stranieri, contro una media Ocse del 10,45%. Al centocinquantesimo anno d’unità, dopo un decennio essenzialmente “berlusconiano”, l’Italia scopre di non essere più un luogo interessante e stimolante, nè per i suoi talenti, nè per quelli del mondo. Lo Stivale è attraversato da almeno cinque “fratture”: quella generazionale appena citata; quella di genere (le storture di un welfare che paga troppe pensioni e sostiene poco la maternità, l’infanzia e la cura di anziani e disabili contribuisce a scaricare sulle donne il peso della tenuta sociale); la frattura “etnica” tra italiani di lungo corso e nuovi cittadini; l’atavica frattura territoriale; infine, si va allargando la frattura tra opinione pubblica, corpi intermedi della società e classe politica. I mali del paese – è bene precisare – non sono imputabili a chi ha avuto responsabilità di governo nel recente passato, sono il frutto di successive stratificazioni, mentre le loro radici risalgono fino agli anni dorati di cui si parlava in apertura di questo contributo. Fatto sta che, al centocinquantesimo anno d’unità, l’Italia si trova di fronte al declino e chi governa non pare avere né la forza politica, né l’esprit intellettuale per contrastare la tendenza. Il declino non è mai irreversibile, la storia umana ha smentito le teorie deterministiche sui cicli delle società e delle nazioni. Ma la storia ha anche mostrato che sfuggono alle sabbie mobili solo quei paesi le cui classi dirigenti sanno alzare lo sguardo oltre le scadenze elettorali, disegnando proposte di policy capaci di produrre i loro effetti nel tempo. Anche a costo di imporre sacrifici nel breve periodo. Si rimedia a un decennio perduto (e si onora un secolo e mezzo di storia unitaria) solo se si ha l’onestà di riconoscere il declino e la forza di offrire obiettivi concreti e visioni coraggiose per il prossimo decennio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Luigi il Grande

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Sul divieto di incrocio tv-giornali Berlusconi (premier) può autorizzare Berlusconi (imprenditore)

15 marzo 2011

Signor Presidente, con la nostra mozione intanto vogliamo porre un problema che è centrale per la nostra democrazia politica, ossia il problema dell’informazione nel nostro Paese, il suo rapporto con chi è titolare di cariche di Governo e, in particolare, con chi ha una preminenza, all’interno di questa titolarità, che è, certamente, il Presidente del Consiglio. Il 31 dicembre 2010 è scaduta la disposizione dell’articolo 43, comma 12, del Testo unico dei servizi media audiovisivi e radiofonici, di cui al decreto legislativo 31 luglio 2005, n. 177, secondo il quale le emittenti televisive titolari di più di una rete nazionale e relative società non possono acquisire partecipazioni societarie in aziende editrici di giornali quotidiani. È ciò che passa giornalisticamente come il divieto di incroci fra giornali e televisioni. Con il provvedimento cosiddetto milleproroghe, oggetto di un iter parlamentare molto tormentato, è stata introdotta la proroga del divieto, per chi possiede più di una rete televisiva, di essere proprietario di un giornale soltanto fino al 31 marzo 2011, e non fino al termine del 2012 come prevedeva il testo precedente del decreto-legge modificato, poi, nel corso dell’iter parlamentare. Il rinvio al 31 dicembre 2011 – questo è il punto – è, inoltre, facoltativo, innanzitutto, e, poi, rimesso alla discrezionalità del Presidente del Consiglio dei ministri. Infatti, il comma 2 dell’articolo 1 prevede espressamente che, con uno o più decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, da adottare di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, può essere disposta l’ulteriore proroga fino al 31 dicembre 2011 del termine precedente del 31 marzo.

Non vorrei definirlo come un piccolo giallo, ma, nella versione originaria del provvedimento cosiddetto milleproroghe, che era stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 26 febbraio, la tabella dei provvedimenti da prorogare al 31 marzo 2011 non conteneva, nell’elenco, proprio l’articolo che disciplina gli incroci stampa-tv. È stata eseguita una strana e singolare errata corrige dichiarando che, questa voce, sostanzialmente, è stata corretta poiché era sfuggita. Vorrei collegarmi non a considerazioni di parte, ma ad atti radicati in comunicazioni di Autorità di garanzia per sottolineare qual è il problema perché, il 24 novembre del 2010, proprio l’Agcom, l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, ha sottolineato che questa disposizione in materia di limiti antitrust all’incrocio tra televisione e giornali quotidiani è stata concepita, fin dall’inizio, dal legislatore proprio a tutela del pluralismo dei mezzi di informazione, sulla base della nota sentenza della Corte costituzionale n. 826 del 1988. E ha segnalato in modo formale al Governo e ai Presidenti delle Camere l’esigenza di un intervento legislativo al fine di mantenere in vigore il citato divieto in quanto strettamente funzionale alla tutela della concorrenzialità e al pluralismo dell’intero sistema dell’informazione. Ma l’Agcom ha evidenziato in modo particolare – questo è il secondo punto – una serie di debolezze della legge 20 luglio 2004, n. 215 in materia di conflitto di interessi e, in particolare, ha posto l’attenzione del Parlamento, che ritengo sia il primo interlocutore privilegiato, sulla discrasia che c’è tra l’ambito soggettivo e oggettivo dell’applicazione della normativa in materia di sostegno privilegiato, cioè la normativa che non contempla tra i comportamenti vietati che possono configurare un sostegno privilegiato, anche attraverso qualsiasi forma di vantaggio diretto o indiretto politico, economico, di immagine a titolare di cariche di Governo, alcun riferimento alle imprese della carta stampata. Cioè, c’è una lacuna normativa, nonostante i giornali siano ricompresi nel sistema integrato delle comunicazioni, il famoso SIC.

Quindi, le leggi-parametro proprio prese in considerazione dalla legge n. 215 del 2004 e la cui sola violazione è suscettibile di integrare la ricorrenza del sostegno privilegiato, impongono il rispetto dei principi del pluralismo, della completezza, dell’obiettività, della lealtà, dell’imparzialità dell’informazione solo da parte delle emittenti radiofoniche e televisive, mentre la stampa sotto il profilo contenutistico e comportamentale gode di una disciplina autonoma, che non è ricompresa nell’ambito delle leggi che poco fa ho citato. Quindi, due problemi. A sua volta, l’Antitrust, l’Autorità garante della concorrenza e del mercato in una segnalazione del 1o marzo 2011, direi una segnalazione allarmata e politicamente degna della massima attenzione, che è stata inviata sia al Presidente del Consiglio sia ai Presidenti dei due rami del Parlamento, ha ricordato la presenza – per carità, ha ricordato ciò che tutti sappiamo, intendiamoci, ma che venga dall’Autorità antitrust ha un particolare significato, di rilevanti partecipazioni della persona del Presidente del Consiglio dei ministri in più di una rete televisiva, e questo rende particolarmente sensibile sotto il profilo del conflitto di interessi il fatto che la proroga del divieto dell’incrocio di proprietà tra reti televisive e stampa quotidiana sia affidata alla discrezionalità e alla competenza dell’attuale Presidente del Consiglio dei ministri. Poi, l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, il 2 marzo 2011 è ritornata su questo tema raccomandando che venga prorogato di un tempo congruo il divieto di cui parlavamo. Quindi, abbiamo voluto richiamare con la nostra mozione che siamo dinanzi a questioni sensibili per la nostra democrazia politica e non vorremmo che, da una parte, vi sia un silenzio più o meno voluto ma, dall’altra soprattutto, una sorta di acquiescenza nei confronti di un problema che invece è rilevante per la nostra democrazia.

Con questa mozione abbiamo voluto richiamare questo problema. Tale problema ha anche delle ricadute che possono essere considerate non molto da bon ton, non molto gradevoli, ma di certo politiche. Infatti, è un fatto che sono state sollevate delle polemiche in sede politica e giornalistica nel momento in cui è stato nominato Ministro dello sviluppo il Ministro Romani, che viene dal mondo Mediaset (è inutile che ci giriamo intorno: diciamo le cose come stanno); inoltre è un fatto, per noi estremamente grave, ed è giusto che lo diciamo in questa sede, in Parlamento, che periodicamente – secondo notizie di agenzie e secondo notizie che vengono dalla stampa quotidiana – il Presidente del Consiglio faccia delle convocazioni dei direttori di alcune testate, sia giornalistiche sia di emittenti radiofoniche e televisive, in particolare afferenti al sistema di informazione Mediaset. È un fatto estremamente grave, che noi non intendiamo far passare sotto silenzio, perché collegato in modo precipuo ed in modo direi stringente alla materia di cui stiamo parlando in questo momento. Pertanto, non soltanto noi crediamo – e nella mozione abbiamo voluto fare un passo in avanti – che sia importante prorogare immediatamente ad un termine congruo, e quello della fine dell’anno prossimo lo è certamente, ma vogliamo sollevare la questione di una riorganizzazione complessiva, di sistema di questa materia, perché incide direttamente sulla qualità della nostra democrazia e sui diritti dei cittadini ad essere informati compiutamente, secondo un sistema che garantisca il pluralismo delle informazioni.

Concludo, signor Presidente, dicendo un’altra cosa che a noi sembra importante richiamare (se non lo si fa in Parlamento e se non si solleva in qualche modo il velo delle ipocrisie!): c’è un modo molto chiaro che abbiamo notato nell’esperienza di questi anni, per eludere persino il divieto esistente di incrocio di proprietà fra reti televisive e stampa quotidiana. Tale metodo è quello di intestare la proprietà dei quotidiani a parenti stretti e prossimi di chi è poi titolare di società di emittenti televisive. Questo ormai lo notiamo nella prassi di tutti i giorni. Sappiamo benissimo che chi lo fa si espone notevolmente al sospetto di proprietà fittizie, quando poi la stampa quotidiana viene intestata a parenti estremamente stretti. Cerchiamo di risolvere il problema con molta serenità in sede politica e parlamentare e quando si dovrà andare ad una necessaria – per noi assolutamente necessaria – riorganizzazione di questa materia è bene che il pluralismo dell’informazione venga assicurato anche sotto questo profilo, eliminando questa ipocrisia e facendo sì che il divieto di incrocio sia reale e superi anche questo problema. (Intervento in aula di lunedì 14 marzo 2011)

Concludo, signor Presidente, dicendo un’altra cosa che a noi sembra importante richiamare (se non lo si fa in Parlamento e se non si solleva in qualche modo il velo delle ipocrisie!): c’è un modo molto chiaro che abbiamo notato nell’esperienza di questi anni, per eludere persino il divieto esistente di incrocio di proprietà fra reti televisive e stampa quotidiana. Tale metodo è quello di intestare la proprietà dei quotidiani a parenti stretti e prossimi di chi è poi titolare di società di emittenti televisive. Questo ormai lo notiamo nella prassi di tutti i giorni. Sappiamo benissimo che chi lo fa si espone notevolmente al sospetto di proprietà fittizie, quando poi la stampa quotidiana viene intestata a parenti estremamente stretti. Cerchiamo di risolvere il problema con molta serenità in sede politica e parlamentare e quando si dovrà andare ad una necessaria – per noi assolutamente necessaria – riorganizzazione di questa materia è bene che il pluralismo dell’informazione venga assicurato anche sotto questo profilo, eliminando questa ipocrisia e facendo sì che il divieto di incrocio sia reale e superi anche questo problema.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Luigi il Grande

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Intervenire in Libia. Se esiste ancora l’Occidente

 

 

di PIERCAMILLO FALASCA – Mentre l’Occidente valuta l’opportunità di far seguire un vertice ad un altro vertice, o di usare un certo avverbio piuttosto che un altro nei documenti ufficiali, le forze fedeli a Gheddafi avanzano verso Bengasi, preparandosi a cingere la città d’assedio. Se accade e se il Colonnello dovesse infine prevalere, assisteremo inermi al riconsolidamento rocambolesco di un regime autoritario che sembrava agonizzante. Cosa ha permesso il ribaltamento della situazione, quali dinamiche hanno innescato la risurrezione di Gheddafi? S’era forse usata troppa fretta nel giudicare l’andamento delle guerra civile? Probabilmente sì.

Stati Uniti ed Europa sono incappate in un’illusione fatale: che bastasse la loro moral suasion a liquidare il regime gheddafiano, che la primavera araba fosse destinata - quasi deterministicamente – al successo, sul modello est-europeo. Al contrario, senza un supporto esterno, le rivoluzioni e i moti di liberazione raramente hanno un esito favorevole. E i partigiani libici rischiano oggi di soccombere.Questo è ciò che accade quando l’America si astiene dall’esercizio della sua leadership globale, sosteneva ieri il Wall Street Journal. Questa è la conclusione inevitabile delle chiacchiere europee, aggiungiamo noi.

La diffidenza nei confronti dei rivoltosi, di cui sappiamo oggettivamente poco, fa da schermo a quanti sono passati dalla becera legittimazione di Gheddafi, in nome di una realpolitik malintesa (dovrebbe esserci differenza, scriveva l’Economist, tra l’engagement con un regime da cui compriamo risorse vitali e l’endorsement del suo satrapo), ad un goffo prudentismo. La scarsa conoscenza delle forze politiche in campo avrebbe invece richiesto – e ancora richiederebbe – un maggior attivismo occidentale, affinché tra i ribelli prevalgano le componenti laiche e moderate.

L’interdizione aerea (la no fly zone), che dovrebbe impedire all’esercito regolare libico di usare l’aviazione contro i ribelli, sarebbe certamente un atto di quasi-guerra, avendo Gheddafi a disposizione una contraerei di molto più potente di quella di cui disponeva Saddam. Ma più passano i giorni e più essa rischia di diventare inefficace, acclarata ormai che la superiorità dell’esercito lealista è anche terrestre.

Ci sono oggi tre domande cui i governi occidentali dovrebbero rispondere. La prima: è interesse dell’Europa e dell’America l’archiviazione di Gheddafi? Seconda: siamo o non siamo convinti dell’importanza di una Libia guidata da un governo più affidabile – e rispettoso dei diritti umani – per la stabilità del Mediterraneo e per una gestione più serena dei flussi migratori e degli scambi energetici? Terza domanda: consideriamo un dovere delle società libere schierarsi sempre e comunque contro le dittature truculente?

Se la risposta è negativa, conviene sedersi in poltrona e guardare con più o meno gusto la partita libica. Se la risposta alle tre domande é invece positiva, se cioè riteniamo che la Libia vada accompagnata verso una sana modernizzazione, sia per interesse occidentale che per rispetto dell’umanità, allora è giunto il momento di considerare un intervento militare Nato. A partire dall’imposizione ad horas dell’interdizione aerea, ma senza escludere bombardamenti chirurgici di obiettivi strategici gheddafiani.

Quanti invitano – come il governo Berlusconi, fino a ieri amico intimo del leader libico e oggi contrario alla no fly zone – a battere le strade del ‘dialogo’, dovrebbero spiegare quali siano in concreto gli ingredienti di tale pacifica soluzione. Meno chiacchiere, per favore: se Gheddafi entra a Bengasi ci sarà solo lo sterminio dei ribelli, magari lento ma inesorabile. Se ciò avverrà, l’Occidente avrà definitivamente smarrito il suo senso storico e politico. L’Italia, in particolare, pagherebbe a caro prezzo la ‘restaurazione’ di Gheddafi. E sarebbe responsabile – per la seconda volta in cento anni – delle sofferenze del popolo libico.

 

Inserito da:

Piercamillo Falasca - che ha inserito 231 articoli in Libertiamo.it.

Nato a Sarno nel 1980, laureato in Economia alla Bocconi, è fellow dell’Istituto Bruno Leoni, per il quale si occupa di fisco, politiche di apertura del mercato e di Mezzogiorno. È stato tra gli ideatori di Epistemes.org. E’ vicepresidente dell’associazione Libertiamo. Ha scritto, con Carlo Lottieri, "Come il federalismo può salvare il Mezzogiorno" (2008, Rubbettino) ed ha curato "Dopo! - Ricette per il dopo crisi" (2009, IBL Libri).
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Luigi il Grande

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MOZIONE FLI SULLE RINNOVABILI, MENTRE INFURIA IL DIBATTITO SULL'ATOMO

 

 
MOZIONE FLI SULLE RINNOVABILI, MENTRE INFURIA IL DIBATTITO SULL'ATOMO - FUTUROLIBERO

Sull'onda dell'emozione giapponese potrebbe saltare il programma nucleare italiano, ma il governo ha "azzerato" il comparto "rinnovabili". Futuro e libertà chiede di mettere riparo subito
Infuria il dibattito nucleare sì, nucleare no dopo lo sconvolgente sisma giapponese. Questo crea grossi problemi al governo italiano che aveva rilanciato l’opzione nucleare e che a giugno dovrà fare i conti con un referendum sulla materia. Fino a qualche giorno fa l’area di governo contava sull’astensionismo, adesso tutto è cambiato e l’appuntamento assume un valore politico, anche perché il quesito sul nucleare – raggiungendo il quorum - si trascinerebbe dietro gli altri due sul legittimo impedimento e sull’acqua pubblica.
A questo si somma un’altra gaffe del governo. Puntando sul tutto-atomo, solito errore italiano, il ministro dello sviluppo economico, Paolo Romani voleva correggere le storture – che ci sono – degli incentivi sulla produzione di energia rinnovabile via eolico, solare e con combustibili a basso impatto. Invece ha combinato un guaio. Ha praticamente azzerato gli incentivi a un comparto che conta centinaia di imprese di “green economy” nelle quali sono occupati circa 150mila operatori. La “pezza” il governo dovrebbe metterla a fine maggio. Muto, Romani è risentito con tutti, il ministro dell’Ambiente riceve associazioni e Brunetta e Sacconi, ministro della Funzione Pubblica e del Lavoro fanno i pompieri garantendo nuovi criteri di assegnazioni di incentivi in breve tempo. Stessa promessa fatta da Berlusconi all’indomani del disastro fatto da Romani, ma il suo appello è stato accolto da molta diffidenza.
Che, in Parlamento, si è concretizzata in una mozione di Futuro e libertà che chiede, intanto, di reinserire gli incentivi fino a che non sia pronta una nuova “tabella”.
Infatti tra pochi mesi il “sogno” della prima pietra del nuovo nucleare italiano nel 2013 potrebbe essere infranto da un imponente rifiuto referendario, e sarebbe da pazzi bloccare ora i passi avanti nella produzione di energia alternativa, per quanto poco copra del fabbisogno energetico italiano.
La mozione, primi firmatari Benedetto della Vedova e Nino Lo Presti, impegna il Governo: a provvedere in tempi rapidi all’adozione del decreto ministeriale che dovrà disciplinare il sistema degli incentivi agli impianti di produzione di energia da pannelli solari fotovoltaici che vigerà dopo il 31 maggio 2011, superando il vuoto normativo creatosi con l’emanazione del decreto legislativo 3 marzo 2011 ed evitando, in questo modo, che l’incertezza normativa, oltre a ridurre l’attrattività dell’Italia per gli investimenti esteri nel settore danneggi quanti – sulla base di un legittimo affidamento alla stabilità della disciplina degli incentivi - hanno investito e stanno investendo nel settore e a rovvedere, nel quadro di un riordino della normativa settoriale, anche attraverso modifiche al decreto legislativo 3 marzo 2011 recentemente approvato: a) a estendere agli impianti fotovoltaici autorizzati entro il 31 maggio 2011, nonché agli impianti la cui richiesta di autorizzazione sia stata effettuata entro la data di emanazione del decreto legislativo 3 marzo 2011, la vigenza dell’attuale sistema d’incentivazione; b) ad una maggiore semplificazione del quadro delle autorizzazioni degli impianti, al fine di ridurre i tempi di attesa – e i relativi costi per gli operatori - e rendere più trasparente l’iter amministrativo di approvazione; c) ad adottare meccanismi d’incentivazione che premino l’innovazione di processo.
Sarà discussa mercoledì prossimo alla Camera insieme con un’altra dello stesso tono presentata dal PD.
(15 marzo 2011)
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Luigi il Grande

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Il gip archivia l’inchiesta sulla casa di Montecarlo

di Generazione Italia

 

Il Gip del tribunale di Roma, Carlo Figliolia, ha archiviato l’inchiesta della procura che vedeva indagati per truffa Gianfranco Fini e Francesco Pontone in relazione alla vendita della casa di Montecarlo. Il Gip ha fornito la seguente motivazione: nella vicenda non è ravvisabile alcun reato.
“Non si è verificata quella falsa rappresentazione della realtà necessaria per la integrazione del reato de quo; infatti l’immobile sito in Montecarlo e pervenuto ereditariamente nella disponibilità” di Alleanza nazionale “è stato ceduto ad un prezzo inferiore a quello di mercato senza alcuna induzione in errore dei soggetti danneggiati; trattasi dunque di una disposizione patrimoniale decisa dal presidente e amministratore di una associazione non riconosciuta, unitamente al suo segretario amministrativo quale rappresentante della stessa e pertanto autorizzato a disporre del suo patrimonio“, si legge nel provvedimento del gip.
Il giudice ha sottolineato che “le argomentazioni del pubblico ministero” che aveva chiesto l’archiviazione del fascicolo “vanno pienamente condivise“. Insomma “nel comportamento degli imputati non sono configurabili gli estremi del reato per la natura stessa dell’ente, associazione non riconosciuta (partito politico) e per le prerogative di coloro che hanno agito“.
Il fascicolo d’indagine era stato avviato sulla base di una denuncia presentata da alcuni esponenti del movimento La Destra. Oggetto dell’inchiesta è un appartamento in Boulevard Princesse Charlotte a Montecarlo, che fu venduto da Alleanza nazionale.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Luigi il Grande

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FLI al 6,8%. Calano Pdl e Pd

di Generazione Italia

 

Futuro e Libertà al 6,8%. In crescita rispetto all’ultima rilevazione della settimana scorsa. Calano Popolo della Libertà e Partito democratico, che scendono rispettivamente al 27 e al 26. Cifre ormai vicinissime. E’ quanto rivela l’Osservatorio politico di Fullresearch per Generazione Italia.
In lieve crescita anche l’Udc, a quota 6,6%. Così come per il partito di Antonio Di Pietro: l’Idv è data al 5,7%. Leggero calo per il partito di Vendola (SeL), che si ferma all’8%. Mentra stabile è la Lega al 10%, identica cifra da un mese a questa parte.
La vera sorpresa è il partito degli indecisi, che si ferma al 40%. Una percentuale per la prima volta in calo dal dicembre 2010.
Aumenta invece il distacco tra il gradimento di Silvio Berlusconi, fermo al 28%, e quello del Governo, che guadagna un punto a quota 36. Il sorpasso dell’Esecutivo sul Premier è ormai un dato strutturale.

Scarica il sondaggio

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Luigi il Grande

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Giustizia, forti perplessità ma pronti a discutere

10 marzo 2011

Giustizia, forti perplessità ma pronti a discutere La riforma della giustizia va discussa nel merito anche se ci sono forti perplessità soprattutto sulla cancellazione dell’obbligatorietà dell’azione penale dalla Costituzione e sulle ispezioni del ministro della Giustizia. Siamo pronti a discutere lungo il cammino parlamentare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Luigi il Grande