Spesso mi domando quale sia il motivo che non permette al nostro partito di prendere una posizione forte e decisa per portare fuori dal carcere Adriano.Già altre volte ho espresso il disagio settimanale che avverto nel leggerlo sull'ultima pagina di Panorama,sensazione molto forte, anche questa settimana, quando ci informa che occuparsi degli ammalati in galera è un paradosso.La situazione politica attuale dovrebbe essergli favorevole dato che in entrambi gli schieramenti esistono politici che lo vorrebbero aiutare.Oggi ho telefonato al carcere di Pisa(050574102 via Don Bosco 43)e mi hanno detto che "internet" non è a sua disposizione essendo un detenuto e quindi l'unica sua possibilità di uscire ,con la mente ,dalla prigione per segnalare a tutti noi cosa potremmo fare per i più deboli,emarginati restano i suoi articoli sulla stampa.Penso che sia ora,per tutti noi,di iniziare questa battaglia!!!
"La Repubblica", GIOVEDÌ, 24 MARZO 2011
Crimine
GUERRE UMANITARIE
Succede continuamente. La norma non è affatto quella dell´interventismo "umanitario", ma il suo contrario: l´omissione di soccorso. La norma è il Ruanda 1994, e il Clinton che si batte il petto per aver cavillato sul genocidio e lasciato perpetrare quell´orrore immane (e la Francia o il Belgio che non se lo battono abbastanza per avergli dato mano). Il Ruanda, dove si macellava a colpi di machete, e non si spedì un Piper a far saltare la Radio delle mille colline, e non si fecero cortei a Roma o a Parigi. La norma è Srebrenica 1995,coi governi europei complici e qualche pacifista impegnato a sventare decolli di aerei ad Aviano. Quando finalmente decollarono, la partita si chiuse in un giro di giorni e nella rotta dei gradassi ubriachi che miravano ai bambini. Andò diversamente in Kosovo, perché la lezione di Srebrenica era fresca, e Milosevic aveva passato il segno. Si riaccese la scaramuccia degli interventisti e dei pacifisti, più scoppiettante perché ad aderire all´intervento era Massimo D´Alema. Il copione dei pacifisti e degli interventisti si replica come le sedie di Ionesco. Si può davvero dubitare del dovere di aiutare, o chiamare aiuto, quando il crimine si compie sotto i nostri occhi, la sera di Bengasi o la mattina di Srebrenica? È stato codificato, quel dovere, ma era scritto da sempre. Ricominciare ogni volta daccapo –"intervenire o no?"– è il modo vanesio e imbecille per eludere la vera ardua questione: quando e come intervenire. Era la questione del Kosovo: sgombrando la terra e dall´alto dei cieli, o viceversa? Quasi nessuno se ne occupò, tesi gli uni a gridare no "senza se e senza ma", paghi gli altri della decisione trasmessa agli stati maggiori, che fanno quello cui sono addestrati. Si nega che oltre i confini nazionali si possa ricorrere a una polizia. In nome della sovranità nazionale – come se le frontiere delle nazioni fossero chiuse al bracconaggio criminale, alla fame, alle nubi radioattive, e anche alla solidarietà fra umani. O in nome dei rapporti di forza e di convenienza, della ragion di Stato: come sostenere che dentro una nazione il lavoro di polizia si debba fermare di fronte alla malavita troppo potente, o ai potenti troppo potenti. Del resto, hanno sostenuto anche questo.
Ci sono state guerre inevitabili e giustificate, come contro il nazifascismo. "Umanitarie" no. Si abusa del nome orrendo di guerra, e del resto che cosa c´è di più eccitante della nuvola di missili appena lanciati? Le guerre dovevano almeno avere una parvenza di equilibrio fra contendenti. C´è, fra la Tripolitania e l´armata d´occidente? A chiamarla, come si deve, azione di polizia, bisogna che sia autorizzata (questa lo è, in Iraq non lo era, e non rispondeva all´appello di una popolazione insorta), che faccia un uso proporzionato della forza, che faccia valere i propri principii anche per il nemico che affronta. Guerra o azione di polizia: lo considerano un gioco di parole, ammesso che lo considerino. Eppure è così inevitabile: c´è un diritto internazionale se c´è un´unione delle nazioni, c´è un tribunale internazionale se c´è una polizia internazionale. L´unico a dirlo, da noi, fra tanto cubitale gridare alla guerra, è stato Napolitano: «Non siamo entrati in guerra. Siamo impegnati in un´operazione dell´Onu». (L´ha ripetuto Frattini, «Non siamo in guerra», ma lui voleva dire altro, tirare il sasso, o non tirarlo nemmeno, e comunque nascondere la mano; come il Berlusconi "addolorato" per Gheddafi).
Quanto alla terza via: le vie sono diecimila. A volte c´è una sola via. La sera di Bengasi, la mattina di Srebrenica. Lì non si può dire "Né… né…", né con i ribelli né con Gheddafi…Si deve stare con qualcuno e contro qualcun altro. Con l´aggredito contro chi lo aggredisce, in una infame sproporzione di forze. In una strada di città può bastare un bravo carabiniere. Con un satrapo che sta bombardando i suoi sudditi ribelli con i Mig, è più complicato. Ma non meno necessario.
"La REpubblica", GIOVEDÌ, 17 MARZO 2011
Quando leggete queste righe, forse Bengasi è caduta, e finalmente la famosa Comunità Internazionale potrà dire, sospirando, che è troppo tardi per intervenire. Potrà aggiungere, alzando le spalle, che i ribelli hanno millantato credito e si sono fatti espugnare con qualche bombardamento e "col gesso".
Solo che non è più in questione il credito militare dei ribelli, ma la sorte di una popolazione civile in balia della rappresaglia.
Per parlare di oggi, vorrei ricordare due date dell´altro ieri. Il 15 aprile 1986 due missili Scud lanciati dalla Libia si inabissarono a un paio di chilometri dalla costa di Lampedusa. Undici giorni dopo, il 26 aprile, esplose il reattore di Chernobyl. I missili libici rispondevano a un massiccio attacco aereo americano mirato a uccidere Gheddafi. Uccise una sua figlia piccola e alcuni civili, il dittatore se la cavò (avvertito, si disse poi, dal governo di Craxi e Andreotti). Quanto alla nube di Chernobyl, fu portata qua e là sull´Europa; da noi si presero misure restrittive sul latte e le verdure. Lampedusa, che non era ancora così affollata, apparve per un momento come una fortunata terra di nessuno, appena a nord della gittata dei missili libici, appena a sud della nuvola radioattiva.
Sono passati venticinque anni, Gheddafi completa la riconquista, la Comunità Internazionale maschera meglio l´imbarazzo dietro la commozione per il disastro giapponese e lo spavento nucleare. Che cosa è successo, in venticinque anni, che ha fatto passare da una ritorsione militare americana condotta con ben 24 bombardieri su molti obiettivi libici, comprese Tripoli e Bengasi, il cui movente dichiarato era l´attentato sanguinoso in una discoteca tedesca, all´omissione di ogni azione quando il dittatore scatena contro la popolazione insorta la sua schiacciante macchina militare? Tante cose, certo, dalla Somalia 1993 all´11 settembre, e la guerra in Iraq e in Afghanistan … Questo spiega l´astensione di Obama, benché non le dia ragione. Ma l´Europa? L´Europa fa affari grossi in armi, ma quando si tratti di un´azione di polizia diventa più pacifista di un fachiro indù, "per non disturbare". L´Europa è quella che ha lasciato massacrare la Bosnia per anni - e la Bosnia era europea - finché Clinton ne ebbe abbastanza. Dall´Europa si vedeva il fumo di Sarajevo a occhio nudo, si vede a occhio nudo il fumo di Bengasi. Il fumo è la verità dell´Europa.
Non si accorgono, le potenze democratiche (le chiamiamo così?) che una simile inerzia di fronte alla rappresaglia dei miliziani di Gheddafi rivaluta a posteriori l´impresa unilaterale di Bush contro Saddam? Saddam scommise, come Gheddafi oggi, sull´impotenza delle potenze democratiche, lui sbagliò la sua puntata, Gheddafi l´ha azzeccata, a quanto pare. Le potenze democratiche l´hanno bandito e additato al tribunale internazionale, gli hanno dato tutto il tempo di riaversi dal colpo della ribellione e di ricomprarsi le sue forze armate, e hanno fatto da spettatrici a una riconquista che consegna alla vendetta una gente inerme. La quale, ubriaca di liberazione, ha avuto l´ingenuità di intimargli la resa, come un condannato può intimarla al plotone di esecuzione, convinta di avere alle spalle il sostegno, oltre che gli applausi, delle potenze democratiche.
Il dilemma è ormai antico, nuovo è solo il contesto in cui si pone. Che esistano una giustizia e un tribunale internazionale senza che esista una polizia internazionale è una boutade. La giustizia internazionale - se non l´aspirazione morale, il minimo di legalità nelle relazioni sociali - sconta l´incapacità a misurarsi con corpi separati troppo potenti, come le banche troppo-grandi-per-fallire, gli Stati troppo grossi per essere messi agli arresti, a cominciare dal più grosso, la Cina. Ma se Cina e Russia sono troppo grosse per fischiar loro la contravvenzione, non lo siano almeno tanto da imporre il veto ad azioni di difesa del diritto e delle vite umane in ogni punto del pianeta. Gheddafi può essere arrestato, o mandato a quel paese, almeno quando una buona parte dei suoi sudditi gli si è ribellata. Si può avanzare un´obiezione, cui peraltro ha già risposto il diritto-dovere di ingerenza umanitaria, dove se ne diano le condizioni, e qui perfino l´avventurosa imputazione di crimini contro l´umanità: che un´insurrezione che non conti sulle proprie forze non è legittimata a vincere. Non è vero, e lo è stato molto di rado, Risorgimento compreso, per non dire della Resistenza. Una moderna dittatura dinastica e tribale, come quella di Gheddafi, confisca una ricchezza sufficiente a mantenere una vasta base sociale e una forte milizia pretoriana, sfruttando un lavoro servile innumerevole, un popolo di formiche invisibile fino a che non si è rovesciato sui confini. Ci sono in Africa situazioni esemplarmente complementari, quella libica, dove una rivolta ottiene un vastissimo riconoscimento internazionale, inclusa la Lega araba, e viene abbandonata alla repressione, e quella della Costa d´Avorio, in cui la vittoria di un candidato - Ouattara - in elezioni riconosciute regolari dall´Unione africana, viene rifiutata dal despota uscente, Gbagbo, precipitando il paese nel sangue. E intanto l´unico intervento militare straniero avviene nel Bahrein ad opera dell´Arabia Saudita, e sia pure su richiesta del sovrano, per soffocare la ribellione della maggioranza sciita.
È difficile certo seguire una rotta ferma nell´incandescenza del mondo, e tanto meno una rotta che non voglia deridere troppo i principii solennemente proclamati. Ma il piccolo cabotaggio non rende quando le onde sono così alte. L´Europa sembra più divisa che mai. La Francia di Sarkozy l´ha sparata troppo grossa e intempestiva per non dare l´impressione di cedere a un tornaconto elettorale, a qualche vanità personale, e al peso delle perdite in Afghanistan o della disgraziata operazione di liberazione di ostaggi in Niger: ma almeno l´ha detto. Così la combattiva posizione di Cameron, che in altri tempi sarebbe stata presa sul serio, ha un timbro meramente retorico. (E c´è solo da augurarsi che la riconsegna, nell´estate 2009, di Al-Megrahi, l´"eroe nazionale" di Lockerbie, non abbia aperto la strada alla concessione di prospezioni di profondità nel Golfo della Sirte, nell´estate scorsa, a quella BP fresca del disastro nel Golfo del Messico; rispetto al quale il Mediterraneo è una piscina domestica). Angela Merkel ha usato un´espressione rivelatrice: vuole «aspettare e vedere come si evolve la situazione». I prossimi popoli che covano voglie di ribellione e libertà sono avvisati.
Si direbbe che le stonature stridenti nei pronunciamenti europei siano in effetti il concerto di un continente unito nell´intenzione di lavarsene reciprocamente le mani. L´Italia poi è irrilevante, e tiene a esserlo. Ogni giorno che passa rende lo scioglimento più arduo. Che la banda Gheddafi se ne vada per via di persuasione e qualche embargo, è impensabile. Che si rimetta saldamente in sella e tutti ricomincino a trafficarci come prima, è il sogno di molti, ma difficile da realizzare. E allora? Allora, siccome il tempo è un fattore decisivo per qualunque sbocco, l´Europa prende, cioè perde, tempo. È questo perdere tempo, l´Europa.
Il biotestamento autoritario
Articolo di Adriano Sofri pubblicato su la Repubblica, il 10/03/11
"La Repubblica", SABATO, 05 MARZO 2011
C´è una donna, sulla quale si accaniscono di colpo sfortune diverse: d´essere giovane – "ragazza madre" – d´essere "bella", d´essere "sbandata". La storia rotola giù come una valanga: il furto di un paio di magliette in un grande magazzino, l´arresto.
e poi la sosta per le formalità in una caserma di carabinieri, il trasferimento in un´altra caserma meno affollata, la degenza in una cella di sicurezza (badate: "di sicurezza"), la visita notturna di un piccolo manipolo di carabinieri e, per giunta, un vigile urbano, il whisky, il trasloco dalla camera di sicurezza alla mensa, e là il rapporto sessuale con uno o due degli allegri compagni, mentre gli altri guardano. Il rapporto sessuale - diranno dopo che la giovane ha trovato il coraggio di andare a denunciarli, e per sua buona sorte ha descritto il tatuaggio di uno dei suoi usatori, senza di che sarebbe stata spacciata per calunniatrice - è avvenuto, ma lei era consenziente, anzi, provocava. E poi, è una sbandata. Si stenta a credere alle proprie orecchie. Perché quelle che invocano come giustificazioni, sono confessioni di un delitto e delle sue aggravanti. Se a commetterlo siano pubblici ufficiali, e se lo commettano su una persona privata della libertà e affidata alla loro custodia, lo stupro è stupro, per legge, anche se davvero fosse stato "consentito" e perfino implorato dalla persona prigioniera. Punto sul quale occorre dubitare forte, perché la parola di lei, "sbandata" che sia, non può valere meno di quella dei suoi custodi infedeli, né le canta contro il certificato medico che non riscontra segni di violenza corporale: andate a riscontrare segni di un "ripetuto rapporto orale" imposto a una che è in mano vostra e che avete fatto bere.
Questa è la storia, e vien fatto di reagire in due modi opposti. Dicendo amaramente che non c´è niente di cui sorprendersi, e che questo succede, e a volte se ne ha notizia, grazie a un telefono che registra, a un testimone che cede, a un tatuaggio incautamente esposto. Oppure mostrando quanto c´è di cui sorprendersi. Per esempio, che i protagonisti, rei confessi e provati, vengano "trasferiti altrove e assegnati a compiti di ordine pubblico", piuttosto che arrestati. Il colonnello comandante della provincia di Roma ha bensì dichiarato che "il nostro giudizio di assoluta riprovazione prescinde dalle responsabilità penali che si stanno doverosamente accertando", ma il fatto riprovato è di per sé un misfatto penale. E di che cosa parlano i commentatori titubanti circa l´eventualità che si sia trattato di "sesso o violenza sessuale"? Del naturale intercambio di sesso da svolgere in una camera di sicurezza, e fra carcerieri e carcerata?
Certo che la trista storia "non può offuscare la meritoria opera dell´Arma" eccetera, e che le mele marce eccetera. Purché questo profluvio di frasi non sia una litania ipocrita. Quando un ragazzino scippa una pensionata si potrebbe ragionevolmente avvertire che non tutti i ragazzini scippano le pensionate, ma suonerebbe superfluo. Si tuteli pure il buon nome dell´Arma e dei ragazzini, ma si rifletta come si deve alla questione drammatica sollevata dal rapporto fra chi disponga di un corpo altrui, e chi se ne trovi in balia. Pochi giorni fa si era trattato di un paio di poliziotti municipali palermitani soprannominati Bruce Lee o chissà come altro, abituati a imperversare su disgraziati indifesi, finché una loro vittima ha reagito a morte dandosi fuoco. Ora la storia romana ha riportato tutti al ricordo fremente di Stefano Cucchi, e non solo per qualche fortuita coincidenza di carabinieri e caserme. Qui c´era una giovane donna, "bella" e "sbandata". Là un giovane uomo, fragile e "sbandato". Due corpi fatti apposta: l´una per il "rapporto orale" (espressione che vuole essere perbene e suona più disgustosa, non l´avranno chiamato così, quella notte), l´altro per le botte. Il certificato di lei non rileva segni e così via, il certificato di lui li rileva tutti. Corpi che abusano di corpi.
Succede di essere in balia d´altri, o che altri siano in nostra balia. Non so quale delle due condizioni sia meno augurabile. Succede di essere corpi esausti o malati, esposti inermi alla buona o cattiva volontà di un badante o un infermiere. Di essere bambini affidati all´amore e alla pazienza, o alla frustrazione e alla furia, di un famigliare o una baby sitter o una maestra d´asilo. Disporre dell´incolumità e della dignità altrui, ecco una condizione delicatissima, che chiama alla più rigorosa responsabilità, e però può tentare a sfogarsi e infierire.
La condizione di chi è privato della libertà è un caso peculiare di questo repentaglio. C´è un organismo europeo incaricato di vigilare sul trattamento delle persone private della libertà. La sigla è Cpt, la denominazione per esteso è costretta a essere prolissa: "Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti". Le persone private della libertà sanno che cosa vuol dire trovarsi in balia d´altri. Conoscono le intimazioni regolamentari a spogliarsi di panni e di personalità: "Qui non ti vede nessuno, qui non ti sente nessuno. Qui non sei nessuno". Lo sanno orribilmente gli ostaggi di sequestri privati, costretti a chiedersi che cosa sarà di loro, e a temere il peggio. Lo sa anche chi è privato della propria libertà in nome della legge, e dovrebbe sentirsi protetto da una mano giusta e leale, al sicuro. "Assicurare alla giustizia", si dice. Come la signora S. D. T., ragazza madre, assicurata alla giustizia per aver rubato un paio di magliette all´Oviesse. Come il signor Stefano Cucchi, assicurato alla giustizia per possesso di modica quantità di stupefacenti, morto di botte e disidratazione.
"La Repubblica", DOMENICA, 13 FEBBRAIO 2011
Palermo e Sidi Bouzid, una scena sembra il calco dell´altra. Palermo, 11 febbraio, Adnane Noureddine, marocchino, 27 anni, una bambina di due, vende giocattoli e sciarpette sul marciapiede.
Ha la licenza ma non può fermarsi a lungo sulla stessa strada. I vigili lo fermano (per la quinta volta in una settimana, pare), gli sequestrano la merce. Lui li implora di lasciargliela, e al loro rifiuto si cosparge di benzina e si dà fuoco, è in condizioni disperate. A Sidi Bouzid, una cittadina rurale nel centro della Tunisia, lo scorso 17 dicembre Mohamed Tarek Bouazizi, 26 anni, primo di cinque fratelli, diplomato, vendeva verdure e frutta: gli sequestrano un´ennesima volta bilancia e merce, protesta, lo malmenano. Scrive un messaggio su Facebook e una lettera a sua madre, le chiede perdono con una frase solenne e bella: «Rivolgi i tuoi rimproveri alla nostra epoca, non a me». Poi va davanti al palazzo del governo, si cosparge di benzina e si dà fuoco. Muore il 5 gennaio in un ospedale di Tunisi. Là, dove agonizzava avvolto nelle bende come una mummia, è venuto a fargli visita il padrone del paese, Ben Ali, che di lì a poco fuggirà dal paese con la sua tribù famigliare e col suo oro, cacciato dalla ribellione di cui il rogo di Mohamed è stato la scintilla. Dal gesto umiliato di Mohamed è scaturita una rivoluzione popolare che ha già abbattuto le dinastie tunisina ed egiziana. Gli storici concorderanno che appunto di una scintilla si sarà trattato, e se non fosse stata quella sarebbe stata un´altra, e solo una mente ingenua e romanzesca si compiace di immaginare che gesti solitari e oscuri cambino il corso del mondo, come se davvero la Prima Guerra Mondiale fosse scoppiata dal revolver di un piccolo maestro nazionalista serbo sul Ponte Latino di Sarajevo e dai suoi adolescenti compagni di cospirazione. (Finirono per crederci anche loro, e dissero ai loro interroganti: «Ma io non pensavo, non volevo…»). Mohamed B. non pensava certo, però avrebbe voluto. Oggi il mondo sa chi era, e lo proclama iniziatore di un sommovimento che è ancora all´inizio, e fa tremare Tripoli e Algeri e Riyad, e induce perfino Pechino a togliere dalla rete il nome "Egypt". Di Adnane Noureddine, marocchino di Palermo, la storia non serberà memoria, e la cronaca gli accorderà un trafiletto, e anche per questo ne scrivo, che abbia almeno un posto nella pagina nazionale. Ma bisognerebbe stare più attenti alla lezione di coincidenze come questa. Abbiamo assistito, in un rapido volgere di anni, dapprima increduli e sbigottiti, poi rassegnati e assuefatti, a una mutazione umana orrenda come quella degli assassini-suicidi che chiamiamo kamikaze.
Uomini (e donne) che sacrificano con entusiasmo vite altrui, di innocenti tramutati in nemici o in ostaggi, per guadagnare il premio del paradiso: altra storia da quella antica degli umani disposti a sacrificare la propria vita per una causa sentita superiore. Contro umani votati alla morte può poco la premessa di ogni educazione e prevenzione e repressione, che è l´amore e comunque l´attaccamento alla vita. Il suicidio di Mohamed B. e dei suoi emuli, come già quelli di Jan Palach o dei bonzi di Saigon, è spoglio di compiacimenti estatici, e rifiuta di fare della propria morte un´arma estrema per colpire fisicamente un nemico, come quel personaggio di Dostoevskij che presta con disprezzo il proprio suicidio solitario ai militanti del terrore, per i quali è una moneta da spendere. (Noi qui ce l´abbiamo, un nostro investimento azionario del suicidio-omicidio, negli uomini che ammazzano le donne).
Amaro e insopportabile com´è, il suicidio inerme è una protesta di dignità e contraddice la vita spregiata dai "kamikaze". Che attraversi oggi in particolare il mediterraneo islamico e vi si mostri imprevedibilmente efficace fa pensare, ma è un fenomeno più vasto. Ha riguardato, nei nostri anni, a migliaia, i contadini indiani indebitati. Ha scosso l´anno scorso il cuore della produzione cinese, nella più colossale e avanzata linea di montaggio del mondo, dove 13 suicidi ravvicinati di operai hanno costretto a concedere aumenti fino al raddoppio dei salari (derisori) e a escogitare misure grottesche, come l´impegno a non suicidarsi sottoscritto per contratto! (Ora si sostiene che l´epidemia di suicidi sia stata arginata dalle reti installate sotto le finestre della città-fabbrica da cui si buttavano giù…). Nell´agosto 2010, il tredicesimo suicida della Foxconn, un diplomato diciannovenne, assunto da 42 giorni, lasciò una lettera in cui descriveva l´abisso fra le aspettative di chi comincia un´attività di lavoro e la realtà. In gennaio, il primo, un altro diciannovenne, Ma Xiangqian, si era buttato giù dal tetto del dormitorio: lavorava sette notti a settimana, undici ore filate, a montare componenti elettronici, prima di essere spostato a pulire i cessi. Nemmeno in Europa i lavoratori che si suicidano sono una notizia rara, purtroppo. In Francia hanno fatto scalpore i suicidi di dipendenti, in gran parte manager, della Telecom: 24 in 19 mesi. In Italia, dove non è raro che le cronache registrino (o ignorino) il suicidio di lavoratori disperati che hanno perduto il posto di lavoro, si è fatta allarmante la sequela di suicidi di piccoli imprenditori messi nell´impossibilità di tirare avanti, con le proprie aziende, le famiglie proprie e dei propri stretti collaboratori. Il suicidio non può essere ritenuto una risorsa della non violenza –caso mai una conseguenza non cercata. Ma sta di fatto che sulla sponda sud del Mediterraneo, luogo proverbiale di violenza o di apatia, sono avvenute due, finora, rivoluzioni popolari e non violente. (Lo fu anche quella iraniana, ma niente è detto una volta per tutte). Quelli sono paesi di giovani e non per giovani. Il nostro non è per giovani né di giovani, benché rinsanguato dai nuovi arrivi. Anche se la disgrazia di Palermo resta per ora nella cronaca locale dei fatti vari, l´intera storia ci riguarda da molto vicino.
"La Repubblica", VENERDÌ, 28 GENNAIO 2011
È il giorno dello sciopero indetto dalla Fiom, sostenuto dalla Cgil, e a cui partecipano, con gli studenti, i ricercatori e i precari della scuola, gruppi e persone variamente impegnate a rendere migliore la vita comune. Sparpagliato com´è (e com´è bene, almeno in parte, che resti) questo movimento si è chiamato "Uniti contro la crisi", che è il supplente prosaico di un vero nome.
Globalizzazione non è una parola bella, dunque neanche i suoi opposti, noglobal ecc. Magari trovare una parola nuova, esatta e trascinante insieme. Se fossi nato ieri, o appena approdato da un altro pianeta possibile, dopo aver preso atto dello stato della Terra e dei suoi abitatori, ed essermi fregato gli occhi, inventerei il nome: Internazionale. La chiamerei Prima Internazionale, non nella previsione che ne vengano altre (sarebbe tragicomico, no? La Seconda, la Due e mezzo, la Terza, la Quarta…), ma per separarla da quelle già venute, come una locomotiva di coda da un treno deragliato.
Non siamo nati ieri, e questo sappiamo, quel che non siamo e non vogliamo più. Fatti i conti coi deragliamenti, possiamo immaginare una buona idea che giri per il mondo e assomigli a una associazione internazionale dei lavoratori e dei cittadini. La parola Internazionalismo è scomparsa proprio quando a definire il mondo provvede la parola Globalizzazione. Paradossale è anche essere stati internazionalisti all´epoca degli Stati nazionali, e non esserlo più all´epoca della Globalizzazione. Avere magari simpatizzato per operai e contadini cinesi quando erano ingoiati dalla dittatura di partito, piuttosto che oggi, quando cominciano a battersi a loro modo per benessere e diritti. Vi racconto una barzelletta, mi sembra una definizione eccellente della globalizzazione. C´è un cinese di Prato che deve andare a Pechino per il Capodanno del Coniglio, va alla stazione e chiede: "Un biglietto per Pechino". Il bigliettaio trasecola, si volta verso un collega: "Oh, questo vole un biglietto per Pechino". "Mandalo a Firenze". A Firenze il bigliettaio si scusa, non è mai successo, gli fa un biglietto per Milano. A Milano - abbrevio - lo mandano a Francoforte. Da qui a Mosca, e finalmente, con un biglietto della Transiberiana, arriva alla stazione di Pechino. Pensa bene di premunirsi per il ritorno, va alla biglietteria e chiede: "Un biglietto per Prato". Il bigliettaio, pronto: "Prato centrale o Prato Serraglio?"
Così stanno le cose. Noi non abbiamo convertito la nostra vita quotidiana di automobili private da 250 all´ora andanti nel traffico urbano a 10 all´ora, così da avere qualche titolo per ammonire il resto del mondo che, se avesse fatto come noi, sarebbe stato fottuto. E ora ci disperiamo perché a Pechino riducono drasticamente le immatricolazioni di nuove auto, che noi vogliamo vendergli. Inquiniamo a tutta forza, e compriamo l´aria dei paesi (provvisoriamente) affamati. Hanno scritto su un muro di Torino: "Non siamo noi che dobbiamo diventare come i cinesi, sono i cinesi che devono diventare come noi". Programma buono benché egocentrico, ma arduo. "Noi" ogni tanto siamo presi da eccessi di zelo, come quando volevamo "esportare la democrazia" manu militari. Ora ci accorgiamo che stiamo importando autocrazia. Che sia il gas di Putin o Gheddafi, o l´invidiata efficienza del comunismo ipercapitalista cinese, o il dispotismo ecologico di Singapore, è la democrazia a passare per un lusso di stagione, e la democrazia sociale un lusso nel lusso: si tira la cinghia, e a restarci strozzati sono due secoli di lotte, e i diritti declassati a concessioni dei tempi grassi. E´ impossibile che "i cinesi" diventino "come noi", e non sarebbe giusto: possiamo fare di meglio, noi e i cinesi. La questione del giorno, che i timonieri tramutano in una morsa senza scampo - perciò parlano per ultimatum - riguarda una molteplice divergenza di tempi. L´espansione della Cina (e degli altri "emergenti") è incomparabilmente più veloce della nostra, ammesso che noi non andiamo indietro. Ma è anche enormemente più veloce del progresso, che pure c´è, delle conquiste dei lavoratori cinesi. A sua volta la retrocessione di conquiste salariali e di diritti del lavoro da noi è precipitosa, fino a lasciarsi misurare simbolicamente da un giorno e un´ora, come nell´accordo Fiat. Intanto lo sciopero da noi ha perso moltissimo della sua forza materiale. Fanno più male gli scioperi dei consumatori che dei produttori. E´ passato agli operai lo sciopero della fame, una forma estrema di sciopero alla rovescia. Si torna agli albori, quando scioperare voleva dire mettere a rischio il lavoro e anche la propria incolumità: e circondati da una riserva senza fine di manodopera e luoghi in cui traslocare. Il nuovo tempo è misto di un Ottocento da compagni di Monicelli, tetti occupati e falò per riscaldarsi, e di reti sociali. L´Internazionale non è mai stata così una buona idea. Della prima edizione non vuole né gli apparati, né la limitazione "coloniale" - che porterà alla bancarotta del 1914 - né la confusione fra partito e sindacato e il mito dello sciopero generale, né la riduzione dell´universo alla contraddizione fra capitale e lavoro. Le si rimproverò di essere solo "una cassetta postale": non è poco, una casella mail. Allora si trattava delle otto ore e della pace. Oggi si tratta delle otto ore (o dei dieci minuti), della pace e della salvezza della Terra. La sua lingua può essere intesa da chiunque non faccia prevalere il suo interesse immediato, egoistico e avido (pressoché irresistibile, dunque) sul rispetto e l´amore alla vita di tutti e propria. Come nella canzone: "Sarà il genere umano…". Come nei versi leopardiani: "Tutti fra sé confederati estima gli uomini e tutti abbraccia… negli alterni perigli e nelle angosce della guerra comune". Appena aggiornati: "Tutti fra sé interconnessi estima…".
Vasto programma, dite? L´Internazionale nacque dalla mobilitazione in favore della Polonia oppressa. Polonia e Italia furono sorelle, l´inno polacco fu scritto a Reggio Emilia nel 1797, appena dopo la proclamazione del tricolore, i polacchi di Mickiewicz si batterono per la Repubblica romana del 1849 e i polacchi di Anders a Cassino nel 1944 - fino a Solidarnosc. Come è stato possibile che in un´Europa che si dice unita i polacchi di Tychy e gli italiani di Pomigliano si siano trovati a giocare e essere giocati gli uni contro gli altri, e a perdere insieme? E la Polonia è vicina, Shenzhen è lontana… Ma no, Shenzhen è vicina, e a Bangalore si sbrigano stanotte le pratiche londinesi di domani mattina, il Giro del mondo in un giorno solo. E´ bello un mondo in cui il sole non cala mai sul lavoro e l´intelligenza, e le notti del sonno e dei sogni sono equamente distribuite. E´ già possibile, eppure ce ne allontaniamo ogni giorno di più.
L´altro giorno militanti dei sindacati e dei movimenti che oggi animano le piazze si sono riuniti a Marghera per misurarsi con la precarietà, la formazione, i diritti sociali, il riuso, i referendum sull´acqua e sul nucleare, il faraonismo di ponti e Tav e basi aeree nella città palladiana. Lavorano da anni a una via altra fra privato e pubblico, proprietà privata e statalismo, e la chiamano "bene comune". Alle sue origini, il capitalismo cancellò gli usi civici e ne fece la base della sua accumulazione primitiva: oggi se ne impadronisce, fino all´acqua, fino all´aria, per dilazionare - grassamente - il suo rendiconto. C´è spazio per la fraseologia, magari per qualche "bene comunismo". Ma le questioni sono quelle. E alla Fiom che gode oggi della fraternità di tanti giovani che vedono dissolversi la frontiera fra "garantiti" e precari, non basterà mettere in banca il credito che le hanno dato i no e i sì di Mirafiori. Che questi temi si presentino come "antagonisti" non toglie la loro capacità di riguardare la grandissima parte della popolazione umana. Perfino quelli che non smetteranno di ballare e dire barzellette sugli zingari nella sala di prima classe, e i loro trafelati borseggiatori - fino a che il mare non sia richiuso sopra tutti.
"La Repubblica", GIOVEDÌ, 27 GENNAIO 2011
E4 novembre 1983lsa e i sogni spaventosi. L´hanno abbandonata, dice, ma è ancora peggio, le tenevano almeno compagnia. Si sono offesi, dice. Beata te che sei al caldo, le dico, fuori c´è una pioggia noiosa – sì, ma gli ombrelli sono bellissimi quando si aprono.
29 dicembre. Elsa sta meglio, dunque si sente peggio.
Forse anche questa malattia, dice, le è stata mandata come una prova. Si viene al mondo (al contrario che per Leopardi) per propria scelta, perché ci sono delle cose da fare. E se ne è responsabili. Le mattine sono terribili. E le sere sono terribili, perché avvicinano le mattine.
16 settembre 1984. Ha le mani gonfie. «Non sono mica così le mie mani». La poesia di un innamorato sedicenne a lei dodicenne: «Mani diafane come la maga Alcina». La seduzione. Ai ragazzi piaceva, anche ai più grandi, quelli del liceo, che le passavano davanti a salutare e mandare baci. Piaceva più delle sue compagne, che del resto erano solo tre, e bruttine. Quando qualcuno le è piaciuto, gli ha fatto la corte, ma sempre con grande timidezza. Ma in genere non si è fatta scappare la preda che aveva bramato. Con una sua amica tedesca, Margherita Rossi – con lei andava molto d´accordo, anche se era donna – una volta al mare aveva visto un giovane bellissimo, meraviglioso, polacco francese americano, si chiamava David Korda, gli passava davanti facendo tintinnare le chiavi dell´auto, ma senza il coraggio di rivolgergli la parola: partono, ma a mezza strada decide che non ce la fa a stare senza. Tornano, l´amica passa da sola e dice che non la trova più, poi passa lei e David la chiama, la sera stanno insieme. Quando lui parte lo lascia andare per non far soffrire troppo Moravia, ma poi va a cercarlo, invano, in Svizzera.
Figli ne voleva avere, Moravia no, e quindi non con lui, e nemmeno con Bill Morrow. Un altro glielo chiese, e lei accettò. Il futuro padre era anche ricco e questo non nuoceva. Ma i medici le dicono che c´è il rischio che nasca infelice; se no, deve operarsi, ma non è garantito che l´operazione resti parziale. Allora rinuncia. Ma è una gran rinuncia. Per tutta la vita ha sofferto per un aborto, fatto a 19 anni. Lo disse al confessore, che poi era Tacchi Venturi, procurato dalla madrina di battesimo Gonzaga. Lui la minacciò, le disse «Sono cose che dovrei denunciare», per fortuna poi non lo fece.
Le città più belle, Firenze, Perugia soprattutto, percorsa a piedi, Venezia. Quando vide Venezia pensò: io da qui non me ne posso andare più. Aveva 100 lire e decise di giocarle, aveva in testa il numero 21, uscì sul serio, vinse 3.600 lire e restò a Venezia un mese.
(Un vecchio racconto di Elsa che era a Venezia, per il festival al Lido, e la sera era al tavolino di un bar con altri e si annoiava, ma per fortuna c´era un bambinello e lei si mise a giocare con lui, finché il piccolo crollò e si addormentò sulla sedia, e quando si svegliò e si guardò attorno incerto la vide, si illuminò e le disse: «Ti ricordi?»)
La cosa più importante è detta anche da Caproni, cuore fanciullo in corpo di vecchiezza. Non so dove metterlo questo corpo, come liberarmene. Chissà se posso usare questa cinghia per la fisioterapia per strozzarmi. Stavo per farlo quando sei arrivato. Questo corpo che non mi serve più a niente, che mi dà solo sofferenza - su questo potrei scrivere un romanzo. Ecco, vedi, avevo parlato tante volte di questo, ma tu mi hai fatto venire l´idea di scrivere il mio prossimo romanzo.
Yourcenar, non l´ho amata. Non sono andata avanti con le Memorie di Adriano. Mi dicono che le sue memorie sono migliori dei libri. Avevo un grande amico spagnolo, antifranchista, che la adorava. Ha fatto il Cristo per Pasolini. Coi soldi si comprò un enorme impianto stereo, poi partendo voleva regalarmelo, ma era troppo grande. Ho sempre temuto che lo abbiano ammazzato. (Enrique Izaroqui era vivo e lo è ancora). Saba. Era delizioso. Era anche un vecchio impossibile, un bugiardo. Mi lesse Ernesto dicendo che lo leggeva solo a me, io ero lusingata, ma non era vero niente. Quando si autorecluse in manicomio, e diceva che solo lì c´era gente perbene (quanto a me, credo che nemmeno lì) mi diceva: credono che io non sappia che le iniezioni che mi fanno non sono di morfina, ma di acqua fresca.
La Gonzaga aveva una grande villa qui vicino, che è stata venduta. (Maria Maraini Guerrieri Gonzaga. La villa, oggi sede dell´Accademia tedesca, in Largo di Villa Massimo). Aveva marito e figli, ed era lesbica, stava con una che aveva avuto una bambina, e lei fu la mia compagna di giochi. Imparai lì com´era la vita dei ricchi, che poi descrissi in Menzogna e sortilegio.
Le donne mi invidiano. Io non mi sono mai piaciuta. Mi piacevano i ragazzi, mi facevo bella, ma per loro, non per me. Non mi volevo bene.
Penso che Dio è la natura, e che alla natura appartiene l´uomo che ha espresso più mirabilmente questa divinità che è di tutto, Cristo. Penso che ora gli uomini hanno perso lo Spirito santo. Le dico: Chissà se si è estinto o si è nascosto. Il fatto che io e te ora ne parliamo, dice, potrebbe far sperare che si sia nascosto.
Avevo una donna tedesca che per non farsi insultare si faceva passare per ebrea.
Anna Magnani era fantastica, una grandissima attrice, ma non capiva niente dei testi. Le hanno fatto fare La lupa, e non Madre Coraggio (io comunque non amo Brecht) che le calzava. Voleva che scrivessi una cosa per lei, e l´avrei fatto volentieri, ma sapevo che poi non l´avrebbe recitato. Alla fine soffriva di aver perduto un po´ di popolarità, e voleva sempre andare in quegli orrendi bar di via Veneto, dove si viene fotografati, così smettemmo di passare insieme le sere.
Si può trattare un corpo vecchio, le dico accarezzandola, come un vecchio albero, che si accarezza. Lo diceva anche Leopardi, dice, ma io non voglio nessuna carezza (è contenta che la carezzi) io voglio morire, e andare dove sarà, al Purgatorio. Se non fosse stato per Lucia ci sarei già. Forse ho fatto un´esperienza della morte.
Einaudi è come un bambino, ha tante mogli, a me questo piace. Mi hanno raccontato una storia bella, che quest´estate a Ginostra passava sempre un rumore di zoccoli e un raglio d´asino, e una mattina che non era passato, Giulio è andato lui a ragliare al letto di sua figlia.
Sono sempre preoccupata per il polso di Randi perché penso che per lei tessere è come per me scrivere.
Adesso non posso leggere più niente, solo il Vangelo e la Divina Commedia. Sono volumetti piccoli. Il Vangelo me l´ha regalato Tonino Ricchezza, e mi ha chiesto: Ma qui è raccontata la vita di Cristo?
L´unico grande desiderio che ho è di riavere una gatta siamese.
"La Repubblica", MARTEDÌ, 25 GENNAIO 2011
Avverto che nelle righe che seguiranno, dedicate alla gara in corso fra l´evoluzione delle cose e delle parole per dirle, sarà ripetutamente impiegato il nome comune: culo.
L´appiglio immediato è un bell´articolo, e discutibilissimo, di Giuliano Ferrara sul Foglio, intitolato senz´altro "La libertà cortigiana, il culo di Montaigne e di Ostellino". Il cui antefatto immediato è in un articolo di Piero Ostellino sul Corriere che, col più anestetico titolo "L´immagine dell´Italia e la dignità delle istituzioni", difendeva il diritto di «una donna che sia consapevole di essere seduta sulla propria fortuna» a non essere chiamata prostituta. Ostellino stava citando, con una piccola correzione, perché secondo la sentenza originaria ogni donna sta seduta sulla propria fortuna e non lo sa. Il passo avanti starebbe dunque in questa conquistata consapevolezza, che permette di mettere a frutto il tesoro sul quale si sta sedute.
Ma prima di venire a questi ultimi (per ora) capitoli del dibattito, vorrei richiamare la nuova centralità che il culo si era andato guadagnando. Non che fosse mai stato trascurato, ma si ammetterà che a questo punto chi legga su un giornale la parola "c…", a parte l´ambivalenza, proverà solo un fastidio nei confronti dell´ipocrisia inutile di quei puntini. La parola, e il suo ininterrotto uso augurale, di andarci a fare, viene pronunciata dal palco dell´Ariston come dalle tribune politiche, e aspira anzi a fare da distintivo della liberata società civile. Non può farci impressione, dunque. Al contrario, almeno in un paio di occasioni topiche l´uso della parola ha preso una imprevedibile genialità. Per esempio, quando un signore, membro e anzi nominatore della categoria dei "furbetti del quartierino", deplorò un tipico modo di procedere come un "fare il frocio col culo degli altri". Si trattava a quanto pare di un detto popolare romanesco: non l´avevo mai sentito, pur avendo vissuto a Roma negli anni dell´adolescenza, quando (una volta, poi passava) si prova un gran gusto a dire le parolacce sessualmente spinte, dopo aver passato l´infanzia a dire le parolacce legate alle funzioni escretorie. (Nella transizione dall´una all´altra età la parte del corpo di cui parliamo conserva un posto d´onore). Violando ogni correttezza politica, l´espressione aveva però un´efficacia innegabile: era difficile non interrogarsi su quante persone di propria conoscenza si comportassero esattamente così - e magari su se stessi.
Il secondo impiego ingegnoso è appena arrivato - mi pare - dalla giovane Ruby. La quale, sapete, avvisata che Noemi era la pupilla del Presidente, avrebbe concluso: «Se lei è la pupilla, io sono il culo». Le versioni diverse della frase lasciano dei dubbi sull´intenzione della ragazza, ma preferisco immaginarne la lusinghiera, e che Ruby, come il postino di Neruda (absit), abbia fatto una metafora. Eccellente, perché la "pupilla" - la luce degli occhi di B. (e, tecnicamente, una bambola e una «minorenne affidata alla tutela») diventava una parte del corpo, da sottomettere, con un certo senso di superiorità e di vittoria, all´altra parte, quella sulla quale Ruby è consapevolmente seduta, come su una metafora. Ecco: Ostellino, che ha voluto sottrarre Ruby e le altre alla definizione di "prostitute", è stato tradito da quella piccola correzione sulla consapevolezza. La citazione originale dice che ogni donna è seduta sulla propria fortuna, e non lo sa; e implica che a saperlo sia l´uomo. Pensiero esemplarmente maschile, due volte, quando pensa lei (la parte per il tutto) e quando pensa sé. Anzi tre volte, perché dà per ovvio che la prostituzione (sempre femminile) sia ignobile. La dilatazione a dismisura, pratica e metaforica, della prostituzione nel nostro tempo - offerta che arranca dietro alla domanda, pensate al nostro caso presidenziale, dieci a uno, venti a uno, e Filippo II camminava solo la notte nei corridoi dell´Escurial - va assieme a una moltiplicazione di equivocità morali e sottocategorie sindacali, come in "escort", che hanno spazzato via di colpo decenni di lotte coraggiose di prostitute intenzionate a liberarsi di ruffiani, bigottismi e persecuzioni. La prostituzione nell´Italia di oggi è una prerogativa presidenziale, una conquista della famosa Costituzione materiale. La prostituzione - il "mestiere più antico del mondo", secondo un´altra inveterata dizione maschile, "Puttana Eva!" - è diventata, diciamo così, una vocazione berlusconiana. La storia dell´Italia contemporanea - e dei suoi rapporti internazionali, con la Libia di Gheddafi, con la Russia di Putin e il Kazakistan di Nazarbayev - si nutrirà delle memorie di Ruby e le altre, ben più che di documenti diplomatici.
L´articolo di Ostellino, che contava di difendere l´onorabilità delle ragazze di B. e la privacy di B. e di tutti, ha sollevato, com´era da aspettarsi, (se lo aspettava soprattutto lui) proteste diffuse, e anche una secca lettera di giornalisti del suo giornale, convinti che «sia inaccettabile pensare che "la fortuna" di una ragazza risieda in una o più parti anatomiche da offrire al potente di turno, e che il mondo sia pieno di persone che s´impegnano per raggiungere risultati e far carriera conservando la propria dignità». Ostellino allora è tornato sul tema, per dirsi frainteso, come quel Machiavelli che sfrondava gli allori, e argomentando sul darla e non darla e come darla, e concludendo di aver sostenuto il diritto delle donne a disporre del proprio corpo liberamente, senza venir chiamate puttane. Con ciò offendendo le puttane, che appunto dispongono del proprio corpo se riescono a farlo liberamente, e se vi sono costrette sono a maggior ragione da rispettare e difendere, e dilapidando il lessico, per il quale la prostituta - o la puttana, o la escort - è colei che vende il proprio corpo per denaro o beni equivalenti, dai ciondoli con le farfalle alle case in condominio. Per esempio, l´impeto che portò Monica L. e Clinton alla famosa impresa della Sala ovale non aveva a che fare con la prostituzione, salvo dilatarne il significato alla generica fascinazione di una donna per il potere, e di un potente per una stagista. Il seguito boccaccesco della faccenda, fino al vestitino con la macchia umana conservato in un freezer, raccontava la storia dell´uomo cacciatore e cacciato, non della prostituzione presidenziale, e tanto meno minorile.
E così siamo arrivati all´articolo di Giuliano Ferrara, che ha molti pregi, a partire da quello di dire vino al vino e culo al culo. Ma un difetto forte - a mio affettuoso parere: di annullare le differenze fra un esemplare e l´altro della categoria di uomini maschi. Le quali differenze non sono per lo più abbastanza forti da esonerare affatto noi maschi da una correità in maschilismo, ma lo sono abbastanza da non togliere a ciascuno il suo. E Ferrara fa un gran torto a Berlusconi riducendolo a un esemplare fra gli altri della umana e maschile debolezza della carne. Lo scrissi un´altra volta: Berlusconi è fatto come noi? No, molto di più. Ferrara cita Montaigne: «Per quanto alto sia il trono su cui ci si siede, si è sempre seduti sul proprio culo». Con un´inversione pregevole, il culo è qui dell´uomo, e del regnante. Ci stiamo seduti sopra - e siamo noi a non volerlo sapere, sembra dire Ferrara. E avvisa che «culo è parola filosofica somma, denotazione… dello stigma di umanità che tutti gli uomini e tutte le donne si portano appresso». È proprio così. È vero che "siamo uomini di mondo", e che, com´è addirittura proverbiale, l´avvocato Agnelli e l´editore Caracciolo siano stati spericolati womanizers. Però non sono stati capi del governo (molto di più e molto di meno).
Io non sono interessato alle descrizioni delle notti di B., Lele Mora, Emilio Fede ecc., ne sono respinto. Quanto ai reati, affare dei magistrati, e che Dio gliela mandi buona, agli uni e agli altri. Penso che un capo diurno del governo braccato dalle sue pendenze giudiziarie e abituato (addicted) a fare dei suoi giorni pubblici delle appendici sempre più esauste delle sue notti private, sia una incresciosa iattura per sé e per i suoi concittadini. La circostanza non mi sembra più, da tempo, solo indifendibile, ma indiscutibile. Sul rapporto fra trono e culo, mi sono ricordato di un colloquio che ebbi, quando ero una specie di leader politico, con un dirigente storico del Pci, uomo integerrimo e all´antica, il quale volle ammonirmi (forse aveva sentito di qualche mia dissolutezza) sulla differenza fra l´uomo e la scimmia. «La scimmia - disse - più in alto sale, più espone agli sguardi il culo». Ecco. Io adesso sto dalla parte delle scimmie. Gli uomini spinti troppo in alto, è ora che scendano.
"La Repubblica", MERCOLEDÌ, 19 GENNAIO 2011
Nonostante tutta questa fabbricazione escludente e intimidatoria, un certo numero di detenuti chiedono effettivamente di usufruirne. Ebbene, ecco, dopo il primo mese di attuazione (così "Radio carcere", che ha interpellato i magistrati competenti) il numero di detenuti effettivamente usciti in cinque regioni importanti: Lombardia: 12; Emilia Romagna: 2; Toscana: 15; Lazio: 30; e Campania: 34 (le due ultime cifre sono auspici, più che fatti). Totale: 93, su 32 mila 900 detenuti in quelle cinque regioni, alcune delle quali sono fra le più efficienti e "aperte". Nel carcere cagliaritano di Buoncammino, il direttore spiegava a Natale che grazie alla legge era uscito un (1) detenuto; altri tre no, due sardi e un tunisino, "perché non sapevano dove andare".
Questo è già abbastanza comico. Ma, si dirà, un mese è poco per valutare. Però di questo passo se i detenuti sono sotto l´anno e non si impiccano prima, usciranno liberi, "raggiunto il fine pena nelle more dell´istruttoria". È già chiaro comunque che le uscite saranno di gran lunga inferiori ai nuovi ingressi in carcere, il cui aumento ininterrotto non è dovuto a un incremento della criminalità (che, anzi, si riduce) ma alle leggi riempi-carcere, come la Fini-Giovanardi sulla droga, la Bossi-Fini sull´immigrazione clandestina, e il capolavoro, la (ex) Cirielli sulla recidiva, che ha fatto tabula rasa di ogni duttilità risocializzante del carcere, perché la gran maggioranza dei piccoli pesci che incappano nello strascico carcerario sono recidivi per definizione. (A parte gli statisti nelle interviste sull´infanzia, conoscete qualcuno che si sia fatto una volta sola?) La (ex) Cirielli, fiore di un delirio demagogico sulla "sicurezza", sbarra a tripla mandata i cancelli sui disgraziati che le altre leggi scaraventano in galera, escludendoli dalle pene alternative. Disperato, il ministero, che la votò, non sa come uscirne, e magari punto anche lui qualche volta - chissà, la notte di Natale - da un turbamento per i suicidi e le morti innaturali di due o trecento detenuti all´anno, ricorre alla pena a domicilio per l´ultimo anno, che rimette in gioco (il gioco dell´oca) i recidivi dei reati minori. Una piccola e derisoria toppa a un buco grosso come una voragine. Attenzione però: come avvertono gli assistenti sociali e i magistrati che aspettano le loro relazioni, la verifica dell´esistenza e l´idoneità (!) del domicilio carica gli assistenti di un lavoro in più a detrimento di quello, già soverchiante, che compete loro per le pratiche ordinarie. Col risultato paradossale di inceppare il disbrigo delle concessioni di pene alternative a detenuti che vi avrebbero titolo normale, indipendente da questa legge dal nome pittoresco di svuota-carceri.
Che cosa fare dunque, di fronte a una condizione carceraria "demenziale", "invivibile", "illegale", "una tortura"? Niente. Abrogare le proprie leggi tanto sbandierate, non si può, tutt´al più aggirarle con un piccolo sotterfugio. Di indulto non si può parlare più dal 2006, dopo aver danzato alla canzonetta dei criminali messi in libertà, così da aver paura di integrare l´indulto con l´amnistia, che non avrebbe liberato nessuno ma avrebbe sgomberato processi diventati superflui, che ancora si celebrano per dichiararli nulli. Le condizioni delle galere dovrebbero inquietare tutti i cittadini, anche quelli che immaginano, buon per loro, di non poterci finire mai. E dovrebbero almeno consigliare, anche ai cinici, di accorgersi quale partita politica vi si giochi. La fanatica campagna contro l´indulto segnò, che lo si ammetta o no, il primo e irrimediato colpo al governo Prodi e al centrosinistra, in una delle ricorrenti sepolture di quel fenomenale Berlusconi. Che ne fu dissepolto anche allora non da un proprio talento, ma da uno spettacolare autolesionismo - l´eterolesionismo del vicino di banco - del centrosinistra. La demagogia di allora si servì dell´allarme su Previti e altri mostri per sobillare gli spiriti forcaioli. Previti era già comodamente a casa sua, e ci aggiunse la Caritas. Gli stessi crociati di allora hanno appena inveito contro "l´indulto mascherato" o "l´insulto" della leggina dell´ultimo anno, la "svuotacarceri", di cui ho appena illustrato i connotati. Previti non c´entra, né Vallanzasca, né io, né l´ingegner Scaglia. C´entrano quei 70 mila, senza faccia, senza nome - se non nelle statistiche sui decessi - con la loro branda a castello e il loro fornelletto da sniffare e da farsi il caffé, prima che gli tolgano anche quello.
"La Repubblica", DOMENICA, 19 DICEMBRE 2010
Il governo annuncia un pugno più duro con le manifestazioni politiche, a cominciare dalle prossime degli studenti e degli universitari. Il governo non si risparmia.
Fa le veci del Parlamento. Fa le veci della magistratura, si impegna all´unisono, interni e giustizia, a spiegarle che i ragazzi fermati vanno tenuti in galera. Si profonde in avvertimenti sul ritorno del Sessantotto e degli anni di piombo. Dal´45 al Sessantotto erano passati 23 anni. Dal Sessantotto a oggi 42. I "ragazzi" di oggi, dai 41 anni in giù, sono nati dopo il Sessantotto, e dai 40 in giù dopo lo sbarco sulla luna. Che studenti ricercatori operai vadano sui tetti al governo sembra seccante, ma fino a un certo punto. Da lì possono solo scendere, o buttandosi di sotto, e non c´è problema, o dalle scale, e basta aspettarli e rimetterli al loro posto. Che dai tetti scendano nelle strade e le riempiano e tornino ad avere insieme obiettivi definiti e un´ispirazione generale, che ripudino una presunta riforma e non ne possano più di un´intera idea del senso della vita, questo il governo non può sopportarlo. Il governo ha tutto il potere, e lo venera come un sacramento, il Parlamento è un incidente sempre più superfluo, giustizia e stampa (non servili) cerimonie fastidiose, le polizie – quando non manifestano a loro volta contro il governo – un privato servizio d´ordine.
La cosa è culminata – per il momento – nell´invenzione del Viminale: l´estensione del Daspo alle manifestazioni politiche – cioè alla politica. Essendo le manifestazioni politiche appunto il modo di manifestarsi della politica, la proposta vale né più né meno all´esonero di polizia di un certo numero di cittadini – "ritenuti pericolosi" – dalla politica, e dunque, per completare il giro di parole e di fatti, dalla cittadinanza. Ascoltare la trovata e sorridere – o ridere francamente – è fin troppo facile. «Li vogliamo vedere, a decidere chi può partecipare a un corteo o a un comizio, e poi a impedirglielo». Ma il bello delle trovate reazionarie sta proprio lì: che vengano sparate nonostante la loro enormità, anzi, grazie alla loro assurdità. Gli anziani si ricorderanno le polemiche roventi sulle leggi d´eccezione e il fermo di polizia. Ma il fermo di polizia, anche il più arbitrario per durata e modalità, pretende almeno di far seguire l´arbitrio a un reato commesso. Qui il fermo ne precede la presunzione, vagheggia una legislazione dei sospetti. Alle manifestazioni politiche possono partecipare solo i buoni cittadini: i cattivi no. Chi sono i cattivi? Quelli che, se si permettesse loro di partecipare alle manifestazioni politiche, si comporterebbero male. Logico, magnifico. Vengo anch´io. No tu no. E perché? Perché no. Il Viminale non vuole. Per il nostro bene.
L´idea del Daspo politico è così genialmente ministeriale da lasciare ammirati e senza parole. All´inizio; poi le parole vengono, altro che se vengono. Una volta che vi siate informati su che cos´è (è il Divieto di Accedere alle manifestazioni SPOrtive, scritto così) perché non applicare il Daspo anche agli accessi alle Autostrade Italiane? Ho appena sentito dalle autorità preposte che la colpa di ieri è degli automobilisti sventati che sfidano la sorte senza attenersi alle raccomandazioni dei cartelloni stradali ("catene a bordo" eccetera: anche in treno?). Dunque Daspo ai caselli. Manifestanti o automobilisti, basterà dotare le polizie (e le forze armate, per la sinergia) di un elenco dei facinorosi, da compulsare al momento della loro discesa in strada. Del resto, diciamocelo: elenchi così ci sono già, pubblici e privati.
Per le incombenti manifestazioni studentesche basterà disporre di un primo catalogo approssimativo: due o tre milioni di nomi e cognomi. Del resto, avvenne già. Anzi, geniale com´è, l´idea ministeriale rischia di essere troppo modesta rispetto ai precedenti classici. Fascismo o "socialismo reale" non sapevano forse assicurare l´ordine pubblico e lo svolgimento ordinato delle libere manifestazioni, piuttosto che con la bruta repressione, con una accurata azione preventiva (di igiene, vorrei dire, ora che questa sintomatica parola – "la guerra, igiene del mondo" – è stata rimessa all´onore del mondo stesso)? Andando più per le spicce, quei regimi non si limitavano ad applicare un Daspo antemarcia ai sospetti dissidenti per le eventuali loro manifestazioni pubbliche, ma per le proprie. Alla vigilia delle quali gli oppositori, meticolosamente schedati senza bisogno di computer, quando non fossero già al sicuro in galera o al confino, venivano arrestati o consegnati agli arresti a domicilio. E la piazza delle manifestazioni di regime ne risultava sgombra dal rischio di incidenti: igiene, appunto, piazza pulita di rivoltosi, violenti e altri rifiuti organici.
Si applichi dunque il Daspo alle manifestazioni politiche, ma se ne escludano le manifestazioni di opposizione al governo – non occorre vietarle, basta abolirle – e lo si applichi rigorosamente a quelle del Pdl, della Lega e delle forze loro alleate e genuinamente fasciste, dai cui paraggi saranno allontanati i membri dell´Elenco Facinorosi, e concentrati per il tempo necessario alla sicurezza collettiva e all´ordinato esercizio del diritto di manifestazione – 36 ore minimo – fra Incisa Valdarno e Firenze Sud. A bordo. In catene.
"La Repubblica", MERCOLEDÌ, 08 DICEMBRE 2010
Ho conosciuto poche persone dal pensiero indipendente e dal carattere tenace come Elvira. La migliore riuscita di un´impresa comune, com´è per eccellenza una casa editrice, non è legata all´ambizione di ben figurare, ma all´ambizione di far figurare al meglio gli altri. Elvira era così sicura di sé che l´invidia non la sfiorava. Ci sono editori cui la grandezza dei propri autori fa ombra, e allenatori infastiditi dalla bravura dei loro campioni. Elvira desiderava che ciascuno dei suoi ospiti desse il meglio di sé e ne fosse ripagato. Ho detto ospiti, perché era una meravigliosa padrona di casa. Sicché con lei il fatto che il luogo in cui si scelgono e si pubblicano libri si chiami distrattamente casa, casa editrice, riprendeva un significato originario. Si stava come in una farmacia di paese, diceva Sciascia, e intendeva che nei paesi di una volta si stava in farmacia a conversare - gli uomini, almeno - come a casa propria. Elvira aveva due case, dai due lati della via Siracusa, e, salvo un cambio d´abito, era in ambedue la Signora. (Pronunciato così che si sentisse la maiuscola, non per deferenza, ma per evidenza).
Mi scrisse, una decina di anni fa: «Forse vado a Ragusa, spero di comprare una specie di fattoria vicino al mare dove penso di concludere la mia vita. E´ un bel sogno». Era uscita da tempo dalla tempesta che aveva messo a repentaglio la sopravvivenza della casa editrice. Era durata a lungo, la tempesta. Andrea Camilleri, che è persona di spirito magnifico, ha raccontato di essere arrivato al soccorso in extremis come il VII Cavalleggeri. Però nella ridotta di fort Alamo in cui era assediata dalle banche e dai rivali, e il cielo sul suo capo era nero di avvoltoi, Elvira aveva resistito per un tempo eroico, anche quando quella resistenza appariva come il capriccio patetico di una signora spaesata a questo mondo. Elvira fumava, leggeva come ogni giorno i suoi manoscritti, si strapazzava, fino all´ora dell´ennesimo appuntamento con un direttore di banca dal quale presentarsi impeccabile e distaccata, a prendersi la dilazione di cui aveva bisogno per contare su un´altra dilazione. Scherzavamo sulla graziosa richiesta della gran dama francese: «Ancora un minuto, signor boia».
I minuti durarono anni, e a quel punto il VII Cavalleggeri doveva pur arrivare. Dunque, era il 2002 più o meno, mi scrisse: «Ho comprato la casa in campagna, a Marina di Ragusa, vicino a quella di mia sorella. Occuparmi di renderla abitabile è ora l´unica cosa che mi piace e mi interessa –domani andrò perché piantano gli alberi, ulivi e carrubi». Mi accluse una fotografia, con un vasto spiazzo brullo e petroso: «Questo è il posto dove pianterò gli alberi». Mi piacerebbe mostrarvi quel bosco di ulivi e carrubi com´è ora, come aver ricevuto un biglietto che dicesse: «Vorrei fondare una casa editrice…», e scorrere a distanza di quarant´anni il catalogo della Memoria, fino a Il sorriso di Angelica, numero 833.
C´è un´espressione per me legata a mia madre, "essere in pensiero". Ecco: Elvira era in pensiero, in un modo che mi colpiva. Nei due sensi; che era inquieta e trepidante, e che era piena di pensieri. Non è così ovvio: ospitiamo per lo più i nostri pensieri in modo saltuario, volubile. Elvira sembrava distrarsi in infinite piccole incombenze – «innaffio le piante, cerco un telegiornale, prendo un libro, aspetto di addormentarmi…». E intanto, diceva, "rimugino". Mi dava l´impressione di voler sempre tenere assieme tutto quello che era stato e quello che avrebbe potuto venire. Non so come fosse quando era molto giovane. So com´era bella, perché lo mostrano i ritratti e perché era bellissima quando la conobbi. Presto decise di non piacersi, di ripudiare la ruggine, diceva, attraverso cui i suoi pensieri si districavano ora prima di prendere forma. Era di maggio, e in un mese di maggio - «che quando ero giovane mi piaceva definire meraviglioso» - si augurò di entrare finalmente in una vecchiaia calma, «senza più quei fastidiosi sobbalzi di giovinezza».
Faceva ora come se la sua vita si fosse fermata a guardare con trepidazione e dedizione le vite degli altri che cambiavano così tumultuosamente. C´era sempre stato qualcosa di intrepido nel suo affetto protettivo per le sorelle e i fratelli che la morte precoce di un´amatissima madre le aveva affidato, per i suoi figli diventati grandi quasi all´improvviso, così da sembrarle vulnerabili e delicati, e poi si diceva che forse bisognava solo guardarli andare nel mondo grande. L´apprensione per loro e per i nipoti e i loro compagni e amici era forse più semplicemente, si diceva, la sua paura: «La paura di una persona un po´ stanca, un po´ vecchia, un po´ pazza, quella paura di essere felici di cui abbiamo tanto parlato». La paura d´essere felici cede infatti alla paura che gli altri siano infelici. Lei si era come ritratta dal presente, dal suo presente, e se ne stava fra un affetto per il passato, sua madre e i ritratti di signora di un tempo venuto prima delle guerre, e la sensazione di un mondo minacciato per i suoi figli e i loro amori e, finalmente, per il piccolo Lorenzo arrivato a comandare sui suoi sortilegi.
Le era successo di essere la prima di sei fratelli. «Mi disperavo - raccontava - ogni volta che mia madre era incinta. La mattina presto una zia usciva per andare al mercato meno caro, mia madre invece usciva a mezzogiorno e faceva la spesa all´angolo. Rincasavano insieme e c´era il rito del caffè e della sigaretta, e quando si appartavano a chiacchierare furtivamente io mi disperavo: "Ci siamo, un altro fratello". Ogni volta mi vedevo decurtare la mia quota nel monte di amore di mia madre. La verità è che da lei mi sento sempre protetta, anche ora. Solo che dovevo essere grande. Anche mio padre mi diceva: Devo educare bene te, che servirai di esempio agli altri. Una delle ultime volte, era molto vecchio e ogni tanto faceva confusione, e mi aveva scambiato per mia madre, poi mi ha detto: "Ma se tu sei mia figlia e sei così vecchia, io come sono?"».
Negli anni del Consiglio di amministrazione della Rai Elvira era l´unica donna, ma lei preferì dirlo in un altro modo: ero l´unica non professore. Si adoperò per promuovere il talento delle persone e specialmente delle donne che lavoravano in Rai, non ne trasse nessun beneficio per sé. Prima ancora che immorale, le sarebbe sembrato di cattivo gusto.
Di quella impressione sul suo mettersi da un lato rispetto al presente faceva parte l´impiego del tempo. Aveva un´esistenza indaffarata nelle più diverse incombenze, e tuttavia spendeva ore in attività del genere "fare la calza". Non faceva la calza, ma riempiva puzzle di migliaia di pezzi. Faceva le parole incrociate, senza impazienza, e quando telefonava a mille chilometri di distanza per chiedere un suggerimento lo faceva più per amicizia che per smania di finire. Curava il giardino, e più esattamente lo visitava meticolosamente. Riordinava lettere, fotografie, cartoline, biglietti. Catalogava, a penna, i libri che erano stati della sua infanzia e giovinezza e che ricercava scrupolosamente, la collezione della Scala d´Oro o i Classici del ridere di quel gran Formiggini un cui motto - «Non copiare nessuno, ridi se ti copiano» - si addice assai alle copertine blu carta da zucchero della Memoria. Voglio dire che si prendeva, dentro il tempo travolgente del suo lavoro, un tempo lento gratuito e solitario.
Stava molto sola, Elvira, con quei pensieri che delle attività senza capo né coda si nutrono, e con la lettura. Leggeva per piacere, anche i manoscritti di cui decideva fidando nel proprio gusto, e i grandi libri che affrontano gli adolescenti e le donne di casa, I tre moschettieri e le memorie settecentesche e I misteri di Parigi e tutto Simenon. Questo tempo lento e come estratto dalla fretta dei giorni era la sua terra di nessuno fra passato e futuro, la sua presa di distanza dal presente esteriore. Una volta aveva detto che invecchiare pesa, perché vuol dire non sapere come andrà a finire. Più tardi disse che forse nemmeno questo era più vero, che forse era già andata a finire.
Non ho menzionato il nome: Sicilia. Non ce n´era bisogno. Elvira era in pensiero per i suoi ma anche per il mondo, e voleva, senza farsi illudere da ambizioni politiche, salvarne qualche pezzo, del mondo, il più prossimo a lei, persone e carrubi e rose, e anche quello più lontano dei libri e della bellezza, e degli oggetti ereditati e messi in salvo per un giorno altrui. In quella casa di Contrada Gaddimeli dalla quale si vede il mare e, in certe ore di vento e di luce, il lago ondulato della plastica che copre le serre, dove Elvira aveva confidato di morire, al tramonto di ogni giorno sedeva a lungo sulla grande terrazza a fumare e guardare, sola, in pensiero. Pensava a come era stato il mondo prima di lei, e quando lei era bambina e sua madre era viva. E a come sarebbe stato dopo di lei, il mondo di Lorenzo e dei figli di Lorenzo. Le palme insidiate dal punteruolo rosso, i ritratti di signora ottocenteschi. Stava sulla terrazza, ad aspettare il buio, in pensiero.
Mancava qualcosa, alla riforma della scuola, e ora ci siamo: fuori Lucio Anneo Seneca, dentro Paola Binetti. Ieri ha parlato in Senato di Mario Monicelli come di un uomo disperato. Ha accusato: l´hanno lasciato solo, famiglia e amici. "Il suo è un gesto tremendo di solitudine non di libertà", ha detto. Esistono persone invasate che credono di sapere di che cosa vivano e muoiano gli altri, e giudicano. Ieri in Italia si è litigato e urlato attorno alla morte di un uomo illustre, di 95 anni, malato e lucido. Io non so quali siano stati i pensieri ultimi di Monicelli. Se provo a immaginarlo, esercizio che si fa solo per se stessi, per l´ora della nostra morte, mi figuro che certo non si sia sentito solo e abbandonato, ma che abbia aspettato di essere solo per amore e compassione degli altri.
Il presidente di questa repubblica, salutando il suo antico amico, ha chiesto rispetto per il suo commiato, ha detto: "Se n´è andato con una ultima manifestazione della sua forte personalità, un estremo scatto di volontà che bisogna rispettare". Rispetto, è una parola delicata. La si impiega sempre più spesso come una formula di convenienza: "Con tutto il rispetto…". Il rispetto vero ha bisogno di simpatia. O vorremo costruire la nostra piccola barricata quotidiana anche attorno a questa serata, pro-life e innamorati della morte? Monicelli si è suicidato: non amava la vita? La vita era stata presso di lui per un tempo eccezionalmente lungo, ora la morte gli era addosso.
Sbaglia chi crede di rendere omaggio alla tempra di Monicelli giudicando il suo modo di andarsene come un´ennesima sfida, una provocazione, uno sberleffo e così via. Sfide, sberleffi: chi muore ha altro da fare. All´opposto, si arriva alla vergogna di chiamare questa morte, e l´onore affettuoso che le viene reso, come "uno spot per l´eutanasia". Eutanasia è la parola magica alla rovescia dei nostri giorni. La si spende senza risparmio, abusando del senso e del buon senso. Il buon senso del resto ha indotto tanta gente comune, commossa della morte di un uomo cui era grata, a chiedersi a bassa voce: "Come mai non aveva una pillola?" Non è facile, "avere una pillola", tanto meno se non si amino i sotterfugi. Ma è davvero tanto imprudente e impudente farsi una domanda così? Mi risponda francamente, eminenza, lei che si arrovella su questi temi. Se un signore così vecchio, così lucido e risoluto, così malato, così paziente e premuroso da aspettare di restare solo, avesse potuto scegliere fra una finestra e un farmaco, sarebbe stato male? E non mi dica, eminenza, che si sarebbe sempre potuto parlare con lui, spiegargli com´è prezioso ogni minuto, ripetergli che la nostra vita non ci appartiene perché è un dono di Dio e Dio ne è geloso, e così via. Ci sono sere e uomini che ne hanno abbastanza delle chiacchiere.
Torniamo al punto da cui siamo partiti. Il senato romano ebbe fra i suoi membri Lucio Anneo Seneca. Ha Paola Binetti.
Piccola Posta
Articolo di Adriano Sofri pubblicato su Il Foglio, il 23/11/10
Sono sempre impressionato, molto favorevolmente, dalle cose che scrive e dice Nicola Gratteri, e dalla faccia con cui le dice. Così di nuovo domenica sera nel programma di Piroso su La7, in cui alcune cose che diceva suonavano come un'avvertenza all'ascolto della comparsa di Maroni nel programma di Saviano, che avremo guardato nel frattempo.
La burocrazia del boia
Articolo di Adriano Sofri pubblicato su la Repubblica, il 27/10/10
Guardavo, e pensavo che si dovrebbero mandare i corrispondenti di guerra a far la telecronaca di certi incontri di calcio, mentre gli spaesati cronisti sportivi spiegavano, santa innocenza, che le tre dita levate da Stankovic e compagni verso il pubblico significavano: Tre a zero. Guardavo quel bruto ributtante che nascondeva la faccia e ostentava i tatuaggi, e mi auguravo che tutti stessero guardandolo. Faceva prudere le mani e digrignare i denti, e di questo non c´era da rallegrarsi. Ma stava anche tenendo una lezione sulle guerre nella ex Jugoslavia più efficace di cento libri. Il bruto che si guadagnava i galloni a cavalcioni della balaustra, ha ottenuto per ora di essere estratto da un ripostiglio di autobus, spogliato della maglietta col teschio in campo nero, ed esposto alle telecamere con una faccia inebetita fra spavalderia e vigliaccheria.
Si rassicurerà chi veda nella violenza degli ultrà serbi un connotato nazionale, anzi etnico, come si preferisce dire (e si diceva della guerra mossa ai musulmani di Bosnia, come se si trattasse di un´altra "etnia", e non di uno stesso popolo con un´altra religione). La responsabilità collettiva è stata il fardello della Germania, così pesante da permettere ad altri paesi di occultare o attenuare il proprio. La Serbia vanta il retaggio della resistenza antinazista e, prima, di un irredentismo "mazziniano". E sconta una soggezione lugubremente fiera al proprio passato, a quel "Campo dei Merli" in cui Slobodan Milosevic inaugurò la sua avventura nazionalcomunista andando a disseppellire scheletri di seicento anni prima. Marko Vesovic scrisse, nella Sarajevo assediata, ricalcando Paul Celan, che "la morte è un capomastro serbo". Vittimismo e nazionalismo, che vanno bene insieme, strinsero in Serbia un patto micidiale. Il tradimento altrui e il sacrificio proprio aleggiano su ogni sconfitta, dalla battaglia di Kosovo Polje nel 1389 alla partita con l´Estonia e il povero portiere Stojkovic della settimana scorsa. L´anima serba è ancora ferita dai bombardamenti della Nato del 1999, pessimo modo di attuare un intervento necessario: ma nelle incomparabili violenze e distruzioni tra il 1991 e il 1995, non un metro di territorio serbo venne toccato. E le imprese infami dei serbo-bosniaci di Karadzic e Mladic erano guidate e applaudite da Belgrado. Sono stati appena pubblicati stralci delle 4 mila pagine dei diari in cui Mladic - tuttora latitante - annotava con una incredibile tranquillità i crimini perpetrati agli ordini di Milosevic, e le complicità e le viltà degli Stati europei. Del resto si sono premiati con la metà della Bosnia Erzegovina i serbobosniaci del boss Dodik - compresa Srebrenica - i quali irridono l´idea della convivenza, e a Srebrenica vanno a commemorare i loro martiri...
All´Aja non si processa una colpa collettiva, ma persone e reati. Nella società serba, dopo Milosevic, una discussione c´è stata, e voci di un´"altra Serbia" hanno preteso un esame di coscienza collettivo. La colpa collettiva è difficile da imputare agli altri, ma non può essere elusa per se stessi. Al suo centro sta il consenso larghissimo accordato al regime criminale, e poi la negazione o la reticenza sui crimini di guerra e la corresponsabilità.
Le autorità di Belgrado hanno fatto dei passi. Hanno ancora piedi di piombo. Ieri hanno detto che si vergognano dei fatti di Marassi, e che si è trattato di un colpo deliberato al cuore della loro politica. E´ vero. Del resto i partiti dei criminali chiusi all´Aja - come quel Seselj che compare in aula per dire "Puttana" a una giudice, e per dire all´intera giuria che glielo può succhiare - hanno ancora tantissimi voti. Quanto alle tifoserie, mentre qui da noi ci si gingilla ancora con l´illusione che le violenze negli stadi servano a far sfogare l´aggressività della gente, là sanno che dalla guerra del calcio alla guerra civile c´è solo una questione di tempo, e di occasioni propizie.
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Piccola posta
Articolo di Adriano Sofri pubblicato su Il Foglio, il 13/10/10
Cagliari, 11 ottobre, ore 14.30. Un centinaio di immigrati in rivolta si impadronisce del Centro di prima accoglienza, ubicato nell´area militare dell´aeroporto. Ore 14.45, una decina di ribelli fugge scavalcando le reti di cinta di 4 metri. Alcuni si feriscono. Ore 14.50, quattro fuggiaschi vengono avvistati sulla pista dell´aeroporto. Ore 14.55, l´Enac avverte della chiusura dello scalo fino alle 22.
Dunque bisogna decidere come commentare. Deplorare i rivoltosi che, approdati indebitamente alle nostre coste (possono però essere candidati meritevoli all´asilo), hanno anche danneggiato suppellettili e passato le linee, non mancherà certo chi lo faccia. E i passeggeri danneggiati senza colpa vanno certo capiti, benché la ventina fra loro che ha aggredito quattro cittadini italiani innalzatori di striscione ("Libertà ai migranti liberi tutti") si sia mostrata troppo nervosa.
Però proviamo a vedere le cose, se non dall´infimo punto di vista degli stranieri ribelli, dannatissimi della terra, almeno da quello del cronista futuro, ammesso che ci sia un futuro e un cronista di microstorie simili. Chissà che giudizio si farà il futuro di ideali che già infiammarono gli animi di altre generazioni, e poi andarono fuori corso, come quello che ribellarsi è giusto. Si chiederà, il cronista a venire, che cosa abbia spinto un manipolo di disgraziati a ribellarsi in una così enorme sproporzione di forze. Se non si accontenterà di spiegazioni temerarie ("Sono bestie. E´ puro vandalismo"), dovrà misurarsi di nuovo con il rovello che da sempre il carro trionfale della storia si trascina dietro nella polvere, legato a una fune: che cosa spinge gli umani alla rivolta senza speranza?
Molte risposte si sono tentate. La più celebre, e anche la più comune, dice che non hanno niente da perdere. Solo le loro catene, dunque ribellarsi conviene. Ma abbiamo imparato che non è vero. Che c´è sempre qualcosa da perdere, che costa sempre caro ribellarsi. Un´altra risposta chiama in causa l´amore per la libertà. Dev´essere vera. Se no non si spiegherebbe come mai degli esseri umani trovino la forza di ribellarsi anche nella più schiacciata delle condizioni. Anche sulla rampa di un lager. Gli schiavi di Spartaco, extracomunitari rastrellati un po´ dappertutto per venire a fare i lavori che i romani non volevano più fare e i giochi da stadio che i romani non sapevano più fare, ne diedero un esempio splendente. I posteri poi spiegarono che non avrebbero comunque potuto vincere, che i rapporti di produzione non erano abbastanza maturi da autorizzare il passaggio a un mercato libero o, chissà, al socialismo: ma per fortuna donne e uomini non si ribellano solo quando i rapporti di produzione lo autorizzino, e quando i rapporti di forza mostrino plausibile la vittoria. Su! I 102 "ospiti" del Cpa di Cagliari non sono certo gli schiavi di Spartaco, riderete voi: naturalmente. Cioè, sì e no. Non proverò a sviluppare il confronto, per non renderlo ridicolo. Mi basta averne insinuato l´eventualità, e ora ciascuno lo segua fra sé e sé.
Comunque sia, anche se si voglia ferreamente tenere la rivolta di Cagliari alla sua misura minuscola e aneddotica, si pensi almeno al rapporto che lega qualunque creatura reclusa, umani o altri animali, al cielo. Quando ogni altra dimensione è sbarrata, lo sguardo cerca il cielo e lo invidia e lo prega. Affida la propria nostalgia a un volo di uccelli o a una nuvola di passo o una scia di reattore. È per questo che i prigionieri si arrampicano sui tetti, e ora anche tanti che non sono prigionieri. Il cielo e la libertà fanno tutt´uno. Consigli agli imprenditori edili e alle autorità competenti che assegnano loro l´appalto per la costruzione dei Cpa, dei Cia e delle altre galere novissime: non li collocate dentro un aeroporto. È come mettere un gorilla ai piedi dell´Empire State Building.
Comunque, non c´è problema. Questa volta è andata. Materassi bruciati, dieci arrestati. La rivolta appena cominciata è già finita. Il cielo non è più con noi.
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Stavo facendo andare avanti e indietro il film della sfilata del primo ministro cinese Wen Jiabao e del primo ministro italiano Silvio Berlusconi davanti al picchetto d´onore nel cortile di Palazzo Chigi. Avevo la sensazione che guardandoli e riguardandoli avrei penetrato il mistero della storia e della geografia contemporanea. Berlusconi fa gli onori di casa, vuole apparire disinvolto, è tradito da un fisico inquartato e da un doppio petto tuttora inspiegato.
Ma ecco che il diavolo delle coincidenze ci mette un primo zampino. L´inchiostro con cui sono stati firmati affari per 100 miliardi in cinque anni - ehilà, una somma visibile a occhio nudo dalla luna - è ancora fresco, quando una pioggia micidiale (pur sempre una pioggia, tuttavia) inonda un sottopassaggio di Prato e annega tre signore che vanno a lavorare da operaie alle tre e mezza di notte. Di prima mattina, prima ancora di combattere con gli interrogativi sulle idrovore che non hanno funzionato o sul mancato allarme o sui soccorsi assenti - chissà se si sarebbe potuto fare meglio, ma peggio no - il sindaco di Prato, eletto sulla scia dell´esasperazione contro la Chinatown in tempo di crisi, si affretta a proclamare che non ci sarà lutto cittadino. Non è razzismo, si è detto: probabile, e poi il razzismo oggi non si lascia mettere il sale sulla coda, con tanti grossi topi e gatti smilzi in giro. Non è razzismo, è un riflesso condizionato, erano tre signore cinesi. Se fossero state italiane, il problema non si sarebbe posto. O non si sarebbe chiesto il lutto cittadino, o non lo si sarebbe negato. Poi il comune ci ha messo una toppa, bandiera a mezz´asta, minuto di raccoglimento: però il lapsus era scappato. A essere cattivi, si potrebbe ricalcare il Mark Twain dell´incendio sul Mississippi: c´è stato un nubifragio, ma grazie al cielo senza danni alle persone, solo alcune auto distrutte, e tre cinesi morte. Prato non è lontana da Roma, Wen Jiabao deve averne sentito qualcosa, e provato un prurito alle unghie. Intendiamoci, il problema è grosso. Andate a visitare il carcere di Prato, e vedere quanti detenuti cinesi ci sono, e in che rapporti stanno col resto del mondo.
Bene, ma lo zampino del diavolo è molto più ambizioso del piacere di pestare la coda alla festa romana delle pacche sulle spalle. Nella quale Berlusconi ha voluto finalmente elucidare il segreto della politica della Repubblica Popolare cinese, un quinto della popolazione mondiale, e del suo glorioso Partito Comunista, come un paragrafo della strategia del Popolo delle Libertà: «I governanti cinesi, come noi, sono fautori della politica del fare e preferiscono affrontare e risolvere i problemi piuttosto che irrigidirsi su questioni di principio». Poi, si è rallegrato dell´imminente sorpasso della Cina sugli Stati Uniti: l´Occidente è in rosso. Poi si è preparato ad andare a festeggiare il compleanno di Putin, un altro che sa essere elastico sui princìpi. Avrà anche fatto una telefonata d´affezione a Gheddafi. Ormai nella politologia di Berlusconi tutti i conti tornano. A Roma, in teatro, ha interpellato per errore i cinesi così: «Signori membri della delegazione residenziale russa». La lunga marcia di Berlusconi alla volta del Kazakistan interiore è ormai compiuta.
E lo zampino del diavolo? Si è infilato nel Comitato norvegese del Nobel per la pace, l´unico che Alfred Nobel abbia riservato alla sua patria. E´ una delle nicchie ancora renitenti alla strategia berlusconiana. Così il detenuto Liu Xiaobo, uno che si è irrigidito insopportabilmente su questioni di principio, ha avuto il premio. E Berlusconi ha immediatamente convocato a Pechino l´ambasciatore di Oslo per spiegazioni. No, non Berlusconi, il governo cinese. Il quale ha chiesto quanto può venire a costare la Norvegia. O forse l´ha chiesto Berlusconi.
CHI tenga il conto degli uomini che ammazzano le donne annovererà l'uxoricidio di Novi (Modena) in questa categoria, alla data del 3 ottobre.
Alla data del 4, appena un giorno dopo e a qualche chilometro da lì, nel Piacentino, un uomo ha ridotto in fin di vita la sua convivente, trafiggendole la schiena con un forcone. Per questa voce, "Uomini che uccidono le donne", i dettagli sono secondari. ANovi l'uomo, 53 anni, che ha ucciso a colpi di mattone la moglie, Begm Shaneez, 46 anni, era, come lei, pachistano, e pachistano il figlio maschio, 19, che ha ridotto in coma a sprangate sua sorella, Nosheed, 20 anni. A Castelsangiovanni, sono italiani, piacentini ambedue, lui 60 anni, e lei 41. Sarà diverso il registro di chi invece tenga nota dei pachistani che ammazzano le donne o, rispettivamente, dei musulmani che ammazzano le donne. Gli uni avranno annotato in particolare l'assassinio di Hina, 20 anni, sgozzata nel 2006 dal padre a Sarezzo, Brescia, gli altri quello di Sanaa, 18 anni, sgozzata nel 2009 dal padre fin quasi a decapitarla, a Pordenone.
Sono i casi più famosi in elenchi fitti. Ogni volta si ripeterà doverosamente che le generalizzazioni sono arbitrarie e disastrose. "I musulmani ammazzano le donne", o "i pachistani ammazzano le donne" - o, del resto, "i cristiani ammazzano le donne". Tuttavia, senza una misura convenzionale di generalizzazione, non sapremmo né ragionare né comunicare. Così, quando diciamo che "gli uomini ammazzano le donne", sappiamo naturalmente che non tutti gli uomini ammazzano le donne, ma intendiamo che parecchi uomini, e senz'altro troppi, ammazzano donne. In Italia, per esempio, l'anno scorso sono state assassinate (almeno, i dati non sono completi) 119 donne, 147 nel 2008, 181 nel 2006, più di 600 tra il 2006 e oggi. Se dicessimo che "le donne uccidono gli uomini" la generalizzazione sarebbe molto più infondata, dal momento che le donne che uccidono uomini sono una minima percentuale degli omicidi fra persone di sesso differente.
Quella arbitraria dichiarazione - gli uomini uccidono le donne - allude anche, per eccesso, a un'altra verità: che gli uomini, anche quelli che si astengono con orrore dall'ammazzare e violentare e picchiare donne, se non sono ipocriti con se stessi e sono disposti a frugare nella propria formazione, sentono di avere a che fare con l'impulso che spinge i loro simili a quell'orrore. Se ne tengono a distanza dandogli nomi di sicurezza come "raptus" e follie. Sono tentato di dire che gli assassinii di donne stanno al maschilismo come gli attentati contro gli ebrei stanno all'antisemitismo. Il succo della "Sonata a Kreutzer" è questo: che, secondo Tolstoj, chiunque può ammazzare la propria moglie. Lui non lo fece, però lo scrisse. Le uccisioni di donne, anche quando sono privati, anche quando sono l'opera di uomini miti - "tranquilli", diranno i vicini - e da un assassinio solo, sono efferati. A Novi di Modena, una ferocia infame si è compiuta così: due uomini, un padre e un figlio, si sono accaniti su due donne, moglie e sorella, ripetendo e però rovesciando il modo dell'agguato a Hina. Lì, la violenza del padre e dei suoi parenti maschi complici si era procurata poi il consenso, chissà quanto forzato e rassegnato, della madre di Hina. Qui, la madre di Nosheed ha dato la vita per proteggerla. Ha fatto bene il ministro Carfagna a parlare di "deliri patriarcali". Fanno bene quelli che ricordano che il delitto d'onore è uscito dal nostro codice nel 1981 appena ieri (e dalle nostre teste, chissà) e che appunto gli uomini ammazzano le donne, e di preferenza le "loro" donne - mogli, fidanzate, amanti, come nella singolare espressione che estende la proprietà - "la mia donna" - oltre la data di scadenza - "la mia ex-donna". "Uccide la sua ex-fidanzata".
(Ahimé, anche il comandamento, "la donna d'altri"). E se no le prostitute, che non sono di nessuno, dunque di tutti, dunque "mie". Quanto al modo in cui il cristianesimo ha innovato nella condizione della donna (e dei bambini, soprattutto introducendo una tenerezza e più tardi un amore cavalleresco) e insieme ha accolto e perpetuato una soggezione patriarcale, e non di rado una veemente misoginia, è un fatto che oggi è più difficile adattare una cultura cristiana alla brutalità contro le donne. La quale troppo spesso si compie, ma contro la sua ispirazione. Ne abbiamo appena riparlato a proposito della più tradizionale delle pratiche contro le donne: le mutilazioni genitali - o d'altra parte dell'abbigliamento teso a occultare la vista della donna (che sia vista,e che veda, anche). Per questi usi il relativismo per conto terzi richiama la complicità di nonne e madri infibulate e autrici a loro volta dell'infibulazione delle loro bambine, come se ne risultasse una loro responsabilità libera, e non la più trista prova del dominio patriarcale. Cui meravigliosamente si ribellano tante donne (le bambine, si erano sempre ribellate, e tenute ferme a forza come in una tortura), com'è successo l'altro ieri nel giardino mattatoio di Novi. Queste pratiche, tradizionali e patriarcali, e sconfessate (non sempre, del resto) dalle autorità di tutte le religioni, sono state però incorporate e fissate, e a volte inasprite, in molti paesi dalla tradizione islamica. Lo conferma proprio l'argomento invocato per smentirlo: cioè che costumi e prescrizioni misogine non appartengano al Corano, ma risalgano a prima dell'Islam. Esso è diventato il pretesto per una «riconquista» delle donne alla modernità: nella «rivoluzione» khomeinista che ha ricondotto in cattività le donne iraniane, o in quella taliban che la sta perseguendo. Ho letto la sterminata trilogia di Stieg Larsson diffidando, e ricredendomi. A cominciare dal titolo, "Uomini che odiano le donne", dunque le uccidono. A stare alle motivazioni che un gran numero di loro fornisce a se stesso e al pubblico, si potrebbe dire anche "Uomini che amano le donne", dunque le uccidono. (I francesi, campioni di eufemismo, hanno tradotto: "Uomini che non amano le donne"!). Larsson è stato un campione dell'impegno contro il razzismo e il fascismo nella sua Svezia.I suoi romanzi hanno finito per offrire la miglior chiave di interpretazione del recente voto svedese, segnato dal successo del partito xenofobo e nazisteggiante.
Se la libertà è misurata prima di tutto dalla libertà delle donne - la Scandinavia ne fu un esempio precoce e proverbiale, fino allo scherzo - l'immigrazione che trascina con sé il peso di una tradizione patriarcale e sperimenta nella nuova condizione lo scontro fra i suoi maschi e le sue donne, eccita lo spettro dell'aggressione e della rivalsa sulle donne libere. Due modi distanti e perfino opposti di "odiare le donne" rischiano di congiurare contro la loro libertà - e incolumità. La nuova demografia di Malmoe coincide strettamente con la sua nuova mappa elettorale. L'alternativa starebbe, all'opposto, nella congiura di donne libere e donne immigrate, cui leggi, istituzioni e forza pubblica dovrebbero mettersi al servizio.
Pochi giorni fa, il 23 settembre, a Scandolara (Cremona) una donna indiana di 25 anni, Rupika, si è cosparsa di benzinaa casa suae siè data fuoco ed è morta. Aveva perso il lavoro, in un ristorante, e aveva paura, scaduto il permesso di soggiorno, di essere rimpatriata. Ho letto che in India l'aspettava un matrimonio combinato. Chissà. Non si può far a meno di pensare a una ragazza che si è data fuoco qui, dove si sentiva libera, per non tornare nel proprio paese, dove una solenne tradizione vuole bruciare vive le vedove sul rogo dei mariti morti.
Quelle donne mutilate scandalo per la civiltà.
Articolo di Adriano Sofri pubblicato su la Repubblica, il 28/09/10
Tutto alla rovescia. L´Italia è sfatta, basta finir di disfare gli italiani. Si intitolarono piazze, anche la più bella, a Trieste, all´Unità d´Italia. Sembrerà almeno un po´ buffo correggere in "Piazza Divisione d´Italia". Ma qualcosa bisognerà inventare, perché nel riavvolgere il Risorgimento all´indietro siamo andati lontano.
Mario Martone ha fatto un film ambizioso, bello ed emozionante, che si lascia alle spalle i partiti presi e mostra come le vicissitudini italiane passino avanti e indietro attraverso le stesse persone, le stesse comunità, gli stessi luoghi. I suoi protagonisti sono tre amici, nati in quel Cilento, e da lì mossi alla volta della Parigi e della Londra dell´esilio e della cospirazione, della Ginevra di Mazzini, della Torino sabauda, fino al ritorno al Sud dell´Aspromonte. Sono divisi dall´origine, figli di signori e di contadino, e poi dall´indole e dalle circostanze. Uno ucciderà l´amico popolano prendendo a pretesto il sospetto del tradimento, e andrà incontro al patibolo partecipando all´attentato di Felice Orsini a Napoleone III. L´altro terrà intatto l´ideale unitario e repubblicano nelle carceri borboniche. I grandi delle figurine risorgimentali compaiono appena o vengono mostrati, come Mazzini nella dedizione solenne e fanatica alla causa che li brucia dentro. Le vicende si svolgono nell´arco di un trentennio attorno alla figura finalmente illuminata di Cristina di Belgioioso. Il racconto ha un doppio registro: come si è fatta l´Italia, e come si è fatta male. Senza che una pagina prevalga sull´altra, soffocandola o riscattandola. In una scena, girata su un´altura nel territorio di Pollica, Martone mette due personaggi del 1862 su un´anacronistica gettata di cemento, che si guarda ora come un amarissimo presagio. Il nodo dell´Italia fatta e dell´Italia fatta male lo si vuole sciogliere oggi da più parti disfacendo l´Italia. È un segno dei tempi, direte, della mezza riuscita, dunque del fallimento intero, dell´unità europea. Si sono separate Cechia e Slovacchia, si sono sterminati i concittadini della Jugoslavia, il Belgio non riesce a incollare i cocci e fare un governo...
Noi facciamo finta di niente. Davanti al paesaggio politico, viene in mente il favoloso ingorgo stradale dei giorni scorsi tra Pechino e la Mongolia, 120 km e 10 mila camion e giorni e notti di coda - chissà, un banale incidente. L´incidente è avvenuto da tanto tempo, tutto è fermo, il carro attrezzi non riesce a passare, Berlusconi è lì, e fino alla sua rimozione politica (quanto al fisico, centoventi di questi anni) niente succede, salvo un triviale baccano di clacson. La politica tutta non può fare a meno di misurarsi con questo affare primario: sgomberare la strada. Ma il traffico riprenderà lungo percorsi già largamente segnati. Nell´attuale non-governo sono due i ministri alla ribalta: Maroni e Tremonti. Uno è della Lega, l´altro pure. All´indomani delle elezioni, sgomberato Berlusconi (o per sgomberarlo), Tremonti sarebbe il candidato più plausibile al governo: uomo forte, ma privo di un partito e un elettorato suo, dunque servo-padrone fino a quando la Lega - la cui voracità vien divorando - non vedesse l´occasione di intestarsi direttamente il governo nazionale.
Alla Lega si offre oggi l´opportunità di combinare il secessionismo, il visionario estremismo senile del professor Miglio, con lo strappo di enclave via via più larghe nel resto del paese - un processo di lampedusizzazione - e il controllo via via più diretto sul governo centrale, contrappuntato da qualche trasferimento napoleonico di ministeri e canali televisivi da Roma al Nord. Simmetricamente, il restante sistema dei partiti si distribuisce fra una resistenza Democratica (presto logorata, salvo un risorgimento) al Centro, e una eventuale aggregazione controleghista di ex An e Lombardo e altri spezzoni in un meridione infeudato alle famiglie di malavita. Le quali si intendono di decentramento e di radicamento nel territorio, e sono più unitarie di Mazzini quanto agli affari. Arriveremo ai 150 anni dell´Unità così o no? Se è così, diamo una mano a far muovere l´ingorgo - senza bussare al clacson, come si dice a Napoli e si fa dappertutto - ma guardiamo anche un po´ più in là. Dal sud al nord d´Italia, ne mandiamo Mille al giorno di ragazzi che "giù" hanno studiato per niente. Per intravvedere una tendenza contraria alla frantumazione egoistica dell´Italia e del sentimento che se ne fanno i suoi cittadini non si può che guardare ai giovani, e all´eventualità che una solidarietà e una confidenza fra loro promuova un giorno in Erasmus, una spedizione comune, diventi più forte del vincolo al proprio territorio e ai propri vecchi capitribù. Il trapasso invalso da parole come terra a una come territorio è del resto illuminante: si può voler bene a una terra, per un territorio si fa la guerra di confine, o una causa di sfratto.
Noi credevamo, ha intitolato Martone. "Noi": Bellini e Verdi e Rossini, Mazzini che muore sotto falso nome nell´Italia che l´ha chiuso in fortezza, Francesco Hayez e la nazione dipinta, il western italiano dei valloni del Cilento e i suoi briganti ribelli e il sindaco Vassallo ammazzato vilmente ad Acciaroli. Qualcosa da dire, da far vedere, c´è ancora. Qualcosa da credere.
Nella biografia di Carlo Pisacane, pubblicata nel 1932, Nello Rosselli scriveva: «Pare a me che si possa e si debba ormai (son passati ottant´anni) guardare con uguale rispetto al Pisacane "italiano" e a quello accanitamente borbonico; e infatti se l´uno contribuì direttamente alla formazione unitaria del nostro paese, l´altro - e con lui gli innumerevoli dimenticati e vilipesi che fino all´ultimo e con personale sacrificio sostennero i regimi ritenuti legittimi - lasciò un esempio di coerenza ideale, di dirittura». Nello Rosselli, fratello a sua volta di Carlo, socialisti liberali, assassinati assieme da miliziani fascisti nell´esilio francese, nel 1937. Pare anche a me, adesso che sono passati centocinquant´anni, e che si vogliono alzare altri muri e frontiere.
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Una banda armata di sequestratori, violatori e assassini efferati di donne, che usurpa il nome di Stato e si proclama esecutrice del disegno di Dio: a questo vuole ridursi il regime iraniano? Merita questo l´Iran, il suo popolo, le sue donne?
È la partita che si gioca oggi, e che si allarga al rapporto fra la teocrazia iraniana e il resto del mondo. Ma è prima di tutto la partita fra una così colossale potenza e il destino di una donna sola. Si vuole spiegare, ogni volta che una vicenda particolare sfida il diritto e l´umanità, che nella sorte di uno si riassume e si simboleggia la sorte di tanti, ed è vero. Ma è prima di tutto di quell´uno, di quell´una, che si tratta intanto. La signora Sakineh Mohammadi Ashtiani è reclusa nella galera di Tabriz, nell´Iran azero, da cinque anni. È stata accusata di adulterio e condannata. Ha ricevuto 99 frustate al cospetto di un pubblico che comprendeva il suo figlio maschio. È stata forzata a confessioni che ha ritrattato al processo, e ancora, lo scorso 11 agosto, in una ripugnante comparsa televisiva, sepolta in un chador nero come in un sudario, a leggere una nuova inaudita confessione sulla propria complicità nell´omicidio del marito. Il suo coraggioso difensore ha dovuto riparare in Turchia per scampare all´arresto, e il suo difensore attuale, nominato d´ufficio, protesta di non riuscire a conferire con la sua assistita da quando ha annunciato d´essersi convinto della sua innocenza.
Del resto, perfino dibattere di innocenza o colpevolezza suona derisorio di fronte a un regime che somministra in questo modo la sua giustizia. Ferocia e brutalità offendono ogni sentimento di umanità: l´orrore della lapidazione e i suoi elaborati dettagli («Ma come fanno a prepararsi a mirare al mio viso e alle mie mani, a lanciarmi delle pietre? Perché? Dite a tutto il mondo che ho paura di morire»), i tormenti inflitti ai figli, il maschio di 22 anni e la ragazza di 17, cui viene detto che la madre li ha rinnegati, e viceversa, sono fatti per suscitare lo scandalo. Ma rischiano anche di riservare l´attenzione a ciò che è insieme terribile e inessenziale, di lasciar giocare il governo iraniano –come il gatto col topo, stavo per scrivere, e me ne sono vergognato, perché è come l´uomo sequestratore con la donna torturata che gioca – con la commutazione della pena di morte, dalla lapidazione alla benigna impiccagione, o con la compiaciuta dilazione di decisioni ed esecuzione. In qualche appello europeo, si deplorano, nelle frustate e le lapidazioni, misure "d´altri tempi": non direi. Le pietre appuntite, né troppo grosse né troppo piccole, perché l´agonia duri mezz´ora, insieme all´arma nucleare: è questo il compendio della modernità.
La Repubblica islamica d´Iran, i padroni di un popolo di 80 milioni di persone, ha in ostaggio Sakineh e scherza col suo corpo come un macellaio di donne che abbia legato la sua rapita a un letto di contenzione. Ci sono tante altre Sakineh in Iran, ci sono anche tanti altri, come il ragazzo Ebrahim Hamid, l´ennesimo, che aspetta d´esser assassinato per sodomia nel paese in cui Ahmadinejad proclama che «non esistono omosessuali». E del resto gran parte delle migliaia di prigionieri del movimento verde dell´anno scorso è passata attraverso pestaggi, torture, stupri, e delazioni e confessioni forzate.
Su questo giornale avevano firmato ieri per Sakineh 70 mila persone. Appelli si moltiplicano e raccolgono l´adesione di personalità di spicco e di persone senza fama. È pochissimo, una firma, e per giunta a volte ai tiranni che tengono in ostaggio un popolo o una donna piace irridere platealmente la trepidazione e l´auspicio del mondo. E tuttavia il capriccio dei tiranni ha un prezzo da pagare. «Cercano di guadagnare tempo – dice il suo avvocato – finché il mondo si dimentichi di lei. E lei non si arrenderà finché il mondo si ricorderà di lei». "Il mondo" siamo noi. Il mondo, quello delle firme celebri e quello dei nomi senza fama, non è composto di cavalieri dell´ideale senza macchia. Chiunque firmi per la vita e la dignità di Sakineh fa bene a ricordarsi della pagliuzza o della trave nel proprio occhio. Sarebbe mera ipocrisia congratularsi, com´è giusto, della firma di Carla Bruni, e dell´impegno che annuncia a nome del suo consorte, senza avvertire una dissonanza dalla cacciata stentorea dei rom o dalla cittadinanza revocabile, e il bambino bruciato a Roma da una candela da topi non è fatto per acquietare le nostre coscienze. Ma è così che stanno le cose. Battersi per Sakineh, sperare con tutto il cuore che sia salvata lei, il suo bel viso che adesso abbiamo visto, estratto da un fondo di pozzo, come quello dei minatori cileni, può essere un modo per metterci stolidamente in pace con le nostre coscienze, ma anche per metterle in agitazione. Avvengono infinite infamie alla condizione che "il mondo" se ne dimentichi, o non se ne accorga affatto – o finga di non accorgersene. È una partita che ricomincia ogni volta, ogni momento, daccapo. Ma anche quando ci si trovi gli uni accanto agli altri in un´impresa che somigli a un vuotare l´oceano col secchiello, c´è una fraternità, una sorellanza, da riscattare a se stessi, e forse anche ai sequestratori e seviziatori e assassini di donne che si sono fatti Stato e agiscono in nome di Dio. Questa bella e pessimistica utopia ha la sua parte, e non bisogna rinunciarvi né vergognarsene. Ma gli appelli e le firme e le manifestazioni servono anche a far sentire alle brave autorità del nostro mondo, quelle cui ripugna di lapidare le cosiddette adultere e di frustrare in pubblico e di far recitare confessioni estorte in televisione, e che intrattengono comunque relazioni coi colleghi iraniani in una vasta fraternità d´affari, e che il lungo esercizio del potere ha addestrato al cinismo, a far sentire loro sul collo il fiato di elettori e sondabili. Diamo alla sorellanza e alla fraternità umana un 49 per cento della speranza per Sakineh. E diamo un 51 alla pressione esercitata sui nostri potenti: l´Unione Europea, in primo luogo, perché è così perbene, e così affarista. E preghiamo che una Sakineh salvata ed estratta dal fondo di pozzo in cui si trova, a Tabriz, possa presto distribuire a suo modo le quote del proprio conforto e della propria gratitudine.
Sofri lo lasciano scrivere dappertutto in cambio del suo silenzio sull'operazione dei CCstragisti [gli stessi di piazza Fontana] contro Calabresi [lo ammazzano i carabinieri quando indaga su di loro e sui LORO "fascisti"] e contro LC. ...Sofri e Pietrostefani rifiutano di far passare LC al terrorismo...
Mandanti e coperture sono di governi e di [finte] opposizioni.
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COSA LORO
They are unaccountable! ...This should be YOUR business!
Ho l´impressione che fra i sentimenti un tempo campali - per i bambini che leggevano il libro Cuore e i ragazzi che leggevano Conrad - che oggi sono sbiaditi, abbia un posto dei primi la vigliaccheria, e la sua lunga compagna, la vergogna. Ieri questo giornale le ha misurate, senza volere.
In ambedue le pagine la vittima è donna. L´ammazzamento della signora Emlou Aresu incute un terrore sacro. C´è Milano, c´è una strada che si chiama viale degli Abruzzi, c´è un ucraino venticinquenne che teme d´essere lasciato dalla sua compagna, lettone, c´è una gentile donna, madre di due figli, venuta dalle Filippine a tenere in ordine case italiane, che sarebbe tornata nelle Filippine all´indomani, che - raccontano altre donne che la vedevano passare ogni giorno - "era sempre di fretta", e così, di fretta, è arrivata al crocevia fatale. Secondo le cronache aggiornate, quel furioso, una volta in manette e con le nocche ferite, avrebbe detto di aver "solo picchiato un filippino di merda". Può darsi che fosse accecato fino a quel punto. Sua madre però dice che era uscito di casa gridando: «La prima che incontro, l´ammazzo». La prima che incontro, è un´idea che spiega tutto, come nelle canzoni: sarà la prima che incontri per strada che tu coprirai, d´oro o di cazzotti a morte, secondo il caso. Una donna, una qualunque, basta perfino una filippina di merda. I criminologi dicono che sono i delitti più inevitabili, quelli "casuali". Salvo che non è davvero casuale essere donna, e filippina per giunta.
Si corre il rischio di fare i maramaldi. Di deplorare i passanti che non sono intervenuti, i passeggeri dell´autobus che hanno guardato fuori dal finestrino mentre un´anziana signora veniva derubata e malmenata, i bagnanti che continuano a prendere il sole accanto al cadavere di un annegato. Noi uomini - appunto perché siamo maschi, e solo di rado siamo filippini - dobbiamo pur chiederci che cosa avremmo fatto, se ci fossimo trovati lì. A volte, come per l´episodio del Larsson adolescente, può darsi che lì ci siamo trovati, e che dobbiamo solo ricordarcene. I romanzi venduti a milioni di copie servono a eludere la questione: riguarda altri, personaggi romanzesche. Anche la vita vera riguarda altri, salvo che ci venga addosso, "proprio a noi", come una disgrazia. In genere, non facciamo che scongiurarlo, e scansarci più che possiamo. E quando succede, e non ci si può scansare?
Naturalmente, io non so affatto come mi sarei comportato se mi fossi trovato in viale degli Abruzzi al cospetto di quel prolungato massacro. So che temo fortemente che sarei stato vile e comunque inetto, che avrei avuto paura e che magari avrei escogitato nomi pretestuosi e meno mortificanti per la mia paura. Oltretutto, c´è una differenza fra scegliere coraggio o dignità quando si abbia il tempo di riflettere e decidere, e quando d´improvviso si sia messi alla prova. La verità è che succede a tutti, tutti i giorni. E che si è perduta l´abitudine di farsi la domanda su se stessi: «Che cosa avrei fatto...?». Ogni anno, l´11 luglio, ci si ricorda - chi se ne ricorda - della strage genocida di Srebrenica. Quest´anno era il quindicennio. Ogni volta si ritorna in quel luogo del delitto immane, tra le fosse di migliaia di trucidati, si racconta di nuovo l´empia malvagità dei carnefici, il generale Mladic che dà un buffetto a un bambino atterrito davanti alle telecamere, le donne separate dagli uomini e cacciate, gli uomini sterminati e buttati nelle fosse. E si racconta di nuovo l´infamia di ufficiali e soldati olandesi con le insegne delle Nazioni Unite, che non hanno mosso un dito per impedire la strage e anzi hanno accolto gli assassini e hanno brindato con loro e hanno collaborato a radunare le greggi dei rifugiati che avevano il compito di proteggere, aspettandosene, o fingendo di aspettarsene, che servisse a sventare il peggio. Il governo olandese, a distanza di anni, pagò con la caduta quel disonore. Dopo qualche anno ancora - nel dicembre 2006 - il ministero della difesa olandese assegnò ai 500 reduci del battaglione cui era commessa la difesa di Srebrenica una medaglia, per compensarli delle accuse di cui avevano sofferto. La viltà all´ingrosso degli Stati e delle potenze attraversa i tempi, e si è trovata anche lei nomi cattivanti, Ragion di Stato o Realpolitik, e medaglie larghe abbastanza da coprire la macchia rossa di vergogna sul petto delle uniformi. Poi ci sono le persone. A ciascuno di noi, specialmente se ha appena finito di commemorare Srebrenica e di dedicare il suo sarcasmo a un ministero olandese, o di commentare l´orrenda storia dell´altroieri a Milano, vien fatto di chiedersi: che cosa avrei fatto se fossi stato un ufficiale olandese, un passante a Milano? È la domanda che si fa chi legge Primo Levi, soprattutto se è un ragazzo e non è ancora indurito, la domanda per cui Primo Levi e altri che erano tornati da lì non vollero più vivere. C´è una differenza fra le tante, i cinquant´anni che separano Auschwitz da Srebrenica. Le cose infatti continuano a succedere. Si possono ascoltare molti consigli, e andare in palestra, e portare non so quale spray nella borsetta. Però non mi sembrerebbe inutile che i bambini e i ragazzi leggessero qualcosa che somigliasse al libro Cuore o a Lord Jim. O anche alla storia del giovane uomo maschio che si trovò a passare proprio nel punto in cui stavano per lapidare un´adultera.
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Le famiglie delle vittime avevano avuto ragione di preoccuparsi per la coincidenza fra la loro data, dedicata dalla stessa Unione europea alla commemorazione di Srebrenica, e la finale del campionato. La gente, e gli europei in particolare, avranno altro da fare quel giorno.
In compenso andranno in tanti alla cerimonia di Srebrenica, anche il primo ministro belga uscente Leterme, presidente di turno del consiglio dell´Unione europea, reduce a sua volta insieme alla famiglia reale dal cinquantenario dell´indipendenza del Congo, a Kinshasa. C´è la famosa barzelletta sul Belgio, dove si regola pacificamente la questione della secessione: «Allora, tutti i valloni a destra, e tutti i fiamminghi a sinistra». Restano fermi al centro alcuni signori vestiti di nero col cappello, la barba e i riccioli: «E noi belgi dove?» è esattamente quello che succede in Bosnia, dove gli accordi di Dayton divisero il paese in tre popoli costituenti, serbo, croato e bosniaco-musulmano (bosgnacco), con tre parlamenti e tre governi e tre di tutto, sicché un cittadino ebreo bosniaco, Jakob Finzi, e un cittadino rom bosniaco, Dervo Sejdic, hanno fatto ricorso alla Corte di Starsburgo chiedendo, più o meno, «E noi?» e la Corte, nel dicembre 2009, ha dato loro ragione, dichiarando invalido il voto riservato a candidature su base etnica. Le prossime elezioni saranno nell´ottobre di quest´anno, e vedremo come verranno a capo della barzelletta. Intanto, sono passati quindici anni, e si piange di più, come bisogna negli anniversari tondi, sull´undici luglio.
Srebrenica, laboratorio di genocidio di viltà e di negazionismo. Basta Srebrenica a rendere superflue montagne di volumi sul nazismo e la Shoah. I volonterosi carnefici, la gente comune? Eccoli, i tifosi belgradesi della Stella Rossa, i vicini di casa serbi: girano a centinaia per le strade di Srebrenica, "restituita" all´autorità serbo-bosniaca. La programmazione del genocidio? Proclamata, nei discorsi dei nazionalcomunisti di Milosevic e dei loro servi-padroni ubriachi, Karadzic e Mladic e compagnia. La comunità internazionale, che su Auschwitz pretendeva di "non sapere"? Ma a Srebrenica vedeva tutto, e lo trasmetteva al mondo intero, ed era solennemente sul posto, e non solo non si oppose allo sterminio, ma brindò coi macellai e aiutò coi suoi caschi blu a separare gli uomini dalle donne e i bambini, prima del mattatoio. Quanto al negazionismo, sostengono i nazionalisti di Belgrado e di Banja Luka che gli sterminati furono molto meno degli 8.346 ufficialmente designati, che gli esami del dna vengono falsati per far passare come bosniaco-musulmane le vittime serbe... Il Tribunale internazionale per la ex-Jugoslavia ha bensì pronunciato, il mese scorso, le prime condanne per il reato di genocidio, ma la notizia è passata pressoché inosservata. A Srebrenica furono massacrati i maschi, dagli adolescenti agli anziani - ma anche molti bambini e vecchi: le donne e i bambini furono cacciati via e braccati attraverso i boschi in una fuga d´incubo. Una ragazza si impiccò a un albero, e i suoi piedi scalzi dondolanti suggellarono l´iconografia del Novecento. D´altra parte la brutalità ex-jugoslava, e serbista specialmente, che a Srebrenica ricalcò l´antico rito del massacro degli uomini, aveva perfezionato anche la violenza sulle donne fino a programmare lo stupro etnico. Oggi Srebrenica è, ad onta delle sue autorità e delle sue milizie serbiste, soprattutto un posto di donne del lutto e della memoria, come ogni Troade inseminata.
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di Giuliano Ferrara
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di Adriano Sofri
Dunque una distinzione resta. Si può dire così: che ci sono stati, e ci sono ancora, moltissimi modi di essere comunisti. E modi altrettanto numerosi e diversi di smettere di essere comunisti. Si può dirlo più radicalmente, com´è stato detto –da Naipaul, forse- dell´islam: che esistono altrettanti islam quanti musulmani. Era un pensiero decisivo per prevenire i giudizi all´ingrosso, ma era anche un modo di rassicurarsi. Si è poi preferito riconoscere che, con una vasta gamma di variazioni ed eccezioni, c´è un´impronta comune a una larga parte dell´islam contemporaneo: la confusione fra legge religiosa e civile, un patriarcalismo più resistente e anzi riattizzato, un´inclinazione fatalista, un´insofferenza verso l´eventualità che non si creda in Dio... Si stenterà altrettanto ad ammettere che esistano altrettanti comunismi quanti comunisti. Si riconoscerà che nel primato del collettivo che ha segnato almeno il comunismo leninista c´è una dedizione dell´individuo alla causa e al gruppo, un´abnegazione, paragonabile all´abbandono del fedele a Dio e della coscienza personale alla Chiesa di certe fedi religiose.
Esiste un´antropologia comunista renitente alle differenze individuali: il culto della potenza ("Quante divisioni ha il Papa?"), il primato del Partito (che ha mille occhi, e tu due: e meglio avere torto col Partito che ragione contro); l´assolutismo del dogma e la dannazione dell´eresia (extra ecclesiam nulla salus, e anche extra partitum); il feticismo dell´organizzazione, e così via. Tuttavia c´è uno scampo, un´uscita d´insicurezza. Rina Gagliardi, così affettuosa, intelligente, colta, romantica, e così rigorosamente comunista –è l´autocertificazione che conta- lo ha provato, e con lei tanti altri. Si dirà che lo spartiacque fra la bella umanità e il cinismo politico è il potere: esserne respinti è la vera salvezza, conquistarlo è la disgrazia. Nell´amore di sempre di Rina per Rosa Luxemburg (e nell´ordine per Maria Callas e Mina) era decisiva la sconfitta di Rosa, e anzi il suo andare alla morte come a un sacrificio solidale. In coloro che hanno serbato un più tenace attaccamento al comunismo, nonostante tutto, ha sempre avuto un peso decisivo la pretesa totalitaria all´ortodossia del comunismo che aveva preso il potere e dei suoi satelliti, e dunque la scelta di contrapporgli coraggiosamente l´eterodossia minoritaria degli sconfitti e dei ribelli. Tutto questo era già successo nelle chiese con un Dio ultraterreno. Ho nominato i modi di smettere d´essere comunisti.
È uscita in questi giorni in volume una raccolta di scritti di Renzo Foa intitolata così: «Ho visto morire il comunismo». È un libro di storia e di politica, ma anche un´autobiografia di fatto: Renzo ha visto morire anche il suo comunismo, e lo racconta. Renzo Foa è morto prima del tempo un anno fa. Era figlio di due genitori preziosi e «importanti»: Lisa Giua e Vittorio Foa. Ambedue quei genitori avevano, ciascuno a suo modo, trovato nella storia eterodossa del movimento operaio e del socialismo l´orientamento che li aveva ancorati a una «parte» senza sottomettersi al dogma e ai suoi sacerdoti: Lisa nei figli della rivoluzione che la rivoluzione aveva divorato, soprattutto il fine Bucharin, e poi nella sinistra rivoluzionaria del dopo ´68, Vittorio nel partito d´Azione e nel sindacato e nel socialismo di sinistra.
Il giovane Renzo aveva cercato la sua strada, divincolandosi da quei genitori «gruppettari» (come diceva con ironia affettuosa, perché li amava molto) e aderendo al Pci. Era un comunista «ufficiale», era in questo la sua originalità. Probabilmente era questa la radice di un percorso che l´avrebbe portato a una rottura clamorosa col comunismo e a un vero passaggio di fronte, che appariva meno necessario a chi, ancoratosi a uno dei filoni di minoranza, spontaneisti o libertari e soprattutto nobilitati dalla sconfitta, avrebbe resistito al passo che apparisse come un tradimento degli ideali originari.
La Chiesa comunista aveva ereditato e perfezionato dalle chiese religiose la nozione del rinnegato, e ne fece sempre un uso spietato. Dalla vittoria della rivoluzione russa alla guerra fredda, salva la parentesi della seconda guerra detta mondiale, non si era voluto lasciare alcuno spazio fuori dalla contesa fra comunismo e capitalismo, e si erano accolti col magnanimo nome di transfughi quelli che passavano le linee della loro classe per venire di qua, e si erano banditi col marchio d´infamia di rinnegati quelli che rompevano con le virgole del dogma e la disciplina di partito per rivendicare la libertà propria e di tutti. Poi era finita la guerra fredda, e già prima si era tentata la strada del neutralismo e del mondo terzo, e però quell´idea del rinnegato durava, e a Renzo successe di farne le spese, tanto più che la sua vicenda era stata bruciante e vistosa, dalla direzione dell´Unità al Sabato e poi a Liberal e al Giornale. Del resto, i concetti di cui si abusa, compreso quello del rinnegato, hanno delle effettive incarnazioni, e mi ricordo che una volta Vittorio Foa, di fronte al voltafaccia di uno per un piccolo tornaconto personale –non importa chi, naturalmente- commentò: «Un rinnegato» –e scherzava, ma solo al cinquanta per cento. Renzo, che nel corso della sua peripezia diede un´importanza centrale al dialogo e alla discussione con suo padre –ne restano volumi- avrebbe volentieri riscattato il senso originario del rinnegamento: perché le fedi assolute, e dunque il comunismo, si rinnegano, una volta che si riconosca che non sono correggibili, e che non basta premettere loro l´aggettivo «vero»: il «vero comunismo», da contrapporre al «comunismo reale».
Gli scritti raccolti nel libro di Marsilio mostrano bene questo itinerario, dalle forti corrispondenze dal Vietnam e la Cambogia, alla domanda da tempi supplementari su Gorbaciov e la riformabilità del comunismo –e l´incontro con Dubcek, il leader della Primavera di Praga del ´68 che vent´anni dopo Renzo trasse dall´ombra cui era stato condannato- alla rilettura dei grandi denunziatori calunniati della tirannide e dell´impostura –Viktor Kravcenko, che, come lui, «aveva masticato fin da piccolo pane e rivoluzione», Arthur Koestler, giù fino ai perseguitati cubani- fino ai segni del crollo dell´89 e ai suoi autori principali, Reagan e Wojtyla. È istruttivo leggere, e sarebbe sciocco cavarne un senno di poi su ragioni e torti. Ci sono tanti comunismi, tanti islamismi, e soprattutto tante storie di persone e anni di nascita e luoghi di vita e di morte. Primo Levi, che vide profilarsi sulla soglia del campo i soldati dell´Armata Rossa, non avrà avuto gli stessi sentimenti di Margarete Buber-Neumann prigioniera prima del gulag sovietico e poi del lager nazista. Relativismo? Infatti –ma con giudizio.
Ho messo insieme nel ricordo due persone accomunate almeno dall´assenza di cinismo: Rina Gagliardi, che avevo conosciuto a Pisa ragazza e quasi mascotte col suo amato fratello, ed era stata colpita poi, più di quanto fosse nelle mie intenzioni, da una mia frase sul movimento di quegli anni come «uno stato d´animo», e Renzo Foa, che aveva cominciato dai «buoni maestri» e si buttò poi nelle «cattive compagnie», l´una che si è rivendicata comunista fino alla fine, l´altro che alla fine si dichiarava anticomunista. Uno convinto che «l´unica vera ribellione interessante è quella individuale», l´altra che, come ha scritto Rossanda ricordandola, non si è comunisti da soli. C´è un modo di essere comunista che non è così estraneo a un modo di smettere di esserlo. È la lezione utile: quel che non siamo più, quel che non vogliamo più.
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di Adriano Sofri
L’ottimo Valter Vecellio lamenta giustamente che iniziative radicali importanti passino sotto silenzio, anche da parte di chi è di solito più attento ai temi sollevati. E’ così per lo sciopero della fame di Antonietta Farina Coscioni, che dura già da otto giorni, per garantire ai malati di Sla l’assistenza cui hanno diritto e che è loro negata; in primo luogo l’aggiornamento dei Lea, i Livelli essenziali di assistenza
e il nomenclatore tariffario delle protesi e degli ausili che è fermo dal 1999. A novembre c’era già stato uno sciopero della fame di Maria Antonietta e di decine di militanti radicali e di malati di Sla. Si chiede al governo di rendere operante l’approvazione della nuova versione dei Lea e del nomenclatore; di comunicare 1’effettivo utilizzo dei finanziamenti stanziati per i "comunicatori" di nuova generazione, regione per regione; di renderne accessibili a tutti, anche su Internet, le modalità di utilizzazione, individuando dei responsabili regionali cui gli utenti possano riferirsi; di verificare le condizioni di assistenza anche domiciliare nelle varie regioni; di assumere le iniziative di competenza anche attraverso
poteri commissariali, affinché sia garantito ai cittadini affetti da Sla o da patologie simili e alle loro famiglie l’esercizio dei diritti costituzionali di espressione del pensiero, e una assistenza adeguata. Firmata da decine di parlamentari di diversi schieramenti, una mozione chiedeva al governo di provvedere "entro il 2009". Siamo al luglio 2010. Prima di questa battaglia, un silenzio altrettanto significativo aveva accompagnato il lungo sciopero della fame di Rita Bernardini, cui si erano uniti molti altri, radicali e no, sulla condizione orrenda del carcere e i fantomatici provvedimenti governativi. Ci sono due spiegazioni: che a chi è (provvisoriamente) sano e a piede (provvisoriamente) libero, gliene frega
pochissimo di sclerosi e galera. E che coloro a cui importa molto sono frustrati e disgustati da un cinismo senza limiti e da un’impotenza onnipotente delle competenti autorità, che si tratti di chi crepa in celle dimenticate, o in camere di sicurezza (di sicurezza!), e anche di cittadini, ammalati e loro cari, cui è capitata la sventura universale di star male, e particolare di star male ignorando la Finanziaria.
"La Repubblica"
Se esistesse oggi un´Internazionale dei lavoratori, dovrebbe ammettere una catastrofe simile a quella che travolse la Seconda Internazionale nel 1914, quando le sue sezioni nazionali aderirono al patriottismo bellico, e i solenni principii andarono a farsi benedire. L´Internazionale non esiste e la crisi finanziaria ed economica non è (per ora) una guerra armata. La Seconda Internazionale era stata largamente partecipe dei pregiudizi e delle convenienze colonialiste: differenza minore, dal momento che lavoratori e sindacati dei paesi ricchi si sono guardati finora dall´affrontare il colossale divario con la condizione del proletariato dei paesi poveri. La crisi, restituendo agli Stati un più forte intervento economico - senza per questo ridurre la sovranità delle grandi multinazionali - sospinge il lavoro salariato verso un rinnovato "sacro egoismo". Pomigliano ha reso clamorosa questa condizione.
In Germania, la difesa dell´occupazione è costata, ben prima della crisi finanziaria, un forte allungamento dell´orario di lavoro a parità di salario - alla Opel da 38 a 47 ore! A Bochum, nel 2004, si trattò proprio di sventare il trasferimento in Polonia. In Francia le 35 ore erano legge, e sono un ricordo imbarazzato. Oggi, alla Opel, saturati i tempi, gli operai cedono - agli investimenti aziendali, a fondo perduto - una metà di tredicesima e quattordicesima, un mese di salario. Il ritorno a un protezionismo "nazionale" fu vistoso con il prestito offerto dalla Merkel alla Magna in cambio della salvaguardia dell´occupazione tedesca, violando le regole europee sulla concorrenza. Ma si tratta di una tendenza generale, di cui gli incentivi governativi alla Fiat furono un capitolo ingente. Sarebbe interessante sapere in quante fabbriche italiane (Fiat inclusa) condizioni di lavoro largamente simili a quelle imposte a Pomigliano sono già in vigore.
Se dunque non c´è una capacità, e neanche una vera volontà - a parte la lettera "di bandiera" di un gruppo di operai di Tichy - di animare una solidarietà europea, tanto meno ci si attenterà a immaginare una simpatia e un legame fra gli operai di Pomigliano e di Tichy e gli scioperanti e i suicidi di Shenzhen, i quali per giunta fabbricano (sono 400 mila solo alla Foxconn) componenti elettroniche per il mondo intero, e non un prodotto esausto come l´auto, sia pure la nuova Panda. Nel momento in cui accentua la sua internazionalizzazione, la Fiat "nazionalizza" gli operai di Pomigliano, con un ultimatum prepotente perfino nel tono. A sua volta, in un gioco delle parti di cui non è affatto detto che sia voluto - che Sacconi e Marchionne siano in combutta: anzi - il governo prende la sfida della Fiat a pretesto per l´abolizione dei contratti nazionali, la liquidazione simbolica della Costituzione, la sostituzione dei "lavori" ai lavoratori, delle cose alle persone. (L´autocertificazione per cui oggi si pretende di rifare la Costituzione, veniva garantita dal Capezzone quondam radicale in un progettino dal titolo "Sette giorni per aprire un´impresa"). La famigerata "anomalia" di Pomigliano è perciò largamente pretestuosa: serve a far passare per una cruna il cammello del conflitto sociale e dei diritti sindacali. Un precedente prossimo c´è, ed è l´Alitalia: anche lì era facile trovare le anomalie, e fare piazza pulita delle norme. Pomigliano è "anomala" dalla fondazione, come ha raccontato Alberto Statera, con la sua combinazione fra una maggioranza di operai venuti dalla campagna e da assunzioni clientelari, e una minoranza di reduci da altre fabbriche e lotte. Si raccontava, il primo giorno dell´Alfasud, che fossero entrati in fabbrica 3 mila operai, e ne fossero usciti 2.980, perché venti erano evasi durante l´orario di lavoro, avendone già abbastanza. Ma l´industria cinese, quella che fabbrica gli iPad, è fatta largamente di contadini scappati dai villaggi.
Un dirigente mandato da Torino al passaggio dall´Iri alla Fiat, nel 1986, avrebbe poi raccontato agli intimi Pomigliano in termini più coloriti del dialogo fra Chevalley e il principe nel Gattopardo. A Pasqua, si aspettavano una gratifica e un agnello. Il manager, magari anche per l´assonanza col nome della dinastia, provò a monetizzare gli agnelli. Uno sciopero lo costrinse a cedere in extremis. Al rientro dopo la festa lo sciopero riprese, e il dirigente costernato si sentì dire che l´agnello avrebbe dovuto essere vivo, e non macellato. Bisognava che prima ci giocassero i bambini. Sarà una leggenda. Anche sull´assenteismo e sulla camorra a Pomigliano corrono storie vere e leggende, utilizzabili a piacere. Sarà vero che al direttivo provinciale di Cisl e Uil partecipano seicento dipendenti di Pomigliano? Marchionne deve saperlo, e non da oggi. Deve averci pensato almeno da quando ribattezzò la fabbrica col nome di Giambattista Vico, per riparazione: il più grande intellettuale della Magna Grecia. Non bastava un´intitolazione a passare dall´assenteismo alla scienza nuova, e nemmeno la deportazione dei cattivi a Nola. Ma appunto, il colore locale fa comodo a tutti, e anche a rovesciarlo in un ipertaylorismo - parola buffa, perché il taylorismo è iperbolico per definizione, e caso mai bisogna ridere amaro delle chiacchiere sulla fine del lavoro manuale e della fatica. I 10 minuti in meno di pausa - su 40 - la mezz´ora di mensa spostata a fine turno, e sopprimibile, lo straordinario triplicato - da 40 a 120 ore - e una turnazione che impedisce di programmare la vita, sono già un costo carissimo. Aggiungervi le limitazioni allo sciopero e il ricatto sui primi tre giorni di malattia è una provocazione o un errore, di chi vuole usare Polonia e Cina per insediare un dispotismo asiatico in fabbrica qui, quando la speranza è che l´anelito alla dignità e alla libertà in fabbrica faccia saltare il dispotismo in Cina.
Non c´è l´Internazionale, viene fomentata la guerra fra poveri, si fa la guerra ai poveri, questa sì dappertutto. Perché l´altra lezione venuta in piena luce grazie a Pomigliano è che la storia degli operai "garantiti" opposti ai "precari" era del tutto effimera, e i nodi sono al pettine, per operai e pensionati. Termini Imerese chiude, Pomigliano chissà, Mirafiori... Chi garantisce chi? Dei due modelli presunti - lavorare di meno o consumare di più - è destinato a prevalere, da noi ricchi, il terzo: lavorare di più e consumare di meno. Il "movimento epocale" di redistribuzione del reddito, invocato da Scalfari, va insieme a un cambiamento radicale dei modi di vivere e consumare (si chiamano, chissà perché, "stili": come se ci fosse stile in una coda di autostrada). Erano provvisori i "garantiti", siamo provvisori "noi ricchi" del mondo. Questione di tempo, e l´economia va più svelta della stessa demografia. Prediche al mondo vorace che esce dalla povertà a spallate, perché non si ingozzi di automobili e telefonini come noi, non ne possiamo fare. Abbiamo dato l´esempio dell´ubriachezza consumista, possiamo solo provare a darne uno pentito, di sobrietà. Sbrigandoci.