CASO FAZIO: RADICALI, NULLA DA DICHIARARE?

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Non riesco a farmi una ragione del silenzio radicale sul cosiddetto "caso Fazio", che è poi in realtà l'ennesima puntata del caso "padroni del vapore e nuovi arrivati che vogliono diventare i nuovi padroni del vapore".

In mancanza di Ernesto Rossi, qualche comunicato, qualche presa di posizione, qualche commento da parte, per esempio, del segretario di Radicali Italiani (non bastano gli articoli ironici su "Libero", caro Daniele!) e di Benedetto Della Vedova (che continua fino a prova contraria a far parte della Direzione di Radicali Italiani) sarebbero cosa buona e giusta.

E l'intervista di Pannella al "Corriere della Sera" di ieri può costituire un punto di partenza - parziale e tardivo - non certo d'arrivo!

Intanto, inserisco una ricostruzione della vicenda fatta dal "Sole 24Ore" che mi pare utile per chi, come me, non conosce il "latino" però vuole capire lo stesso ...

ANTONVENETA: CINQUE MESI DI FINANZA SPERICOLATA

PIERANGELO SOLDAVINI

Un racconto dedicato a chi ha perso le tappe cruciali e vuole capire che costa sta accadendo. La storia della Banca popolare di Lodi e la contesa con gli olandesi della Abn Amro spiegata, almeno questa volta, senza tecnicismi e senza dare per scontate le puntate precedenti. Cercando di capire perché la vicenda che ha avuto come protagonista la banca di Padova è diventata un nuovo “ scandalo all'italiana” che ha trovato spazio anche sulle prime pagine dei grandi giornali internazionali.

C' era una volta una banca che aveva le sue radici solidamente affondate nell'Italia del Nord Est, uno degli snodi cruciali del sistema economico italiano, culla di quella rete di piccole e medie imprese esportatrici che ha portato il « made in Italy » in tutto il mondo. Potrebbe iniziare così il racconto della battaglia finanziaria che si sta combattendo da mesi attorno ad Anton Veneta, una contesa che si interseca con altre vicende che stanno mettendo a repentaglio gli equilibri del gotha finanziario nazionale e con dispute di carattere politico. Una battaglia che rischia di lanciare nuove ombre sul nostro Paese e sulle sue capacità di rispettare le regole del mercato agli occhi degli investitori stranieri. Già insospettiti dai casi Cirio e Parmalat.
Quella banca è una solida realtà del panorama bancario italiano con circa 10mila dipendenti e una rete di un migliaio di agenzie, concentrate per la metà tra Veneto e Lombardia, una delle aree più ricche del Paese ( proprio per questo diventa appetibile). Ma, dopo otto mesi di serrato confronto e di scontri legali, non si sa ancora chi ne sia il " padrone", chi sia destinato a dettarne le prossime strategie di crescita.
L'origine dello scontro Fino allo scorso aprile la banca era guidata da un " patto" tra imprenditori locali, con in testa un gruppo veneto noto in tutto il mondo del calibro di Benetton, e di finanzieri, tenuti insieme da un accordo— il cosiddetto " patto di sindacato" — che li vincolava a gestire di comune accordo AntonVeneta sulla base di regole concordate. Accanto a loro, nel patto era spuntata anche una banca olandese, Abn Amro, semisconosciuta in Italia al di fuori dell'ambito degli addetti ai lavori, ma in realtà uno dei grandi gruppi creditizi d'Europa, erede della grande tradizione mercantilistica e bancaria olandese. Intenzionati a rafforzare la loro presenza in Italia — sono anche nell'azionariato di un altro grande gruppo, Capitalia— gli olandesi avevano individuato nell'istituto padovano la punta di diamante della strategia di crescita nel Bel Paese.
Nel giorno in cui quell'accordo tra gentiluomini arrivò a scadenza, dopo mesi di studio delle posizioni e dimosse tattiche, era già chiaro che si sarebbe arrivati a una disfida cruenta. Ma — si sperava — anche cavalleresca, basata sulle regole che governano le battaglie in campo finanziario. In buona sostanza si trattava di conquistare la maggioranza del capitale azionario della banca comprando le azioni sul mercato ( in Borsa).
Poi, arrivati alla fatidica soglia del 30%, sarebbe scattato l'obbligo di legge di lanciare un'Offerta pubblica di acquisto ( Opa), vale a dire un'operazione di acquisto di tutti i titoli presenti sul mercato: uno strumento di " democrazia" societaria che permette a tutti gli azionisti di godere delle medesime condizioni garantite a chi detiene il pacchetto di controllo di una società.
Banche e regole Ma bisogna fare un passo indietro per comprendere come le norme che sovrintendono al sistema bancario siano ben più rigide e stringenti rispetto a qualsiasi altro comparto industriale. Nei destini di un istituto di credito non sono coinvolti solo dipendenti, azionisti e creditori ( tra cui gli eventuali possessori di obbligazioni) che vedono messi a rischio il loro posto di lavoro, gli investimenti o i soldi dovuti ( il caso Parmalat ha lasciato il segno). Ma allo stesso tempo anche i risparmiatori, che hanno rinunciato al tradizionale materasso per consegnare i loro patrimoni a conti correnti e depositi amministrati delle banche. Senza contare degli squilibri che un istituto a gambe all'aria potrebbe provocare in un'economia moderna, di cui le banche costituiscono la vera e propria spina dorsale. Proprio per questo motivo, la stessa Costituzione garantisce in forma esplicita la tutela del risparmio.
E proprio per questo la vita del settore è regolata ovunque da norme particolari, per quanto riguarda le garanzie di solidità finanziaria e la trasparenza sui passaggi di proprietà. In questo sistema spicca il ruolo di custode e garante della stabilità affidato al Governatore della Banca d'Italia. Su quella poltrona si sono succeduti autorevoli protagonisti della storia economica del Paese, tra cui l'attuale Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi. Suo successore, dal 1993, è Antonio Fazio. Esaurito con l'introduzione dell'euro il compito di coniare le vecchie lire e di fissare i tassi di interesse, a lui rimane il ruolo di " vigile" del sistema bancario e di ogni operazione che modifichi gli equilibri finanziari. Se ritiene che una fusione tra banche non rispetti le regole di stabilità e di prudenza, stabilisce che quel matrimonio « non s'ha da fare » ( ed è già successo anche in tempi recenti). Ovviamente lo dovrebbe decidere sulla base di motivazioni tecniche, e non di simpatie o antipatie. Senza il consenso della Banca d'Italia non si può fare nulla che cambi il panorama bancario nazionale.
L'italianità Fazio aveva già mostrato a più riprese negli ultimi anni la sua diffidenza nei confronti delle banche straniere. E l'italianità non veniva difesa per mero protezionismo, ma per tutelare un settore che, come si diceva, è troppo importante per i destini dell'economia permettendogli di crescere al suo interno per poi giocare da protagonista sullo scenario europeo. Il risultato però non è stato quello desiderato e le banche italiane sono rimaste indietro rispetto al resto d'Europa, con la conseguenza che il sistema italiano è diventato almeno in parte una " terra di conquista" da parte degli istituti stranieri. Il che non necessariamente è di per sè negativo.
Era chiaro fin dall'inizio che Fazio non avrebbe srotolato il tappeto rosso di fronte alla determinazione degli olandesi di avere più voce in capitolo in AntonVeneta. Così come di lì a poco sarebbe successo anche per la conquista del controllo della Banca Nazionale del Lavoro, divisa tra un patto di sindacato ruotante attorno agli spagnoli del Banco Bilbao ( Bbva) e un " contropatto", un accordo concorrente guidato da Francesco Gaetano Caltagirone e composto dai " nuovi immobiliaristi".
I nuovi protagonisti La disputa si è fatta più avvincente quando in entrambe le battaglie bancarie dell'anno sono emersi prima ( nel caso di Bnl) o dopo ( su AntonVeneta) volti nuovi della finanza nazionale.
Una nuova classe di finanzieri che aveva ingrossato le fila di quei " capitani coraggiosi", salita alla ribalta delle cronache finanziarie in occasione della scalata alla Telecom ( 1999), l'Opa più grossa mai effettuata in Italia. Uno su tutti Emilio Gnutti, il finanziere bresciano che con la sua Hopa aveva fatto lievitare gli investimenti di una cordata di concittadini tornando in seguito all'interno della catena di controllo della stessa Telecom al fianco di Marco Tronchetti Provera.
Gnutti è un giocatore a tutto campo. Dall’affare Telecom in poi non c’è partita importante che non lo abbia visto nel ruolo di protagonista. E proprio perché è sempre sull’ottovolante, quindi a volte sugli altari e a volte nella polvere, Gnutti si ritrova ogni tanto anche con qualche tegola sulla testa. Ad occhio e croce, ne ha già ricevute quattro per una serie di sospetti: evasione fiscale sui 3mila miliardi di vecchie lire incassate nell’operazione di cessione del gruppo Telecom alla Pirelli nel 2001; di nuovo insider trading su Telecom dopo l’Opa, l’offerta pubblica di acquisto, lanciata dall’Olivetti nel 1999; ancora insider trading sul riacquisto di obbligazioni quotate decise dal gruppo Unipol di cui Gnutti è consigliere.
Accanto a lui e alla discussa presenza dei vertici della cosiddetta " finanza rossa", quella che affonda le sue radici nel mondo cooperativo e " socialcomunista" ( il Monte dei Paschi di Siena e le assicurazioni Unipol), emergono nuovi giovani protagonisti della finanza.
Le scalate bancarie rappresentano infatti l'occasione dell'entrata in scena di protagonisti inediti: Stefano Ricucci, Danilo Coppola, Giuseppe Statuto sono gli emergenti, accomunati dal settore di provenienza. Sono tutti immobiliaristi, emersi dall'anonimato con immense fortune spuntate all'ombra di un mercato immobiliare che continua a espandersi senza tregua.
Ma su quelle fortune si sono concentrate curiosità e sospetti.
Non è più invece un semplice emergente Gianpiero Fiorani, il banchiere della Bassa lombarda che ha trasformato una piccola Popolare di provincia, la Lodi, in un gruppo in grado di concorrere ad armi pari con i big nazionali con una campagna di acquisizioni che ha dell'incredibile, appoggiata senza alcuna remora dallo stesso Governatore: famosa rimane la fotografia in cui Fazio appare per le strade di Lodi a braccetto con Fiorani, a suggello della conquista di una statura nazionale dell'ambizioso ex giornalista, che in seguito si scoprirà anche " padano". L'escalation ha fatto sorgere comunque più d'un sospetto, sia per la spregiudicatezza con cui sono state effettuate le scalate, sia per la capacità della banca di poter digerire tante e tali acquisizioni in così poco tempo.
La scalata a Padova Ma torniamo alla nostra storia dopo questa lunga digressione. Gli imprenditori veneti si fanno da parte di fronte a una partita che diventa più grossa di loro e cedono in buona parte le loro quote nella banca padovana.
Proprio la Popolare di Lodi emerge come il vero antagonista degli olandesi, come il " cavaliere bianco" a difesa di quell'italianità delle banche più volte sbandierata da Fazio. I due fronti cercano una trattativa per evitare la guerra, ma senza successo. Fiorani parte all'attacco: chiede e ottiene le necessarie autorizzazioni di Banca d'Italia per rastrellare azioni di AntonVeneta. Mentre Abn Amro, che accusa di essere stata bloccata in maniera scorretta, deve stare a guardare Lodi che sale al 5%, poi al 10%, al 15% fino a ridosso di quel 30% oltre il quale sarebbe costretta a lanciare un'Opa che non sembra in grado di poter sostenere, ma di cui ormai si parla apertamente. Intanto mani " amiche" intervengono al suo fianco: Coppola, Ricucci, Gnutti e i fedeli fratelli bresciani Lonati, che vedono i loro investimenti lievitare con il titolo AntonVeneta che vola in Borsa.
Prima però Abn sferra la sua controffensiva: il 30 marzo ( Lodi era attorno al 10% del capitale) annuncia un'offerta di acquisto, proponendo di raccogliere tutte le azioni a 25 euro l'una.
Fiorani ha in serbo la contromossa: aspetta la fine di aprile per lanciare la sua Opa, offrendo solo una parte in contanti e il resto in azioni sia della stessa Lodi, nel frattempo trasformatasi ( non del tutto a caso) in Banca Popolare Italiana ( Bpi), e di una sua controllata, Reti Bancarie Holding. Per un controvalore complessivo che, secondo i calcoli di Lodi, è di un euro superiore ad Abn. Una battaglia così non si era mai vista in Piazza Affari, meglio di un film. E non è che l'inizio.
I sospetti delle autorità C'è però qualcosa che non quadra e a metterci il naso è la Consob: il " poliziotto" dei mercati finanziari vuol vederci chiaro. È l' 11 maggio quando l'autorità di Borsa denuncia l'esistenza di un patto occulto tra gli scalatori: Fiorani e gli altri " amici" erano d'accordo nel comprare in maniera concertata le azioni AntonVeneta. Ci sono i documenti — sostiene la Consob — e quindi è come se fosse un'unica cordata a detenere le quote: siamo quindi oltre il 30%, quasi al 40%, scatta l'obbligo di lanciare un'Opa, a un prezzo più basso, calcolato sulla base dei prezzi di Borsa. L'azionista che ha titoli AntonVeneta rischia di non capirci più nulla: ha visto le quotazioni del suo titolo lievitare, ma ora si trova di fronte a tre alternative diverse.
A metà giugno sembra calare il sipario: Abn alza la sua offerta a 26,5 euro, e Lodi dopo tre giorni aggiorna la sua. Il destino sembra segnato. L'offerta degli olandesi si chiude il 22 luglio con un buco nell'acqua: Abn raccoglie solo il 2,88% arrivando al 32,7% del capitale, una quota che non serve ad andare lontano. I risparmiatori sono stati distratti dalle voci che consegnano ormai alla Lodi la maggioranza assoluta. Gli olandesi sembrano ormai rassegnati alla ritirata, sia pur addolcita dalla prospettiva di pingui guadagni se consegneranno le loro azioni all'offerta di Fiorani.
« Tonino, ti darei un bacio » Ma il castello di carta crolla pochi giorni dopo. La Consob stabilisce che c'era un patto occulto della Lodi anche con Ricucci, congelando i diritti di voto delle due quote. All'assemblea di AntonVeneta si assiste al ribaltone e Abn riesce a far eleggere un consiglio di amministrazione a lei favorevole. Ma questa volta si va oltre. I pm della Procura di Milano, gli stessi che avevano indagato sull'affaire Parmalat, arrivano a ruota della Consob e il 25 luglio sequestrano l'intera quota detenuta da Lodi e ai suoi amici " concertisti", il 40% circa di AntonVeneta. La cordata che si preparava a impadronirsi della banca si trova con le mani legate. E le sorprese non sono finite qui, perché pochi giorni dopo arriva la parte più gustosa.
Da mesi Procura e Guardia di Finanza avevano monitorato telefoni e cellulari dei protagonisti della vicenda. Ai primi di agosto la pagine dei giornali si riempono di intercettazioni telefoniche che aprono uno squarcio non certo confortante per l'intero Paese. Dietro all'ufficialità della scalata si scopre una serie di rapporti personali che sono stati decisivi nel determinarne l'esito.
Spetterà ai giudici stabilire se si sono verificati dei reati — agiottaggio, operazioni sulla base di informazioni riservate ( insider trading) e ostacolo all'autorità di vigilanza — ma bastano poche frasi per dare l'idea di un Paese dove dominano ancora i rapporti di amicizia e di fedeltà. Quando il Governatore Fazio chiama di notte l'amico Fiorani per avvisarlo di essere riuscito a dare il beneplacito alla sua offerta, avanza il sospetto che quello che dovrebbe essere un arbitro al di sopra delle parti non sia stato così imparziale. E il sospiro di sollievo del banchiere lodigiano è evidente: « Tonino, sono commosso, ho la pelle d'oca,... Ti darei un bacio sulla fronte, ma non posso farlo » . Quel " Tonino" fa il giro del mondo e finisce in prima pagina su « Financial Times » e « Wall Street Journal » , mettendo in gioco la reputazione di un'istituzione autorevole e rispettata.
Si scoprirà poi il perché di tanta ansia. I tecnici della Banca d'Italia era perplessi nel dare l'ok alla proposta della Lodi: troppe incognite sul fronte patrimoniale per una banca che vuole comprarsene un'altra che, stando ai valori di Borsa, è tre volte più grande. Il Governatore ha dovuto mettere in atto tutte le sue doti per ottenere il via libera. E un bacio in fronte a distanza da Fiorani.
Man mano emergono dai faldoni dell'inchiesta altre intercettazioni, nuove ammissioni e il contorno dei sospetti si allarga sempre più, lasciando intravedere complesse operazioni finanziarie, attraverso società lussemburghesi o domiciliate in paradisi fiscali. Con il sospetto che nella battaglia le carte fossero segnate fin dall'inizio e le condizioni non fossero uguali per tutti.
Bocce ferme L'epilogo della storia è ancora tutto da scrivere. AntonVeneta è ancora senza un azionariato stabile, con i suoi destini in mano ai giudici e agli avvocati. Tutto è bloccato in mezzo al caos, mentre si cerca una via d'uscita che possa evitare nuovi scandali e ridare credibilità al sistema. Tanto più che anche la battaglia su Bnl, chiusa con una virtuale " vittoria" dell'Unipol, in cordata con gli stessi protagonisti, rischia di riaprirsi con un colpo di scena inatteso.
Non si può nemmeno dimenticare che le due partite bancarie si sono intersecate con le vicende che hanno coinvolto i " gioielli" della finanza italiana. Ricucci è partito all'offensiva della Rcs, che vuol dire la proprietà del Corriere della Sera, in una scalata al quotidiano più diffuso controllato ora da un patto di sindacato. Nelle stesse intercettazioni sono finite frasi a mezza bocca anche su questa vicenda che fanno riferimento a un presunto interesse, smentito seccamente dall'interessato, del premier Silvio Berlusconi, con conseguenti polemiche politiche. E parallelamente alcuni dei nuovi immobiliaristi sono comparsi tra gli azionisti di Mediobanca, il crocevia dei destini del Corriere e delle Generali.
Allo stesso tempo l'intera vicenda ha rimesso in discussione il Governatore della Banca d'Italia, già al centro di polemiche per carenze di vigilanza nel caso di Cirio e Parmalat. Ma oggi la sua poltrona è di nuovo messa in discussione, anche perché il suo è l'unico incarico pubblico a tempo indeterminato. Ce n'è per scrivere ancora nuovi capitoli di una storia che promette puntate avvincenti.

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"La Stampa", 25 Febbraio 2010, pag. 30

LA DEPOSIZIONE AL PROCESSO ANTONVENETA

«Il governatore Fazio mi disse che avremmo avuto un’ispezione morbida in banca»
“Consegnai a Grillo denaro per Dell’Utri”

Fiorani: 100 mila euro anche per Calderoli

 

PAOLO COLONNELLO
MILANO


Sarà che si considera «un appestato» ma appena apre bocca, Giampiero Fiorani, l’ex amministratore delegato della Popolare di Lodi imputato per l’illecita scalata Antonveneta, sparge il morbo a piene mani. E infetta senza troppe remore gli ex compari di un tempo chiamandoli in causa uno a uno.
Dall’ex governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio («Mi avvertì che ci sarebbe stata un’ispezione “morbida” per dare una patente a tutto quello che abbiamo fatto») all’ex ministro Paolo Cirino Pomicino («Fu lui a dire a Fazio e alla moglie che i nostri telefoni erano intercettati, lo aveva avvertito uno suo amico dei servizi segreti a Roma»); dai «signori della Lega Nord» («devono ricordarsi di quello che abbiamo fatto per loro, li abbiamo salvati...») al «senatore Marcello Dell’Utri: erano per lui i 100 mila euro che mi chiese il senatore Grillo. E Dell’Utri mi ringraziò...». Per non parlare degli «aiuti» all’onorevole di Forza Italia, Aldo Brancher: «Mi chiese un contributo perché aveva perso un investimento in un’azienda. Era uscito male».
E alè, altri 100 mila euro: «100 mila per lui e altri 100 mila che mi disse che doveva dare a Calderoli». Tutte cose più o meno già raccontate nei verbali ma che sentite ieri in aula dalla bocca dell’ex enfant prodige della Bassa, cui di prodigioso è rimasta la memoria, fanno effetto. Specia quando Fiorani scodella il piatto forte: un paio di inediti che forse determineranno l’apertura di nuove indagini.
Il primo riguarda il ruolo svolto dal giudice del Tar del Lazio Pasquale Delise, oggi attuale presidente che, secondo Fiorani gli avrebbe passato in anticipo e sottobanco le decisioni del Tar sui ricorsi dei concorrenti di Abn Amro avversi alle scalate dei “furbetti del quartierino”. Il secondo colpisce basso il presidente di Consob Lamberto Cardia che, afferma senza mezzi termini il Giampi, «mi avvisò che la Procura di Milano indagava sulla scalata Antonveneta». Il che fa il paio con la deposizione della scorsa udienza, dove Fiorani aveva spiegato come Cardia gli avesse anticipato di un mese l’ispezione nella banca di Lodi e di come il figlio del presidente Consob, a quei tempi, lavorasse come consulente per lui con uno stipendio da 250 mila euro l’anno.
Insomma, non era solo a quei tempi il Giampi. Non come adesso che si sente «diventato un appestato. C’è paura di stare vicino a me per non restare contaminati. È un’esperienza drammatica, una morte civile cui uno può pensare di farla finita o lasciarsi andare». Così racconta perfino di aver tentato due volte il suicidio: «Non so dire se per fortuna o per sfortuna, questo poi lo vedremo. Adesso posso dire che mi è andata bene». La prima volta, spiega, accadde nell’ottobre del 2005, dopo l’estate rovente dell’inchiesta sui “furbetti”: «Avevo preso un fucile da caccia, avevo messo la canna in bocca,avevo appoggiato il calcio a terra ma per fortuna quel fucile scivolò». La seconda volta fu nel carcere di san Vittore, «ma una guardia mi salvò».

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"La Repubblica", GIOVEDÌ, 14 GENNAIO 2010
Pagina 25 - Economia
 
Antonveneta, il giorno di Fazio in aula: "Sono innocente, mi ha ingannato Fiorani"
MILANO - «Se mi dite che sono "lo stratega occulto" della scalata Antonveneta o "l´istigatore di Fiorani", dico che è assolutamente falso». Antonio Fazio, l´ex governatore di Banca d´Italia, ieri è andato in aula con l´intenzione di difendersi su tutta la linea dall´accusa di aggiotaggio e di mostrare la propria credibilità. I fatti risalgono al 2005. I pm Eugenio Fusco e Gaetano Ruta sono convinti che il governatore abbia appoggiato attivamente la scalata della Popolare di Lodi di Gianpiero Fiorani a danno degli olandesi di Abn Amro, manipolando il mercato.
Fazio nelle sue dichiarazioni spontanee ha invece sostenuto di essere stato ingannato da Fiorani, definito «un personaggio diverso da quello che appariva, capace di un comportamento fraudolento e mendace», ma «simpatico» e in grado di conquistare la famiglia del governatore. «Fiducia e simpatia furono mal risposte», ha sentenziato Fazio. Il banchiere di Lodi avrebbe nascosto al governatore e agli uffici della Vigilanza tutte le scorrettezze compiute, come il rastrellamento occulto delle azioni Antonveneta e i falsi contratti di cessione delle partecipazioni di minoranza, per ingannare Banca d´Italia. Insomma, Fazio non era un complice di Fiorani. «Anzi fui molto severo con la Lodi» ha dichiarato Fazio, sottolineando come Banca d´Italia abbia rilasciato in 55 giorni l´autorizzazione ai lodigiani per l´offerta su Antonveneta contro i 37 giorni impiegati per Abn, 17 dei quali assorbiti dai rapporti con le autorità olandesi. Un´autorizzazione concessa forse troppo velocemente visto che, come ha ricordato Fazio, Abn, considerata allora solidissima, è poi finita nelle mani di Royal Bank of Scotland, la banca anglosassone pressoché fallita durante la recente crisi finanziaria.
Eppure Fazio ha vacillato di fronte all´incalzare delle domande dei pm, opponendo molti «non so» o «non ricordo», soprattutto quando gli venivano prospettati i suoi rapporti «quasi intimi» con Fiorani e con alcuni politici come Luigi Grillo (Pdl) e Giancarlo Giorgetti (Lega Nord). «Perché - domanda il pm - il giorno prima dell´avvio dell´ispezione il governatore riceve a casa sua Fiorani e il politico Grillo?». Era la prassi, è stata la risposta di Fazio, aggiungendo che lo stesso era avvenuto più volte con Cesare Geronzi, l´ex numero uno di Capitalia, nonché rivale di Fiorani per la conquista di Antonveneta. E ancora, perché Fiorani entrava dal retro quando andava in Banca d´Italia? «Lo stesso lo faceva Enrico Cuccia, quando il sabato veniva a trovarmi», ha risposto Fazio. E sulla famosa telefonata del bacio in fronte, l´ex governatore che non trova nulla di strano nell´aver avvisato Fiorani per telefono il giorno prima della concessione dell´autorizzazione alla scalata, scherza: «Se fosse stato siciliano mi avrebbe baciato le mani». Fazio ha poi negato di essere stato a conoscenza dell´azione di lobby sulla Lega Nord e sull´Udc per non cambiare la durata del mandato del governatore e quando nelle telefonate ha parlato di possibili intercettazioni si riferiva a quelle illegali della Kroll.
(w.g.)

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Iscritto dal: 07/09/2000
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"La Stampa", 14 Gennaio 2010, pag. 26

LA DEPOSIZIONE AL PROCESSO ANTONVENETA

Fazio in aula: “Fiorani ha tradito la mia fiducia”
«Non potevo sapere che le carte erano state falsificate per ingannarmi»

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PAOLO COLONNELLO
MILANO


«Respingo con forza...», «Nego assolutamente...», «Non ricordo bene...». La erre arrotata, i sorrisi nervosi, la voce che ogni tanto scompare in profondi sospiri: l’ex governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio si proscioglie da ogni accusa e scarica tutto sull’ex amico Gianpiero Fiorani: «Ha tradito la mia fiducia. Venni tenuto all’oscuro delle sue trame che giunsero perfino a una falsificazione spregiudicata di documenti e alla rappresentazione fraudolenta di una situazione ben diversa dalla realtà... Bankitalia si mosse nell’imparzialità».
Fazio si siede davanti al pretorio dei giudici del processo Antonveneta e per quasi un’intera giornata prende la parola: è imputato di aggiotaggio. All’inizio sono dichiarazioni spontanee, e per quasi tre ore nega ogni responsabilità e spara a zero contro l’ex amico di un tempo, l’ex enfant prodige della Bassa Gianpiero Fiorani: «Un uomo dalle spiccate doti di simpatia umana e cordialità... Ebbe anche l’abilità di conquistarsi la simpatia della mia famiglia». Ma alla fine il Gianpi, lo tradì: «Sono stato ingannato... Fiducia e simpatia, ahimé, furono mal riposte perchè Fiorani ha tessuto e ordito trame fraudolente allo scopo di trarre in inganno gli Uffici di Vigilanza e quindi anche me, per conseguire i suoi obiettivi anche di carattere personale».
Concede, l’ex governatore, che il progetto «di cui mi parlò Fiorani... appariva del tutto legittimo e rispettoso delle procedure. Respingo però l’accusa di avere ostacolato Abn Amro per favorire la sclata della Bpl; nego di aver istigato Fiorani e Boni e di aver suggerito una strategia assembleare».
Si direbbe una requisitoria contro l’ex amico che lo avrebbe voluto baciare in fronte («E se fosse stato siciliano, chissà, mi avrebbe anche baciato le mani e i piedi...»), ma con l’andare del tempo, la deposizione si trasforma in un boomerang. Bastano poche domande del pubblico ministero Eugenio Fusco: «Ma lei dov’era? Non aveva il compito di vigilare? Era normale invitare a casa un banchiere per comunicargli le decisioni della Vigilanza? Avvisarlo dell’ispezione?». «Era un’abitudine avvisare i banchieri prima delle ispezioni. In quel caso glielo dissi io invitandolo una domenica a casa... lo avevo fatto una volta anche con Geronzi...»
Fazio barcolla, talvolta ride nel silenzio gelido dell’aula, ammette di aver ricevuto Fiorani a casa, di avere avuto per lui un trattamento di riguardo ma di non avergli concesso nessun favoritismo. Di sicuro, alla fine gli concesse l’autorizzazione all’opa su Antonveneta: «Ritenni mio dovere concedere l’autorizzazione. Il problema di Bpl era di natura patrimoniale e quattro giuristi indipendenti avevano espresso un giudizio favorevole. Solo grazie alla fabbricazione di documenti falsi da parte di Fiorani per sanare la situazione patrimoniale mi convinsi a dare l’autorizzazione. Ma la mia decisione si formò al di fuori di qualsiasi complicità...». Il Pm Fusco insiste su un particolare: perchè, si chiede, la Consob avviò un’ispezione e si accorse del famoso «concerto occulto» (ovvero la scalata segreta attraverso clienti compiacenti del pacchetto Antonveneta) fin dal maggio del 2005 mentre Bankitalia rimase inerte fino a luglio? Ma è una domanda che ottiene risposte vaghe: «Quello era un compito della Consob a noi spettava solo il controllo dei ratios patrimoniali». E quindi: «Costituì una sorpresa il fatto che la Consob rilevasse la sussistenza di un patto parasociale non dichiarato tra Bpl e altri soggetti...». E cosa fece Fazio? «Io immediatamente invitai Fiorani ad adeguarsi alla legge». Il resto, come si sa, lo fecero i furbetti del quartierino.

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«Consorte sincero, fu una partita politica. Io dissi no a poli di finanza rossa nel Pd»

Corriere della Sera del 22/09/2009 ,

articolo di Sergio Rizzo  ed. NAZIONALE  p. 15

 

Rutelli: il fallimento delle cordate non trasparenti del 2005 è stato un bene Da quei fatti abbiamo imparato molto ed è un segno positivo di rimescolamento politico che oggi Fassino sostenga con me Franceschini

ROMA - Quattro anni dopo Francesco Rutelli è disposto a concedere l'onore delle armi a Giovanni Consorte, ex numero uno di Unipol ora rinviato a giudizio per l'Opa sulla Bnl, che ieri lo ha tirato in ballo per essere stato uno dei suoi più fieri oppositori. «Consorte dà prova di sincerità. La nascita di un grande gruppo finanziario legato alla tradizione del vecchio partito comunista e delle coop rosse era una chiara partita politica», dice l'ex vicepresidente del consiglio del governo di Romano Prodi.
Cos'è cambiato dall'estate del 2005?
«In Italia molte cose. A livello del mercato globale, invece, purtroppo no. Anche dopo l'esplosione della crisi finanziaria restano aperti molti interrogativi, che riguardano per esempio i bonus e l'uso dei derivati, per cui non sono state tracciate ancora nuove regole. Tutti guardano al G20 di Pittsburgh perché si possa prevenire un altro choc, che purtroppo non si può affatto escludere».
Restiamo in Italia.
«Da quelle vicende indubbiamente abbiamo imparato tanto. Prima di tutto, che un leader politico parla con chiunque, ma non può né deve benedire scalate o cordate industriali».
Le ricordo che poco più di un anno fa la cordata per l'Alitalia è stata benedetta addirittura da Silvio Berlusconi.
«Un metodo sbagliato, e un'operazione industriale che finora fa rimpiangere il mancato accordo con Air France. Tornando al tema, lo scenario delle nostre banche è oggi completamente diverso. Allora si scoprì che l'arbitro, il governatore di Bankitalia, era in campo con la sua squadra. Ora con Mario Draghi la musica è radicalmente cambiata. Abbiamo avuto significative aggregazioni. Intesa San Paolo. Unicredit. Non c'è più la Banca di Roma e non mi sembra una cosa da poco».
Perché cita questo esempio?
«Per dire in che modo le fusioni abbiano modificato la situazione, con la nascita di due grandi gruppi e l'assorbimento di storici istituti».
Mentre la Bnl è finita ai francesi. E a caro prezzo. Col senno del poi, è stato un bene?
«Il fallimento delle cordate combinate e non trasparenti è stato un bene. Certo, tutti hanno pagato molto caro quello che hanno comprato. Il Monte dei paschi di Siena ha pagato cara l'Antonveneta, e Bnp Paribas ha pagato cara la Bnl. Certamente, se queste operazioni fossero state fatte solo un po' più tardi i prezzi sarebbero stati diversi. Ma questo è il mercato, e la politica non ci deve entrare. E non mi pare proprio che il panorama italiano sia mutato in peggio».
Consorte dice che chi allora criticava l'italianità difesa da Antonio Fazio si è pentito.
«Italianità? La verità è che nel 2005 ci siamo trovati di fronte all'ultimo capitolo del collateralismo fra politica e affari. Di tutto avevamo bisogno tranne che di un polo della finanza rossa».
Niente da dire su quella bianca?
«Oggi c'è un importante sistema finanziario legato alle cosiddette cooperative bianche, ma non è un esempio di collateralismo. Le Bcc sono piccole, legate al territorio e non ai partiti. In fondo il fallimento della scalata ha segnato un ripiegamento dalla logica secondo cui la politica aveva le sue cinghie di trasmissione nel sindacato, negli affari...»
Nei furbetti del quartierino...
«Ricordo che nelle intercettazioni qualcuno di loro domandava all'altro: "che vor dì hedge fund?". E intanto li usavano, con grandi profitti. Ebbene, proprio il caso dei furbetti ha fatto aprire a molti gli occhi sulla speculazione finanziaria».
C'è chi dice che la scalata fallì per uno scontro politico nel nascente Pd.
«Se si riferisce a Consorte, non ho mai polemizzato con lui e non ho un motivo per non augurami che possa dimostrare la propria innocenza».
Però allora lo contrastò.
«Eccome. Ero convinto che nel nascere il Partito democratico dovesse liberarsi da ogni collateralismo, con le cooperative, la Cgil e il patrimonio del vecchio Pci. Serviva una forte discontinuità. Altrettanto criticabile sarebbe stato un tentativo di rilanciare il collateralismo con la Cisl o le coop bianche».
E com'è finita?
«Il collateralismo con le cooperative rosse non esiste quasi più. Il rapporto con la Cgil sta lentamente evolvendo in modo positivo. Mentre il problema del patrimonio del vecchio Pci è lì, silente. Perché quella eredità di 2400 immobili, una volta smaltiti i debiti, lascia in campo una potenzialità molto rilevante con cui la politica deve fare i conti».
Anche lei ritiene come Franceschini che quel patrimonio debba essere ricondotto nell'alveo del nuovo partito?
«È un fatto con il quale il partito si dovrà misurare».
Le vicende del 2005 non hanno fatto venire al pettine tutti i nodi che la nascita del Pd non ha mai risolto?
«Il problema è sempre lo stesso: più che la fusione dei partiti fondatori, come si inizia un nuovo percorso politico. È l'argomento di un libro che ho scritto ed esce fra otto giorni: La Svolta, lettera a un partito mai nato».
Il titolo è tutto un programma. Intanto mi pare che Fassino, il quale all'epoca giudicò positivamente la scalata dell'Unipol, abbia il suo stesso candidato per la segreteria: Franceschini.
«Un altro segno positivo di rimescolamento politico. Bisogna vedere se questo processo arriverà al traguardo. La partita non è conclusa, ma non ho mai nascosto dubbi e preoccupazioni».
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Le frasi

L'intervista
Giovanni Consorte, ex numero uno di Unipol rinviato a giudizio per l'Opa lanciata nel 2005 sulla Bnl, ha spiegato in un'intervista al Corriere della Sera che «Fazio aveva ragione», «quando Unipol ha lanciato l'Opa sulla Bnl i soloni discettavano sul libero mercato e respingevano la difesa dell'italianità. Oggi sono tutti d'accordo nel sostenere il contrario»; «hanno voluto sottrarre Bnl alle cooperative. Chi? Si rifletta su Rutelli: eravamo sotto elezioni ed era stata avviata la costruzione del Pd»

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"La Stampa", 19 Settembre 2009, pag. 13

L’ex Ad del gruppo assicurativo replica: «Lo scempio fu fermare il nostro progetto»

Mattoni & milioni, quell’estate che scosse politica e finanza

Il “contropatto” con l’ex Governatore sfidò gli spagnoli del Bbva

Per Roma e Antonveneta storie parallele e profitti in nome dell’italianità

Bnl, Fazio e Consorte a processo

FRANCESCO MANACORDA
MILANO

 

FRANCESCO SPINI
MILANO


Quando il primo febbraio si aprirà a Milano il processo sulla tentata scalata di Unipol a Bnl - correva l’anno 2005 - alla sbarra si ritroveranno i protagonisti di quella passata alle cronache come l’estate dei furbetti. Tra i 28 rinviati ieri a giudizio, di cui 7 sono società, - su 45 richieste dei pm - decisi dal gup Luigi Varanelli spiccano anzitutto i nomi dell’ex governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio, e il già numero uno di Unipol, Giovanni Consorte.
Non c’è invece quello di Gianpiero Fiorani. L’ex numero uno della lodigiana Banca Popolare Italiana, ha patteggiato 6 mesi di reclusione, convertiti poi in una pena pecuniaria di 13.680 euro. Stessa scelta dell’ex banchiere per il suo braccio destro del tempo, l’allora direttore finanziario di Bpi Gianfranco Boni, (due mesi di reclusione) e lo stesso istituto di credito (ora parte del gruppo Banco Popolare) che dovrà sborsare 228 mila euro.
A fare compagnia a Fazio e Consorte, nel nutrito parterre degli imputati (le accuse sono di aggiotaggio e ostacolo alle autorità di vigilanza, l’insider trading è contestato al solo Consorte), ci saranno poi molti protagonisti della stagione che vide gli immobiliaristi del contropatto e poi Unipol, con l’appoggio di banche e della stessa Bankitalia, sbarrare la strada agli spagnoli del Bbva, sbandierando l’italianità di Bnl. Sarà davanti al giudice l’ex capo della Vigilanza di Via Nazionale, Francesco Frasca. Ci saranno poi contropattisti, tra cui Francesco Gaetano Caltagirone, e gli immobiliaristi come Danilo Coppola, Stefano Ricucci e Giuseppe Statuto, fino all’europarlamentare Pdl Vito Bonsignore e ai fratelli Lonati. Capitolo banche: rinviati a giudizio, tra gli altri, il presidente di Carige, Giovanni Berneschi, il collega della Popolare di Vicenza, Gianni Zonin e l’allora dg, Divo Gronchi e l’ex ad Bper Guido Leoni. Tra le straniere sarà a processo, come persona giuridica, Deutsche Bank, mentre sono state prosciolte Nomura e Credit Suisse, così come, tra le persone, Marcellino Gavio. Rinvio invece per Emilio Gnutti, con la sua Hopa, e per Unipol con l’attuale presidente Pierluigi Stefanini (allora a capo della holding Holmo), il direttore generale Carlo Cimbri e l’ex ad, al fianco di Consorte, Ivano Sacchetti.
Se Consob e Bbva sono già parte civile, si vuole costituire come tale anche il Codacons: per un processo a rischio di prescrizone: difficilmente arriverà fino alla Cassazione. Consorte è tra i pochi a reagire. Ribadisce la sua «totale estraneità», si dice «amareggiato» per la decisione che però «mi consente di rappresentare finalmente all’opinione pubblica lo scempio che è stato fatto di una iniziativa industriale». Scempio «che ha tolto risorse al Paese» e per cui ora vorrebbe l’«individuazione delle responsabilità e dei responsabili».
Solo una manciata di anni, ma in fondo un’era intera. L’ultima mossa del Tribunale di Milano - a Roma in luglio c’è stata la chiusura delle indagini per un procedimento parallelo sullo stesso caso - riapre la stagione indimenticabile delle scalate «gemelle» alla Bnl e ad Antonveneta e riporta d’attualità la vicenda dei «contropattisti» che a metà del 2004 e fino all’estate 2005 tentarono l’assalto proprio alla banca romana, forti anche della benedizione dell’allora Governatore di Bankitalia Antonio Fazio. Una squadra, quella dei contropattisti, guidata da Francesco Gaetano Caltagirone e alla quale si associano i nomi più celebri di una breve stagione del mattone - Danilo Coppola, Giuseppe Statuto, poi anche Stefano Ricucci - e cultori della finanza di lungo corso come i fratelli Lonati o l’ubiquo Vito Bonsignore, che si oppone alle mire del socio Bbva, a sua volta alleato con campionissimi dell'establishment finanziario come le Generali e Diego Della Valle. Decisiva, secondo le ricostruzioni della magistratura, l’alleanza dei contropattisti con Fazio - desideroso di non vedere la Bnl finire nelle mani degli spagnoli - e decisivo anche l’intervento dell’Unipol che prima si muove con una rete di alleanze più o meno occulte per consolidare la sua posizione nell’azionariato della Bnl e contrastare quindi l’offerta pubblica che intanto il Bbva ha lanciato, e poi muove a sua volta con un’Opa acquistando il 24% da Caltagirone e soci e ricoprendoli di plusvalenze da record. Le intercettazioni ordinate dalla magistratura consegneranno ai posteri anche un istruttivo spaccato dei rapporti tra politica - in questo caso i ds Massimo D’Alema, Piero Fassino e Nicola Latorre - e la finanza «di partito» impersonata dall’allora amministratore delegato di Unipol Giovanni Consorte. Poi, proprio per le modalità di quella scalata fatta da Consorte, le prime indagini della magistratura, che si intrecciano rapidamente con quelle su Antonveneta, mentre la Bnl finisce - colpo di scena - a Bnp-Paribas
Certo, a guardarlo con il telescopio da questa fine estate 2009 e dopo che nel sistema mondiale sono esplose molte meteore finanziarie, la grande partita - con carte spesso truccate - di quattro anni fa, appare adesso lontanissima e per certi versi incomprensibile con le voglie dei banchieri - italiani e stranieri - di crescita dimensionale a qualsiasi costo, con la rimonta in apparenza inarrestabile dei valori immobiliari che arricchiva sulla carta gli uomini del mattone, con i titoli delle banche prese di mira che correvano a cavallo della speculazione. Diversi sono stati anche i destini dei protagonisti di quella stagione frenetica. Proprio Fazio, ad esempio, fa vita ritirata, ma non estranea ai circoli del potere finanziario ed ecclesiastico. Emilio Gnutti e i Lonati, all’estremo opposto rispetto all’ex inquilino di via Nazionale, sembrano scomparsi dai radar della finanza che conta, financo nella natia Brescia dove la loro Hopa ha subito il contrappasso del salvataggio «di sistema». Via dagli schermi anche i «mattonari», ormai relegati tutt'al più a qualche cronaca mondana o giudiziaria. Poca sorpresa se tra chi è uscito quasi indenne dalla vicenda c’è un contropattista della prima ora come il prudente Caltagirone, che resta parte integrante dell’establishment finanziario grazie a una nuova propensione per le rive triestine rispetto alle banche capitoline.
Consorte invece no, lui non è certo pacificato. L’ingegnere chimico che nel mondo della finanza era arrivato da outsider tramite Unipol resta tale anche ora che, alla guida della sua piccola Intermedia, si batte non solo nel campo degli affari e in tribunale, ma anche per ristabilire una verità che ritiene violata dalle ricostruzioni giudiziarie.

 


Il 2005
L’anno della scalata
Unipol prova a bloccare l’offerta annunciata dal Banco di Bilbao per acquisire il controllo della Banca Nazionale del Lavoro.

Gli indagati
45 persone fisiche e giuridiche
Tra loro l’ex ad di Unipol Giovanni Consorte, Ivano Sacchetti - all’epoca il suo vice - l’ex governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio, l’ex ad di Bpi Gianpiero Fiorani, il finanziere bresciano Emilio Gnutti e gli immobiliaristi Stefano Ricucci e Danilo Coppola. Accusati, a vario titolo, di aggiotaggio, ostacolo all’attività degli organi di vigilanza e insider trading.


La prima udienza
Al via il primo febbraio 2010
Dopo l’udienza preliminare di ieri si tornerà in aula il prossimo primo febbraio.

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"La Repubblica", SABATO, 19 SETTEMBRE 2009
Pagina 23 - Economia
 
Scalata Bnl, a processo Consorte e Fazio
Rinviati a giudizio anche Caltagirone, Coppola e Ricucci. Fiorani patteggia
Il 1o febbraio del 2010 via alle udienze contro i protagonisti del tentativo di Unipol
L´ex numero uno della Bpi esce di scena: due anni tramutati in una pena pecuniaria
 
WALTER GALBIATI
MILANO - Nomi altisonanti di banchieri, imprenditori e immobiliaristi. Il giudice per l´udienza preliminare, Luigi Varanelli, non ha risparmiato molti (14 su 45 indagati), se non qualche pesce piccolo, dal rinvio a giudizio. Nemmeno alcuni di quelli per cui i pubblici ministeri, Luigi Orsi e Gaetano Ruta, avevano chiesto il proscioglimento. Così, per la scalata occulta alla Banca Nazionale del Lavoro promossa dalla Unipol di Giovanni Consorte, andranno davanti al giudice buona parte dei protagonisti di quell´estate da furbetti, quella del 2005, l´estate in cui le parallele e contemporanee scalate alla banca romana, alla Banca Antonveneta e al Corriere della Sera stavano ridisegnando il potere economico e finanziario italiano.
Oltre all´ex numero uno della compagnia assicurativa bolognese, dovranno affrontare il processo per aggiotaggio l´allora governatore e il capo della vigilanza della Banca d´Italia, rispettivamente Antonio Fazio e Francesco Frasca, l´imprenditore Francesco Gaetano Caltagirone, il vicepresidente del Partito popolare europeo e membro del Pdl, Vito Bonsignore, i banchieri Giovanni Berneschi (Carige), Guido Leoni (Popolare dell´Emilia), Divo Gronchi e Giovanni Zonin (Banca Popolare di Vicenza), i rappresentanti del mondo cooperativo, Ivano Sacchetti, Carlo Cimbri e Pierluigi Stefanini (il pm per lui aveva chiesto il non luogo a procedere). Al loro fianco sederanno come imputati, immobiliaristi e affaristi di ogni genere, tra i quali Danilo Coppola, Giuseppe Statuto, Stefano Ricucci, Emilio Gnutti, per il quale la procura aveva chiesto il proscioglimento e i fratelli Ettore e Tiberio Lonati.
Escono di scena, Gianpiero Fiorani e Gianfranco Boni, ai tempi ai vertici della Popolare Italiana. Il primo con un patteggiamento di sei mesi, tramutati in pena pecuniaria e il secondo con due mesi, pene per entrambi in continuazione con quelle già patteggiate per la scalata ad Antonveneta. Tra le banche estere finanziatrici di Consorte, Deutsche Bank dovrà rispondere per la responsabilità dei propri dirigenti, mentre Nomura e Credit Suisse sono state prosciolte. Non subirà il processo nemmeno l´imprenditore Marcellino Gavio, che partecipò agli acquisti di azioni Bnl.
Le udienze inizieranno il primo febbraio 2010. Al centro del dibattimento ci saranno le modalità con cui la Unipol di Giovanni Consorte riuscì ad ottenere il controllo della Banca Nazionale del Lavoro in barba al Banco di Bilbao. Secondo l´accusa, Unipol acquistò di concerto e occultamente con la Banca Popolare Italiana, la Popolare di Vicenza, la Carige e la Popolare dell´Emilia un numero di azioni di Bnl (24,1%) che sommata a quella dei "controppatisti" (26,7%) permise a Consorte di raggiungere la maggioranza in assemblea, superando il 50% del capitale. L´accusa è anche di aver divulgato comunicati «reticenti e non veritieri», perché non informavano il mercato di notizie tanto importanti da poter influire sull´andamento dei prezzi dei titoli. Consorte, Sacchetti e Cimbri sono anche accusati di aver ostacolato le funzioni dell´autorità di vigilanza e il solo Consorte di insider trading per le telefonate con il parlamentare Ds Nicola Latorre.
«Accolgo con sorpresa e stupore la decisione del Gup del Tribunale di Milano. Sono estraneo ai fatti e reduce da 10 tra archiviazioni e proscioglimenti e continuerò ad avere fiducia nei magistrati. Sono certo che i fatti in sede di dibattimento mi daranno ragione» ha dichiarato Consorte, dopo il rinvio a giudizio, certo che gli verrà permesso di fare piena luce su «un lungo elenco di disattenzioni, omissioni e forzature procedurali».

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http://www.corriere.it/cronache/09_settembre_18/scalata_unipol_processo_fazio_fiorani_c1ff147a-a43a-11de-a9bb-00144f02aabc.shtml

 

Il processo inizierà il prossimo primo febbraio

 

Scalata Unipol a Bnl, a processo Consorte, Coppola e l'ex governatore Fazio

Fiorani ha patteggiato: 6 mesi di reclusione convertiti in una sanzione pecuniaria da 13.680 euro

 

MILANO - Si è conclusa con 28 rinvii a giudizio, 14 proscioglimenti e 3 patteggiamenti, l'udienza preliminare davanti al gup Luigi Varanelli per la tentata scalata della compagnia assicurativa Unipol su Bnl nel 2005. Tra i prosciolti, figurano l'imprenditore Marcellino Gavio e le società Coop Estense, Nuova Coop, Talea, Sias, Nomura International e Credit Suisse First Boston. Oltre a Fiorani, hanno patteggiato la pena Bpi (sanzione pecuniaria di 228.148 euro) e l'ex braccio destro di Fiorani, Gianfranco Boni (due mesi di reclusione in continuazione con due condanne già subite in precedenza). Saranno invece processati a partire dal primo febbraio, tra gli altri, Antonio Fazio, Francesco Gaetano Caltagirone, Danilo Coppola, Stefano Ricucci, Carlo Cimbri, Emilio Gnutti, Giovanni Berneschi, Francesco Frasca. Le accuse a vario titolo erano quelle di insider trading, aggiotaggio e ostacolo all'autorità di vigilanza.

FIORANI PATTEGGIA - L’ex numero uno di Bpi Giampiero Fioraniha patteggiato la condanna a 6 mesi di reclusione convertiti in una sanzione pecuniaria da 13.680 euro. Alla vigilia della decisione del gup Fiorani aveva revocato il patteggiamento ma il giudice Luigi Varanelli ha ratificato ugualmente l’accordo sulla condanna raggiunto tra la difesa dell’imputato e la procura di Milano.

18 settembre 2009

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"La Repubblica", GIOVEDÌ, 09 LUGLIO 2009
Pagina 26 - Economia
 
Gli olandesi volevano crescere in Italia unendo l´istituto veneto con Capitalia e controllando il 20%
"Fazio contro Abn, aveva altra idea"
Al processo Antonveneta le testimonianze di Geronzi, Doris e Benetton
 
WALTER GALBIATI
MILANO - «Per Antonveneta c´è un´altra soluzione». Con queste poche parole l´ex governatore della Banca d´Italia, Antonio Fazio, blocca nell´autunno 2004 le mire degli olandesi di Abn Amro sull´istituto. Sono parole pronunciate in un incontro riservato – e ricostruito ieri nel processo per aggiotaggio di Milano – con Cesare Geronzi, allora presidente di Capitalia, allora partecipata con l´8% da Abn. È lo stesso Geronzi a parlarne in qualità di testimone: «Gli olandesi volevano crescere in Italia, unendo Antonveneta, in cui possedevano il 20% della società, con Capitalia. L´intenzione era di arrivare al 20% del capitale della nuova banca. Fazio però era contrario. Non voleva che gli olandesi superassero il 15%». Nella ricostruzione del banchiere romano, Fazio era rimasto impressionato negativamente dall´ostinazione con cui gli olandesi volevano salire a tutti i costi fino al 20% di una banca italiana, soglia troppo elevata.
Il progetto di Abn nasce già nel 2004, contemporaneamente a quello della Banca Popolare di Lodi di Gianpiero Fiorani. «Antonveneta andrà a qualcun altro», disse Fazio a Geronzi e non era difficile capire chi era. «Nel sistema bancario, tutti sanno tutto di tutti», ha spiegato Geronzi, alludendo alle mire di Fiorani. «Una volta avuto lo stop da Fazio, però, non me ne sono più occupato», ha aggiunto. Sulle vicende del 2004, che preludevano allo scontro per Antonveneta (finito con le dimissioni del governatore, il rinvio a giudizio di 17 imputati e il patteggiamento di altri 58 per aggiotaggio), ieri sono stati chiamati a testimoniare anche Ennio Doris e Gilberto Benetton, allora in possesso rispettivamente dello 0,5% e del 5% di Antonveneta.
«Da sempre, lo dissi anche a Silvano Pontello pochi giorni prima della sua morte, volevo una soluzione italiana per Antonveneta», ha detto Doris. Una linea mantenuta anche nei due incontri con Fazio nell´autunno 2004. «Il governatore non lo disse mai direttamente, ma dopo aver ascoltato le mie intenzioni su Antonveneta, cioè che volevo vendere, aveva annuito e parlato della necessità di mantenere l´italianità del sistema bancario», spiega Doris, aggiungendo che Fazio più che dire lanciava messaggi.
Un messaggio recepito anche da Gilberto Benetton, anche lui presente all´incontro a Roma con Fazio. «Il messaggio dell´ex governatore della Banca d´Italia, Antonio Fazio, era uno: quello dell´italianità, ovvero che la banca restasse italiana», ha detto Benetton al giudice. «La nostra intenzione era invece quella di vendere al miglior offerente, chiunque esso fosse». La famiglia veneta aveva vincolato il 5% di Antonveneta a un finanziamento ottenuto dalla Banca di Lodi da 325 milioni di euro, necessari a sottoscrivere l´aumento di capitale di Olimpia, holding che controllava Telecom. Il valore implicito dei titoli era 22 euro per azione. «Alla fine abbiamo venduto a Fiorani a 26,2 euro, ma se gli olandesi ci avessero offerto 27 euro, avremmo dato i titoli a loro».

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"La Stampa", 09 Luglio 2009, pag. 32

LE RIVELAZIONI DELL’ALLORA PRESIDENTE DI CAPITALIA AL PROCESSO PER LA SCALATA OCCULTA

Geronzi: “Su Antonveneta Fazio parlò di un’alternativa ad Abn”

Gilberto Benetton: «L’ex governatore era per l’italianità della banca»

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PAOLO COLONNELLO
MILANO


«Incontrai il governatore nell’autunno del 2004 per la questione Antonveneta e mi disse che c’era un’altra soluzione rispetto a Abn Amro». Al processo per la scalata occulta di Antonveneta dei «furbetti del quartierino», sfilano, come testimoni, i personaggi eccellenti della finanza: dal presidente di Mediobanca, Cesare Geronzi, a quello di Mediolanum, Ennio Doris, fino al re delle autostrade, Gilberto Benetton. Il punto, per il tribunale, è capire quanto Antonio Fazio, l’ex governatore di Bankitalia, fosse a conoscenza dei progetti di scalata occulta dell’ex enfant prodige della Popolare di Lodi, Gianpiero Fiorani.
Quel “Gianpy” tanto introdotto nella famiglia Fazio da essere omaggiato di una telefonata notturna, prima dell’apertura dei mercati, dallo stesso governatore che gli annunciava il via libera all’Opa su Antoneventa che lo avrebbe portato a trasformare la Popolare di Lodi nella più grande banca del Nord. «Tonino ti bacio in fronte», rispose Gianpy. E allora, quanto sapeva Fazio dei progetti di Fiorani? Tanto secondo l’accusa. Un po’ meno, secondo gli uomini potenti «del sistema» sfilati ieri a palazzo di giustizia. O meglio: «tutti sapevano tutto di tutti», specifica Geronzi, perché la scalata di Antonveneta rappresentava «un oggetto del desiderio» che faceva gola a tanti. Ma il potentissimo Geronzi, così come Doris e Benetton, ieri hanno voluto lasciare un certo margine di ambiguità sul coinvolgimento di Fazio nei progetti occulti di Fiorani.
Domanda il pm Gaetano Ruta: «Gli disse Fazio quale era la soluzione alternativa agli olandesi?». «Non disse altro», risponde Geronzi. Ricorda: «Era nota l’intenzione della Popolare di Lodi di fare un’operazione che permettesse d’insediarsi in un territorio ricco come quello del Nord-Est». Geronzi, che all’epoca era presidente di Capitalia, partecipata dagli olandesi di Abn Amro in corsa per Antonveneta, ha quindi revocato il suo atteggiamento: «Ho cercato di stare in disparte. Mai mi sarei permesso di dire al governatore di fare o non fare. In quel periodo storico si riteneva che dopo un grosso periodo di ristrutturazioni, dal 1993 in poi, Bankitalia immaginasse un periodo di riflessione».
Il governatore appariva come una Sfinge: non parlava ma annuiva, non diceva ma faceva intendere. Almeno così lo ricorda Doris di Mediolanum che con l’inquilino di Palazzo Koch ebbe due incontri nel dicembre 2004: «Al secondo di questi incontri - rammenta - vidi il governatore e Frasca (capo degli ispettori, ndr) insieme a Benetton. Si arrivò a parlare di Antonveneta e io gli espressi la mia preferenza per la soluzione italiana. Fazio non prese posizione apertamente, ma annuiva a ciò che dicevo. Tanto che appena usciti, io e Benetton ebbimo l’impressione dai suoi atteggiamenti, sorrisi e gesti, che avesse un orientamento più favorevole all’italianità della banca». Conferma anche Benetton: «il messaggio del governatore era uno, quello dell’italianità. Ovvero che banca Antonveneta restasse italiana e rimanesse in una certa maniera».

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"La Stampa", 24 Maggio 2008, pag. 13

I destini “strappati” del clan dei furbetti

La storia
Ascesa e caduta di un gruppo di potere

FRANCESCO MANACORDA
MILANO

Di qua i salesiani, di là le Ferrari chiuse in garage assieme a mille rimpianti, dall’altra parte ancora la folle estate lelemoresca. Ecco, è come se la foto-icona che fissava incappottati e sorridenti Antonio Fazio, Chicco Gnutti e Giampiero Fiorani - nell’inverno 2002, agli albori di quell’incredibile avventura che nel 2005 fu la scalata all’Antonveneta - fosse adesso strappata in mille pezzi e ciascuno dei suoi protagonisti tornasse nel proprio habitat naturale. Ora che la Procura di Milano rinvia a giudizio l’ex Governatore della Banca d’Italia ed altri diciassette imputati, e mentre un’altra sesssantina ha già patteggiato, è come se quel mondo che sta tutto in un’etichetta - «furbetti» - da molti rifiutata potesse davvero cominciare a tirare le somme e a dividere i propri destini. Come accomunare adesso i sodali di un tempo quando Luigi Grillo è freschissimo presidente di Commissione parlamentare e Fiorani sembra ripiombato nell’oscurità, scomparso anche a Lodi? Come mettere ancora in parallelo i destini di Giovanni Consorte, che costretto ad abbandonare l’Unipol lancia una nuova merchant bank e schiva la malattia che l’ha colpito, e quelli di uno Zunino che resta grande azionista di Mediobanca e vede gli istituti di credito rinnovargli mezzi e fiducia?
I salesiani per l’appunto, sono l’approdo dell’ex Governatore. Lui, che da tre anni fa vita ritiratissima e ha deciso di difendersi «nel» e non «dal» processo, passa le giornate, oltre che a leggere le carte giudiziarie, coltivando i suoi amati studi di econometria e soprattutto dedicandosi ai temi religiosi. Per questo la sua firma è apparsa assieme a quella di altri 53 professori dell’Università Pontificia Salesiana nell’opera «Ubi Petrus, ibi Ecclesia. Sui sentieri del Concilio», donata al Santo Padre per il suo ottantesimo compleanno. Per contro le sue uscite pubbliche sono quasi inesisistenti. Un’apparizione a sorpresa tra i banchieri che lo acclamano in un convegno a Lerici, un fugace passaggio preelettorale a una manifestazione antiaborto di Giuliano Ferrara.
Un «buen retiro» che sa tanto di sconfitta - aggravata da qualche problema di salute - è invece quello di Chicco Gnutti nella villa con vista sul Lago di Garda. Mentre la sua Hopa, costretta a ripianare i debiti con le banche, è ormai in via di dismissione dopo aver dovuto cedere le partecipazioni bancarie e pure quelle in Telecom, anche la Mille Miglia che da qualche anno si era trasformata in precisissimo termometro delle fortune della «razza padana» quest’anno ha corso senza Gnutti & Co. Mentre i furbetti invecchiano e i corsi immobiliari e delle azioni crollano, del resto, tocca riscrivere anche una geografia dell’Italia finanziaria che all’epoca sembrava rivoluzionata: Zagarolo non è più la patria del raider-odontotecnico Stefano Ricussi e torna ad essere quella dell’«Ultimo tango» versione Ciccio e Franco, Brescia e Lodi si ritrasformano da capitali della finanza a operose città della provincia lombarda. Perfino la Costa Smeralda dovrà quest’estate fare a meno di quei volti che trasmigravano senza soste intermedie dalle pagine del Sole 24 Ore a quelle di Novella 2000 e Chi. Indimenticabili, la scorsa stagione, le performances fotografiche proprio di Fiorani, ritratto nei possedimenti di Lele Mora in teneri atteggiamenti con Nike Rivelli, ma anche fianco a fianco con il «tronista» Costantino. Salvo poi scoprire, come hanno fatto i pm, che negli stessi mesi l’ex reuccio di Lodi tentava la scalata alla Banca del Titano.
Destino di alcuni, quello di non deludere mai le aspettative del pubblico che ormai li segue appassionato. Il campione indiscusso della categoria, ad esempio- che fu, è e probabilmente sarà sempre Ricucci - continua a navigare spavaldo tra un matrimonio finito con Anna Falchi e uno annunciato con la bellissima paraguaiana Claudia Galanti. Nozze da celebrarsi a luglio in Belize «perchè lì ci si può sposare dopo solo quindici giorni di separazione», spiega lui sempre di corsa, tentando nel frattempo di sistemare il proprio patrimonio immobiliare senza apparenti successi. Piega più «pulp» per Danilo Coppola - riapparso proprio ieri nei corridoi del Palazzo di Giustizia di Milano - passato per traversie medico-giudiziarie scandite dai comunicati della madre, ma senza disdegnare particolari gustosi come i cellulari con spia incorporata dati in uso alla moglie e a un’amica e anche lui al centro di strane offerte - rivelatesi poi false - per i suoi immobili. Ex furbetti o, forse, «furbetti forever».

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"La Repubblica", SABATO, 24 MAGGIO 2008

Pagina 1 - Prima Pagina

I personaggi

I furbetti e il governatore

ALBERTO STATERA

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L´onta che per la prima volta ha imbrattato i corridoi di palazzo Koch, descritti affettuosamente da Luigi Einaudi e da Donato Menichella ordinati e lindi come una chiesa laica, non guasterà sabato prossimo le «Considerazioni finali» del nono governatore della Banca d´Italia Mario Draghi.

Il rinvio a giudizio per gravi reati di diciassette persone, tra le quali Antonio Fazio, il predecessore cultore di San Tommaso, fedele partecipante alle messe riparatorie dell´onta laica di Porta Pia e intonante «Christus vincit, Christus regnat, Christus imperat», non avrà eco esplicita nel dire istituzionale dell´erede laico del banchiere centrale cattolico che doveva traghettare l´Italia di Tangentopoli verso i lidi dell´etica che fu propria di Stringher, Azzolini, Einaudi, Menichella, Carli, Baffi e Ciampi. E che invece, forse plagiato da affaristi ribaldi e truffaldini, condusse alla «Banda d´Italia». La consorteria che progettava di assaltare il cielo alla conquista del debole capitalismo italiano, senza capitali e senza etica, in una miscela tutta italiana di affari di Stato e affari di famiglia, di politica e religione, di velleitarismo e di scadente provincialismo.
Emilio Gnutti, Gianpiero Fiorani, Giovanni Consorte, Luigi Grillo, Luigi Zunino e via così: scorri i nomi dei rinviati a giudizio insieme all´ex governatore della Banca d´Italia Antonio Fazio - ex democristiani, ex comunisti, funzionari di partito, affaristi rampanti - e ti chiedi come soltanto tre anni fa, un secolo dopo Tangentopoli, i destini di questa nazione potessero ancora essere quasi nelle mani di un improbabile manipolo, poi denominato dei «furbetti del quartierino», ad opera del lessicalmente immaginifico Stefano Ricucci, che era sul punto di impossessarsi surrettiziamente di due grandi banche, l´Antonveneta e la Bnl, e del «Corriere della Sera». Con appoggi politici se non delinquenziali almeno superficiali.
Sabato Mario Draghi volerà alto, pur sapendo meglio di chiunque altro che l´operazione di pulizia fatta in casa, blindando l´ingresso di Palazzo Koch di via dei Serpenti - nomen omen - da cui transitavano gli incontri inconfessabili del suo predecessore, non è bastato a ricondurre il paese al rigore einaudiano. La storia del suo predecessore, il democristiano senza qualità nominato alla Banca d´Italia mentre la Dc moriva travolta da Tangentopoli, è la prova di come in questo paese tutto si perpetui sempre sotto diverse forme. Al governatore «straordinario», nel senso che non era stimato dalla borghesia etica ed elitaria ruotante intorno a Palazzo Koch, si opposero Carlo Azeglio Ciampi e tutto il cotè degli economisti di prima fila.
Ma, con il viatico del cardinale Camillo Ruini, dell´Opus Dei e delle massime gerarchie ecclesiastiche, alle candidature di Mario Monti e di Tommaso Padoa Schioppa, fu preferita quella di Fazio, l´adepto dei Legionari di Cristo, allievo di Modigliani, autore sì del modello econometrico della Banca d´Italia, come gli riconobbe Guido Carli, ma digiuno dei grandi principi, se non quelli della parrocchietta del suo paese nel Frusinate. Ma nessuno si scandalizzò quando nel 1993, in piena Tangentopoli, Fazio pronunciò queste testuali parole: «La rimozione delle pratiche consociative può avere un immediato effetto di freno sull´attività economica». Come dire che le tangenti facevano comunque girare l´economia nazionale. Einaudi si rivoltò porobabilmente nella tomba, di fronte a una dichiarazione che si potrebbe definire di «keynesismo delinquenziale».
Un vecchio democristiano e neoberlusconiano come Luigi Grillo, che pare - con alcuni altri - prendesse soldi per fare lobbying a favore dell´uomo più potente d´Italia, l´unico che ricopriva allora una carica «a vita», un vecchio comunista come Giovanni Consorte, che nutriva l´insano progetto di collocarsi al centro del capitalismo nazionale: sono questi che oggi finiscono a giudizio con Fazio, mentre il governatore del tentativo di restaurazione etica si appresta al suo appuntamento annuale.
Ma la scia è lunga, parte da lontano, almeno da quel giorno del giugno 2000 in cui le spoglie mortali di Enrico Cuccia furono seppellite sulle sponde del lago Maggiore. Seguivano compunti il feretro Antonio Fazio e Cesare Geronzi, che allora facevano ancora ticket, come si dice. Ma chi fra i due avrebbe riscosso l´eredità di regolatore del capitalismo nazionale fatto di capitalisti poveri e assai poco coraggiosi? Poi venne l´Antonveneta, la lotta per l´italianità della banca contesa dai calvinisti olandesi, di cui entrambi volevano la titolarità per farne in qualche modo lo snodo del capitalismo italiano, l´uno con il bellimbusto Gianpiero Fiorani, l´ex giornalista di provincia, il Fanfulla da Lodi che alla signora del governatore di Alvito protendeva omaggi costosi ed affettuosità, come se Tonino Fazio, l´uomo più potente d´Italia, fosse un vecchio zio un po´ grullo; l´altro con la sua creatura Capitalia, faticosamente creata sui resti del Banco di Roma e del Banco di Santo Spirito. Lo scontro divenne severo, a dispetto dello snodo delle tradizionali ideologie laico-borghesi e cattolico-solidaristiche. Fazio, dopo i bacetti telefonici di Fiorani, comincià a perdere tutto, insieme al bellimbusto di Lodi, a Ricucci, alla pletora di incredibili furbetti, ma non all´immarcescibile e costoso onorevole Grillo, che è stato appena eletto presidente di un´importante commissione parlamentare, in una eterna deriva andreottiana. Andreotti? E´ l´uomo di cui Fazio, poco più che infante, andava rapito a seguire da Alvito i comizi giovanili «nella vicina Sora».
Il cultore di San Tommaso e della adorazione perpetua nella chiesetta romana al Circo Massimo è ormai andato in pensione inseguito dai tribunali. Ma Cesare Geronzi vive e lotta insieme a noi. Dal suo ufficio di Roma, al Corso, si è trasferito armi e bagagli a Milano nel cuore del capitalismo a farne il grande regolatore, l´erede di Cuccia. Traccia gli scenari, decide se Berlusconi può definitivamente entrare con i suoi uomini nei veri salotti buoni, nonostante le poltrone Frau su cui siede nella pubblicità televisiva un po´ cheap l´uomo di Mediolanum, dà le direttive ai giovani Balbinot e Perissinotto laggiù a Trieste, tramite gli amici francesi.
Archiviata l´ombra di Antonio Fazio da Alvito, rinviato ieri a giudizio, è Cesare da Marino che Draghi avrà sabato prossimo, attento in prima fila, nella sala delle «Considerazioni finali» come grande regolatore del nostro piccolo capitalismo.

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"La Repubblica", SABATO, 24 MAGGIO 2008

Pagina 13 - Economia

Scalata Antonveneta, Fazio a processo
A giudizio anche Fiorani, Grillo, Frasca, Zunino, Sacchetti e Consorte

WALTER GALBIATI

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MILANO - Rinviato a giudizio l´ex governatore della Banca d´Italia, Antonio Fazio. E con un´accusa pesantissima: aver manipolato il mercato. Lui che doveva essere uno dei garanti del risparmio, in quanto numero uno della vigilanza bancaria, avrebbe invece contribuito a diffondere notizie false sulla scalata di Gianpiero Fiorani alla banca Antonveneta. Con lui, e con la stessa accusa, è stato rinviato a giudizio, oltre al banchiere lodigiano, anche Francesco Frasca, l´allora capo del servizio di Vigilanza della Banca d´Italia.
Ieri, il giudice Luigi Varanelli, ha chiuso l´udienza preliminare e ha disposto il rinvio a giudizio di 17 imputati, mentre ha accolto il patteggiamento di altri 58. Tutti implicati nell´impresa, avviata nel 2004 dalla Popolare di Lodi, di scalare occultamente la banca Antonveneta, il cui controllo era in mano a un patto di sindacato guidato dagli olandesi della Abn Amro. Fazio avrebbe favorito Fiorani a scapito dei concorrenti non solo partecipando a incontri segreti in cui veniva pianificata la strategia per scalare la banca, ma avrebbe addirittura ritardato a rilasciare le autorizzazioni all´Abn Amro per consentire a Fiorani il rastrellamento occulto delle azioni Antonveneta. A giudizio è finito anche il senatore del Partito delle Libertà e neo presidente della commissione Lavori pubblici, Luigi Grillo. Secondo l´accusa dei pm Eugenio Fusco e Giulia Perrotti, avrebbe fatto da tramite nelle comunicazioni tra Fazio e Fiorani, una sorta di piccione viaggiatore schermato dal suo "status" di parlamentare.
Il 23 ottobre davanti alla seconda sezione penale di Milano, ci saranno anche l´immobiliarista Luigi Zunino e altri due imputati eccellenti, sempre per aggiotaggio e per ostacolo alle Autorità di Vigilanza, Giovanni Consorte e Ivano Sacchetti: come amministratori della compagnia assicurativa Unipol avrebbero aderito al progetto di Fiorani, aumentando la partecipazione del gruppo bolognese in Antonveneta, ricevendo per questo anche del denaro.
I patteggiamenti, invece, hanno permesso di portare nelle casse dello Stato oltre 350 milioni di euro, una cifra record, nonché di snellire enormemente il processo. Alcuni imputati, infatti, come Fiorani, Consorte e Sacchetti, sono riusciti a patteggiare per alcuni reati, alleggerendo la propria posizione. Altri sono usciti completamente dalla vicenda. Emilio Gnutti, il raider bresciano ritenuto una delle menti della scalata, ha chiuso la pratica patteggiando una pena (coperta da indulto) di due anni e un mese e versando, attraverso due sue società, 28,5 milioni di euro. Gianfranco Boni, ex direttore finanziario della Bpi e braccio destro di Fiorani, ha lasciato il processo con una condanna a tre anni e mettendo a disposizione circa 6 milioni di euro. Gli immobiliaristi Stefano Ricucci e Danilo Coppola si sono accordati con la Procura rispettivamente per una pena di un anno e una confisca di 29 milioni e di otto mesi con 5 milioni di confisca e 14 per l´Agenzia delle Entrate.

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(14 settembre, 2007) Corriere della Sera

il senatore Luigi Grillo

«Ma non lasceremo che si ripeta il 1992»

MILANO - «Non lasceremo che si ripeta il ' 92, non voglio rivivere un' altra stagione in cui i magistrati distruggono il Paese. Siamo l' unico Stato del mondo in cui le scalate bancarie vengono decise dalle procure. Ora basta». Dall' accusa di essere stato uno dei «complici istituzionale» dell' assalto «criminoso» di Fiorani ad Antonveneta, il senatore Luigi Grillo, ex dc rieletto con Forza Italia, si difende attaccando. Mentre a Milano il gip Forleo tuona contro chi non accetta che la legge sia uguale per tutti, il parlamentare è a Roma, «in riunione», e tiene acceso il famoso telefonino che tanti guai è costato a lui e all' ex governatore Antonio Fazio. Senatore Grillo, il gip Forleo sembra far notare che per i comuni cittadini le intercettazioni valgono sempre, mentre voi parlamentari avete il privilegio di poterle distruggere. Lascerà le sue telefonate ai magistrati o no? «Sarò sentito in Senato martedì. Ma la mia posizione è pubblica: secondo me i parlamentari devono difendere con convinzione le loro prerogative». I suoi nemici diranno che ha qualcosa da nascondere. «Io non mi vergogno di nulla, ho riletto tutti gli atti e sono orgoglioso di tutto quello che ho fatto. Il governatore Fazio ha sempre agito per il bene del sistema bancario italiano e io l' ho detto di fronte al mondo, in Parlamento. Siamo accusati di concorso morale in un aggiotaggio che non c' è mai stato. L' unico tribunale che si è pronunciato ha dato ragione alla Bpl e torto agli olandesi. Era il progetto del mio Paese». Dopo il Tar, però, si è scoperto che Ricucci, ad esempio, comprava azioni Antonveneta a 21 euro con i soldi della Lodi e le rivendeva alla stessa Lodi a 26,50. «Io parlo per me e Fazio, Ricucci non lo conosco». Ma anche lei è accusato di aver preso soldi da Fiorani. «E' falso. Quando è stato scarcerato, ho citato Fiorani in tribunale e lui ha smentito di aver dichiarato ai pm di avermi dato soldi da girare al senatore Marcello Dell' Utri». Gli stessi pm hanno archiviato, ma continuano ad accusarla di appropriazione indebita: soldi della banca pilotati da Fiorani sul suo conto con operazione di Borsa truccate. «Sono tutte operazioni regolari. Lei fa il giornalista, ma io ho lavorato 25 anni in banca e so cos' è un conto corrente. Nel ' 92 un pm mi tenne sulla graticola due anni per un abuso d' ufficio inesistente, poi finalmente il tribunale mi ha assolto. Il gip Forleo la conosciamo tutti. Spero di trovare giudici sereni ed equilibrati che a Milano non ho ancora visto. Ora la Procura si è ridotta a imputarmi solo 44 mila euro in un anno e mezzo. Erano normalissime operazioni su titoli Unicredit, San Paolo e Banca Lombarda». I titoli su cui investiva e guadagnava li sceglieva lei o gli uomini di Fiorani? «Lei non è un magistrato, io a lei non rispondo». Dell' altra scalata incriminata, quella di Unipol alla Bnl, che cosa pensa? «Io sono di Forza Italia e non ne ho mai parlato con D' Alema, ma sono sempre stato favorevole. Era un progetto straordinario: unire una rete bancaria che andava malissimo, come dimostravano i controlli della Vigilanza di Fazio, a una compagnia assicurativa dinamica e vivace. Sarebbe stato il primo modello di banca-assicurazione in Italia». E la scalata di Stefano Ricucci alla Rcs-Corriere? «Non ho mai capito chi avesse dietro e dove trovasse risorse così grosse». Dietro, non si sa. Ma attorno aveva Comincioli e Livolsi. «E allora chieda a loro». E del suo quasi omonimo castiga-politici Beppe Grillo che ne dice? «Nell' 87 l' ho abbracciato, sono sicuro che a Genova allora molti mi hanno votato convinti di eleggere lui... E' una grandissimo comico. Ma in politica è un buffone».

Biondani Paolo

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"La Stampa", 14 Settembre 2007, pag. 6

BANCOPOLI

«Le banche hanno ammesso le proprie responsabilità, i loro complici no»

LA SENTENZA DEL GUP

La sfida: Le nuove accuse nelle motivazioni sulla sentenza di
patteggiamento della Popolare di Lodi

“Illeciti coperti dalle istituzioni”

PAOLO COLONNELLO
MILANO

Lei dice: «Ma sì, niente di speciale, tutte cose già scritte nelle vecchie ordinanze».
Ma quando si arriva a pagina 26, ecco che la motivazione depositata ieri della sentenza con la quale nel giugno scorso il gup Clementina Forleo ha accolto il patteggiamento della Popolare di Lodi e della consociata svizzera Bpl Suisse condannandole a una pena pecuniaria di un milione e 300 mila euro circa - grazie al maxi risarcimento offerto dall’istituto di credito di ben 94 milioni - si trasforma in una zampata che mette nuovamente in subbuglio il mondo politico.
Otto righe in tutto, non una di più. Però sferzanti: «Non può sottacersi - scrive a proposito del risarcimento fatto da Bpi - l’importanza di tale cospicuo versamento, traducendosi lo stesso in una evidente ammissione da parte dell’istituto in questione dell’illeicità dell’operazione che si stava conducendo per “scalare” altri istituti bancari in totale spregio delle regole poste a presidio del mercato - e con esso dei medi e soprattutto dei piccoli risparmiatori e investitori - con la complicità di esponenti del mondo istituzionale, alcuni dei quali pervicacemente riluttanti ad ammettere le proprie “debolezze” e ad accettare dignitosamente che in uno Stato di diritto debba valere il principio di cui all’articolo 3 della Costituzione». Laddove si scrive che «tutti i cittadini hanno pari dignità sociali e sono uguali davanti alla legge».
A chi si riferisce Clementina “terremoto” Forleo? Scorrendo le 25 pagine precedenti della motivazione, si parla in particolare dell’ex governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio e del senatore di Forza Italia, Luigi Grillo, indubitabili esponenti del mondo istituzionale che avrebbero «suscitato e rafforzato il progetto criminoso» dell’ex amministratore delegato della Popolare di Lodi Gianpiero Fiorani», «promuovendone la cooperazione nel reato». Si parla poi del ruolo dei vari manager dell’ex Bpl ora Bpi; del fraudolento rastrellamento delle azioni per la scalata occulta di Antonveneta; delle complicità dell’ex presidente di Unipol Giovanni Consorte e del suo vice, Ivano Sacchetti; dei “furbetti del quartierino”, gli immobiliaristi Coppola, Zunino, Ricucci; dei bresciani Gnutti e Lonati... Dunque, a rigore di logica e di inchiesta, è a tutti loro che si riferisce il giudice, mutuando effettivamente espressioni, in particolare quelle sulle «complicità istituzionali», riportate quasi con periodicità in ordinanze passate.
Eppure questa volta, nonostante si tratti d’inchieste diverse, c’è un dettaglio che estende le considerazioni del gip anche alle polemiche più recenti, e in particolare alla querelle suscitata dalla dura memoria depositata lunedì dal ministro degli Esteri Massimo D’Alema alla Giunta delle autorizzazioni della Camera che proprio in riferimento all’accusa di «complicità istituzionali», già contenuta nella richiesta del gip, rispondeva parlando di «asserzioni assolutamente stupefacenti e illegittime» (pag.4). Proprio all’inizio delle motivazioni, Clementina Forleo ricorda infatti che tutta la vicenda Antonveneta nasce nello studio dell’avvocato Guido Rossi, dove si presentò un funzionario della Bpl raccontando i primi retroscena del concerto occulto. Un esplicito rimando al ruolo di motore dell’indagine svolto dal professor Rossi, diventato però nel frattempo per la vicenda Unipol avvocato proprio di D’Alema che rischia, se la Camera concederà l’autorizzazione all’utilizzo delle intercettazioni, di essere iscritto nel registro degli indagati della procura milanese per aggiotaggio e insider trading. Quel riferimento poi alla «riluttanza» nell’ammettere «le proprie debolezze» e a non accettare il dettato dell’articolo costituzionale sull’uguaglianza di fronte alla legge, suona tanto come risposta alle accuse di «animosità», «illegittimità» e «ignoranza giuridica», rivolta dal presidente diesse alla Forleo: nella memoria di D’Alema si rivendicavano tra l’altro le prerogative e le guarentigie parlamentari ivi comprese quelle di essersi occupato della scalata Bnl, «un interesse assolutamente legittimo».
Polemiche a distanza che nulla cambiano nei fatti, in attesa di una decisione della Camera sulle intercettazioni e delle conseguenti determinazioni dell’accusa. La sentenza della Forleo fotografa soprattutto una mancanza di «cultura della legalità» nel passato della banca lodigiana che la restituzione delle plusvalenze realizzate con il tentativo della scalata Antonveneta, appunto i 94 milioni di euro, e il cambio dei vertici dell’istituto avrebbe sanato «prendendo così le distanze da chi tale cultura continua a rifiutare».

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"La Stampa", 28 Luglio 2007, pag. 5

Lo “stregone di Alvito” deluso dalla Chiesa

Personaggio: Antonio Fazio

GIACOMO GALEAZZI
ROMA

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All’amarezza per essere stato «ingiustamente colpito» dalla bufera giudiziaria che lo ha costretto alle dimissioni e per il mancato conferimento del titolo di Governatore onorario, si è aggiunta quella per il «grande freddo» in Curia. E la speranza - targata Vaticano - si è trasformata in profonda delusione. Si sono allentati i rapporti, un tempo strettissimi, con gli amici in clergyman: dal ministro vaticano per i Vescovi, il cardinale Giovanni Battista Re («guest star» alla festa del patrono di Alvito, san Valerio martire) all’Opus Dei, dal prelato della segreteria di Stato, monsignor Luigi Ginami, ai teologi sudamericani delle università pontificie.

Nella sua «aetas aurea», Fazio era conteso dalle università pontificie per i convegni sul suo prediletto San Tommaso e non mancava mai i dibattiti sullo stato sociale organizzati dalla Caritas, dalle Acli o dall’Unione dei giuristi cattolici, dall’associazione non profit «Giovanni XXIII», dalle facoltà di salesiani, gesuiti e benedettini. Di più. Arrivò persino a scatenare un’accesa discussione nell’aula di Montecitorio per la sua partecipazione alla messa di commemorazione dei caduti di parte papalina della breccia di Porta Pia, la volta in cui il principe Ruspoli chiese all’Onu di internazionalizzare Roma e di affidarla a un amministratore nominato dal Papa.

Adesso, ogni pomeriggio alla chiesa dei Santi Andrea e Claudio dei Borgognoni, nella centralissima piazza San Silvestro, i Padri Sacramentini lo attendono invano per la consueta recita dei vespri alle cinque e mezzo. Il suo banco abituale, il secondo a sinistra, sotto la tela dell’ascensione, è restato vuoto anche ieri. Resta il sodalizio con i Legionari (beneficiati anche, secondo un’intercettazione dell’inchiesta, da un finanziamento di Gianpiero Fiorani), con la moglie Maria Cristina Rosati che ne segue il percorso di fede e la figlia «signorina consacrata» che ha preso i voti dell’ordine di povertà, castità e obbedienza. Per il resto, un’assenza che suona come un distacco. «Prima veniva a pregare spesso nella basilica inferiore, adesso manca da molto», osserva il portavoce dei frati francescani, padre Enzo Fortunato. «Lo incontravo spesso, adesso non più», aggiunge l’arcivescovo cappuccino di Curia, presidente della «Peregrinatio ad Petri sedem» e delegato pontificio per la Basilica di Sant’Antonio.

E’ sfumata anche l’antica amicizia con l’Opus Dei, teatro delle sue appassionate conferenze agli studenti e nelle cui scuole ha fatto studiare il figlio. «Non è mai stato fra i nostri Cooperatori», telegrafano all’Opera. E alla segretaria Maria Antonietta Martini non arrivano più gli inviti per le celebrazioni eucaristiche in Laterano. Eppure Fazio, offuscata la sua stella nei Palazzi laici, in cuor suo sperava (e forse era più che una speranza) che potesse aprirsi per lui il Portone di Bronzo. All’inizio i segnali positivi non mancavano, come la difesa di Cielle e di personalità ascoltate in Curia come Buttiglione, Guarini, l’ex governatore della Bundesbank Tietmeyer, Camdessus e l’ex presidente della Corte Costituzionale, Cesare Mirabelli, oltre all’inusuale dichiarazione ufficiale dell’Opus Dei a sostegno dell’ex governatore («attaccato perché cattolico», secondo Giuseppe Corigliano, portavoce dell’Opera»). Insomma, magari non una poltrona allo Ior, la banca vaticana con un patrimonio di 5 miliardi di euro sognata l’indomani delle dimissioni, ma almeno un incarico d’onore in Curia. Confidava in un gesto che non c’è stato. E il progressivo venir meno del sostegno della Curia sembra pesargli più dell’istantaneo inabissamento dei suoi tanti sponsor politici.

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26 giugno 2007

Unipol giocò su tre tavoli la scalata a Bnl

di Vincenzo Chierchia e Giuseppe Oddo

I PRECEDENTI

La ragnatela di Fazio e la quota fantasma 13.06.07 (di Giuseppe Oddo)
Giallo Bnl, la pista Bbva 12.06.07 (di Giuseppe Oddo)

Quando scatta la scalata di Unipol a Bnl? Che percorso segue Giovanni Consorte, presidente e amministratore delegato del gruppo della Legacoop, per lanciare l'Opa sulla banca romana governata da un patto di sindacato tra gli spagnoli del Bbva, Generali e Dorint? Chi sostiene Consorte, in questo percorso? E che parte avranno, nella fallita scalata, gli immobiliaristi del contropatto guidati dal cementiere- editore Francesco Gaetano Caltagirone, che si opponevano al patto ufficiale con una quota complessiva del 27,5% di Bnl? Da documenti, in parte inediti, che «Il Sole- 24 Ore» ha potuto consultare, emergono nuove chiavi di lettura dei fatti; su cui indagano, parallelamente, la Procura di Milano e quella di Roma.
Le ipotesi di reato al vaglio dei magistrati sono varie: dall'insider trading, che si consuma nel momento stesso in cui il manager trasmette un'informazione privilegiata a persone con cui non intrattiene relazioni di lavoro, all'aggiotaggio informativo e manipolativo, cioè a comportamenti finalizzati alla manipolazione diretta e indiretta dei corsi azionari.
I primi indizi di un interessamento di Unipol verso Bnl risalgono all'incontro svoltosi, tra la fine del 2004 e i primi del 2005, in Banca d'Italia tra il governatore Antonio Fazio,il segretario dei Ds Piero Fassino e il futuro ministro dello Sviluppo economico, Pierluigi Bersani. Nell'incontro con i leader della Quercia, di cui Fazio riferirà ai magistrati nel corso dell'inchiesta su Antonveneta, il Governatore avrebbe delineato i possibili scenari del mondo bancario che prevedevano intese tra Unipol, Bnl e Monte dei Paschi di Siena (Mps).Peraltro Unipol,che già aveva l'1,97% dell'istituto di Via Veneto, possedeva anche il 50% di Bnl Vita, la società mista per la distribuzione di polizze agli sportelli, e cercava di rilevare da anni, senza risultati, l'8,7% di Bnl detenuto da Generali.

Le confessioni ai magistrati

È tra marzo e aprile 2005 che Unipol avrebbe maturata la decisione di un'Opa su Bnl.A raccontarlo ai Pm di Milano che indagano su Antonveneta (Francesco Greco, Eugenio Fusco e Giulia Perrotti) è Gianfranco Boni, ex braccio destro di Gianpiero Fiorani in Banca Popolare Italiana (Bpi). Fiorani era stato infatti incaricato da Fazio di contrastare, tramite Bpi, l'avanzata degli spagnoli,per difendere l'" italianità" di Bnl.
«Già ad aprile —riferisce Boni ai magistrati — si cominciò a parlare con quelli di Unipol di un loro interessamento a Bnl, ma ritengo che il via libera di Fazio a Unipol sia intervenuto tra la fine di aprile e la prima quindicina di maggio 2005», dopo cioè che il Bilbao aveva annunciato il lancio di un'Offerta pubblica di scambio su Bnl (una Ops) . «Preciso che ero a conoscenza — aggiunge Boni — dell'interesse di Consorte e Sacchetti a giocare il ruolo di banca aggregante in Bnl e che tale mia conoscenza effettivamente risale a fine di marzo primi di aprile ».
Intanto è già entrato il 2005, e il 28 gennaio il consiglio di Via Stalingrado, a Bologna, dove ha sede il quartier generale di Unipol, incarica Consorte e il suo vice, Ivano Sacchetti, di sondare Banca d'Italia circa l'intenzione della compagnia di aumentare al 9,99% la partecipazione in Bnl. Il 3 febbraio, dunque, i due manager si recano a Palazzo Koch per incontrare Francesco Frasca, in quel momento responsabile della Vigilanza sugli enti creditizi, anche se Unipol farà formale richiesta per salire al 9,99% solo l'11 maggio e otterrà il via libera di Fazio il 27.

Il 21 aprile 2005 — stando alla memoria inviata ai magistrati dall'ex numero uno di Unipol — Consorte e Sacchetti illustrano a Frasca il progetto, che gli consegneranno di persona il 29, secondo cui Unipol sarebbe dovuta diventare azionista di riferimento di Bnl con il 33-35% del capitale. Essa avrebbe potuto acquisire questa quota sia dai soci del contropatto ( Caltagirone,Vito Bonsignore,Danilo Coppola, Stefano Ricucci, Giuseppe Statuto e i fratelli Lonati) sia da Mps, Bpi, Carige e Bper (Banca Popolare dell'Emilia Romagna). In alternativa, Consorte avrebbe potuto fondere Unipol Banca con Bnl attraverso un aumento di capitale che gli avrebbe permesso di salire al 33%dell'istituto romano senza obbligo di Opa. Oppure avrebbe rinunciato del tutto ad essere azionista di riferimento di Bnl, per rilevare e fondere in Unipol il 100% di Bnl Vita e mettere così al sicuro un canale di vendita stimato in 2,5 miliardi di euro di premi assicurativi. Ma come poteva Consorte — si chiedono oggi i magistrati — prospettare già in aprile,a Bankitalia,un progetto che prevedeva l'acquisizione del controllo di Bnl senza essersi prima garantito le quote del contropatto e delle banche amiche?

La domanda è più che legittima perché, nel frattempo, s'erano susseguiti eventi decisivi per il futuro della banca. Il 12 marzo gli spagnoli, che avevano la maggioranza relativa di Bnl, avevano comunicato al Governatore la possibilità di un'Ops che formalizzeranno a Bankitalia sei giorni dopo. Un Fazio allarmato aveva chiamato a raccolta i fedelissimi come Fiorani, affidando loro il compito di sbarrare la strada agli spagnoli. A tale scopo, il 19 marzo, fallito il tentativo del Banco Popolare di Verona e Novara di assumere il controllo di Bnl, erano state convocate una serie di riunioni tra le abitazioni di Fazio e Caltagirone, con Fiorani nel ruolo di ufficiale di collegamento, per sondare la disponibilità del contropatto a svolgere un ruolo strategico in Bnl, evitando che gli immobiliaristi aderissero all'offerta del Bbva.

Riferirà Fiorani ai magistrati che, per decretare l'insuccesso del Bbva, sarebbe stata determinante sia l'apporto del contropatto sia quello di Unipol. Il contropatto, infatti, non avrebbe mai potuto assumere il controllo di Bnl in base alla norma che impediva a un'impresa industriale di possedere più del 15% di una banca. Il ruolo di Unipol si preannunciava pertanto decisivo.

Inoltre, il 30 aprile 2005, era sfumata l'assemblea degli azionisti di Bnl per l'assenza del contropatto e di Banca Finnat, Banca Intermobiliare (Bim), Bpi e Unipol, segno d'una prima convergenza tra questi soggetti, la cui saldatura avverrà poi in luglio con gli accordi che consentiranno a Consorte di annunciare l'Opa obbligatoria. «Noi in una prima fase — spiegherà Fiorani ai magistrati— siamo stati come una ruota di scorta del contropatto. Eravamo d'accordo per adeguare le nostre mosse in Bnl alle decisioni del contropatto. Per questo non partecipammo all'assemblea dell'aprile 2005, avendo appreso dall'avvocato Gianni (Francesco Gianni,consulente legale di Caltagirone) che il contropatto non avrebbe partecipato ».

Partono le operazioni a Piazza Affari

Si arriva così al maggio 2005, quando Bankitalia dà il via libera a Unipol per crescere nell'azionariato di Bnl.Dice Boni ai Pm:«Già dai primi di maggio, secondo i miei ricordi, inizia l'operatività di Unipol su Bnl con rastrellamenti sul mercato ».Cosa significa questo? Che, se la circostanza sarà confermata dalle indagini, Consorte avrebbe di fatto avviato la scalata ancor prima dell'Offerta degli spagnoli (che sarà lanciata il 20 giugno) e contestualmente alla richiesta alla Vigilanza di salire dall'1,97%al 9,99%di Bnl.

Consorte, invece, dell'incontro con Frasca dice, nella sua memoria, che si limitò ad illustrargli il citato progetto strategico che prevedeva, tra l'altro, la fusione tra Unipol Banca e Bnl; e che Unipol, in quel momento, non aveva alcuna intenzione di procedere a una vera Opa su Bnl.
Della possibilità del lancio di un'Opa, Consorte riferisce, invece, il 13 maggio 2005 a Pier-luigi Stefanini e Vanes Galanti, rispettivamente presidente e vicepresidente di Holmo, la holding delle cooperative "rosse" che, tramite Finsoe, controlla Unipol. E il 20 maggio presenta a Holmo e Finsoe il progetto denominato " Opa su Bnl".Nel documento vengono indicate tre possibilità: 1) Unipol aderisce all'Ops degli spagnoli. rinunciando a Bnl Vita; 2) Unipol non aderisce all'Ops, ma rimane socia di Bnl chiedendo in cambio agli spagnoli l'intero capitale di Bnl Vita e Artigiancassa; 3) Unipol lancia l'Opa obbligatoria su Bnl, con aumenti di capitale a cascata di Holmo, Finsoe e della medesima Unipol.
I mezzi finanziari per l'Opa sarebbero dovuti arrivare per 2 miliardi dalla ricapitalizzazione di Unipol, per 300 milioni da risorse già disponibili, per 800 da prestiti obbligazionari emessi da Unipol e Aurora, per altri 800 dalla cessione a Finsoe del 33% di Aurora, per 110 dalla vendita di Quadrifoglio Vita a Banca Agricola Mantovana e per 850 dalla vendita di Unipol Banca a Bnl.Così sarebbero stati recuperati 4,8 miliardi.
Il Pm milanese Luigi Orsi ha comunque accertato, al di là di quanto ha dichiarato Boni, che i primi rastrellamenti di titoli Bnl erano già partiti in maggio a prezzi non distanti dai 2,7 euro per azione che saranno poi offerti in luglio al resto del mercato. Il Leonardo Capital Fund londinese (Lcf) aveva venduto il 17 maggio a Bper, sul mercato dei "blocchi", l'1,97%di Bnl a 2,73 euro per azione,a fronte di un prezzo di Borsa inferiore. E a intermediare i titoli era stata Centrosim.

Gli scambi s'erano intensificati il 23 maggio quando Unipol e Aurora aveva acquistano ai blocchi, dallo stesso Leonardo Capital, il 2,97% di Bnl a 2,77 euro per azione, mentre sul mercato il titolo quotava a un prezzo leggermente superiore. L'intermediario era stato Euromobiliare, che nello medesimo giorno aveva acquistato, sempre ai blocchi, un ulteriore 1,87% di Bnl da Chenye Capital Fund Db, K Capital K Ubs, Tisbury, Glg Partners Lp e ancora una volta dal fondo Leonardo. Un'altra negoziazione, intermediata sempre da Euromobiliare, era avvenuta il 30 maggio: venditore, stavolta, era stato Paulson& Co; acquirenti, sempre Unipol e Aurora. Un operatore avrebbe svelato alla Procura di Milano i retroscena di queste operazioni. La "gola profonda" sosterrebbe di aver eseguito le negoziazioni in Borsa dopo essersi «confrontato» con Carlo Cimbri, direttore generale di Unipol. Se così fosse, a far da tramite tra acquirente e venditori sarebbe stata la stessa Unipol, nella persona del suo dirigente più alto in grado delegato alle operazioni. Lo stesso Cimbri avrebbe chiesto che parte delle azioni rastrellate (l'1,87%) fosse parcheggiata presso la Dresdner Kleinwort Benson (Dkb) dopo essere rimasta in deposito per un giorno presso Euromobiliare. Questo passaggio, se riscontrato, configurerebbe il primo portage a favore di Unipol. Dkb, il 25 maggio, vendette infatti alla compagnia bolognese un diritto d'opzione all'acquisto di titoli Bnl (una call option), diritto che trasformava di fatto Unipol nel possessore finale delle azioni. L'operazione avveniva,peraltro, appena due giorni prima che Unipol ricevesse l'ok di Bankitalia a crescere in Bnl. Non solo: sempre il 25 maggio Consorte incontrò nuovamente il responsabile della Vigilanza, Frasca, per discutere «in chiave teorico- progettuale» se Unipol e i suoi azionisti fossero in grado di reggere l'urto finanziario di un'Opa su Bnl.

Le vere intenzioni di Consorte

Consorte tuttavia sottolinea, nel suo memoriale, che, mentre Bankitalia autorizzava Unipol a salire in Bnl, la possibilità di un aumento di capitale finalizzato all'Opa era ancora a uno stadio di valutazione.E che l'Opa in quanto tale, in quel momento, non era ancora all'ordine del giorno.
Consorte stava in sostanza giocando su tre tavoli: trattava col Bbva per cercare di ottenere Bnl Vita e Artingiancassa, non scartava la possibilità di aderire all'offerta pubblica di scambio degli spagnoli, ma in realtà puntava a un'Opa obbligatoria che impedisse il rilancio degli spagnoli, con gli unici interlocutori possibili: il contropatto e le banche alleate. Tale eventualità fu accennata anche a Consob, assieme alle altre opzioni, il 30 maggio.
Ma gli spagnoli non stavano certo a guardare. Il 21 presentarono un primo esposto alla Procura di Roma, denunciando presunti accordi tra il contropatto e alcune banche (Bim e Finnat). Consorte viene così convocato dai Pm il 15 giugno 2005 e, nello stesso giorno, incontra il presidente di Generali, Antoine Bernheim, che gli avrebbe dichiarato di non apprezzare l'offerta carta-contro-carta degli spagnoli e di essere invece interessato ad aderire a un'eventuale Opa di Unipol, purché in contanti. Da questo momento, le pressioni di Consob su Consorte e Sacchetti si intensificano. Le indiscrezioni sulla scalata sono infatti finite sulla stampa.Audizioni e richieste di informazioni da parte dell'Authority del mercato avvengono il 18 e il 30 maggio e poi il 6, l'8,il 9, il 10, il 13 e il 20 di giugno, quando Consorte comunica alla Borsa di non avere «in cantiere » nessuna Opa.

Eppure pochi giorni dopo l'ex numero uno di Unipol incontra il Credit Suisse First Boston, una delle banche estere che rileverà, per conto di Unipol, un pacchetto di azioni Bnl superiore al 4%: uno dei passaggi fondamentali nella costruzione dell'Opa.

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Il collateralismo debole

• da Corriere della Sera del 22 giugno 2007, pag. 50

di Massimo Mucchetti

Tirate le somme, le inter­cettazioni delle telefona­teci Massimo D'Alema e Piero Fassino con l'allora presidente dell'Unipol, Giovanni Consorte, confermano quanto già era emerso dalle cronache della calda estate del 2005: tra i leader della Quercia e la più im­portante azienda controllata da cooperative aderenti alla Le-gacoop c'era un rapporto che un tempo si sarebbe definito di collateralismo. Nessuno se ne può sorprendere: come ha ri­cordato sul Riformista un socialista craxiano non pentito, Rino Formica, tutte le socialde­mocrazie europee hanno un braccio economico e non se ne vergognano.

Nella storia delle grandi im­prese italiane, del resto, il rap­porto con la politica è sempre stato stretto. Per quanti anni si è scritto di un partito Fiat o di un partito Enel o Eni o, perfi­no, di un partito Falk, tutti trasversali agli schieramenti parlamentari? Ma più ancora delle sensibilità alle lobby, i partiti di governo della Prima Repubblica avevano un inse­diamento imprenditoriale nelle Partecipazioni Statali. Un leader borghese come Ugo La Malfa coltivava rapporti di amicizia con il banchiere Enri­co Cuccia, il padrone dei pa­droni con il quale aveva condi­viso l'Ufficio studi della Comit sul finire degli anni Trenta. E nella Seconda Repubblica il ca­po del centro-destra ha una pre­senza personale e larga nell'al­ta finanza. Per oltre mezzo se­colo, i partiti hanno avuto un braccio secolare nell'econo­mia. Al di là degli episodi di corruzione, che a un certo pun­to si erano fatti sistema, la poli­tica ha considerato a lungo le grandi imprese — principalmente quelle pubbliche — stru­menti di politica economica e non soggetti votati al massimo profitto entro una cornice regolatoria certa e traspa­rente. Con gli anni Novanta, le privatizzazioni, le liberalizza­zioni e più ancora la globalizzazione han­no eroso le fondamen­ta di quegli storici col­lateralismi. E allora conviene chiedersi quale senso possa con­servare il collaterali­smo residuo tra i verti­ci Ds e quelli Unipol. Il collateralismo della Prima Repubbli­ca è stato un collateralismo forte, anche nelle sue de­generazioni. Il caso Unipol-Bnl ci racconta, invece, di un collateralismo debole. È l'in-gegner Consorte che sa e fa. Fassino chiede. D'Alema iro­nizza, si offre di parlare con Vito Bonsignore, offrendo un aiuto di rilievo modestissimo, avendo l'europarlamentare dell'Udc una piccola quota di Bnl mentre Consorte aveva montato, con le forze e le rela­zioni internazionali di Unipol, un'operazione da 5 miliardi. I leader ds coprono i personali entusiasmi per le gesta della compagnia bolognese con una sorta di legalitarismo economi­co. Nelle interviste del 2005, di­fendono il mero diritto di Uni­pol a scalare Bnl, mentre avreb­bero potuto sostenere aperta­mente l'operazione nel nome della pluralità dei capitalismi e delle formule proprietarie, pronti a correre il rischio della verifica dei costi e dei benefici, dei conflitti d'interesse e dei rapporti con il resto dell'econo­mia: tanto per fare un esempio che da fastidio, dei rapporti competitivi con l'Esselunga al­la quale le amministrazioni di sinistra hanno più di una volta fatto diffi­coltà per favorire le coop.

Il collateralismo de­bole è tale anche per la sua scarsa effica­cia. Basti rivedere l'in­contro tra il segreta­rio Fassino e Pierluigi Bersani con Antonio Fazio, rivelato dallo stesso governatore ai magistrati: la fusione Unipol-Bnl-Monte dei Paschi non finì mai all'ordine del gior­no non solo per le riserve della Banca d'Italia, che si rassegne­rà all'Unipol solo come ultima ratio contro la scalata del Ban­co Bilbao all'ex banca del Teso­ro, ma anche e soprattutto per l'orgoglioso rifiuto dei senesi a condividere il potere sul Mon­te con i capitalisti romani di Bnl e pure con i compagni emi­liani dell'Unipol. Fassino e Ber­sani si mettevano a debito con un uomo e un'istituzione ogget­to di dibattito parlamentare per arrivare a un'operazione che non potevano garantire per la loro parte.

Il collateralismo debole ha alimentato timori e contrasti dentro il centro-sinistra che hanno avuto un peso nell'assottigliare il vantaggio dell'Ulivo presso l'opinione pubblica nell' anno precedente alle elezioni. E ora può mettere a rischio la gestazione del partito democra­tico, che non può rimanere an­corato alla cultura minoritaria per la quale i consumatori si di­fendono con le coop anziché con la promozione e la tutela della concorrenza. Di più, il collateralismo debole può ave­re oggi la paradossale conse­guenza di mettere in difficoltà le stesse cooperative davanti al­la Commissione europea, che sta ragionando sulla presenza di aiuti di Stato nella legislazio­ne del settore.

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d.capezzone wrote:
...ti invito a riascoltare le mie ultime due puntate delle chiacchierate domenicali a radio radicale, subito dopo la rassegna stampa: ci troverai elementi poi emersi negli articoli delle settimane successive.

sempre attraverso radioradicale.it, potrai riascoltare il mio intervento a soveria mannelli di dieci giorni fa, e quello a cortina due giorni fa, in cui pure torno sull'argomento.

spero che quattro interventi pubblici in dodici-tredici giorni possano essere una buona media...
:-))

ciao,
d.

COM'ERA BUONO, ESPANSIVO E GENEROSO... CAPEZZONE, UNA VOLTA!!!

A. coppeto

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Nulla da dichiarare Manfredi, mi dispiace.

Ora, per carità, non trasformare questa sintetica dichiarazione negativa in un ciclostilato a mano, e domani me lo trovo appiccicato in tutta Torino.

A. coppeto

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(Quando parla di "guardie forestali", Debenedetti pensa all'abortito "golpe Borghese" del 1970, che sarebbe dovuto essere sostenuto da un reparto di guardie forestali)

L'unica soluzione: aprire al mercato

• da Il Sole 24 Ore del 21 giugno 2007, pag. 13

di Franco Debenedetti

Per ragionare sulle vicende dell'estate 2005, che la pubblicazione di intercetta­zioni e verbali ripropongono alla no­stra attenzione, può tornar utile il "rasoio di Occam". Entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem: la massima del filosofo fran­cescano vale anche per le spiegazioni dei fat­ti. Inventarne di complicate quando ce ne so­no di semplici a disposizione è più appassio­nante, ma è logicamente sbagliato.

Sotto il "rasoio" cade la teoria del com­plotto, quella per cui Antonveneta, Bnl, e Corriere sarebbero tre obbittivi di un uni­co disegno politico. Tesi tra l'altro contraddittoria, il miserando esito dimostrando semmai l'inconsistenza dei poteri che avrebbero dovuto realizzarlo: a differenza di 37 anni fa, questa volta non c'erano neppu­re le guardie forestali.

Basta una spiegazione più semplice: il pre­giudizio politico-culturale della difesa dell'italianità delle imprese, in particolare delle banche. È su questo pregiudizio che Antonio Fazio ha costruito il suo sistema di potere, per cui gli assetti delle banche dove­vano conformarsi al suo "piano regolatore", e ogni operazione essere confidata a lui pri­ma che comunicata ai consigli di ammini­strazione. Escludere alcuni dal mercato. Comporta l'attribuire ad altri poteri derivan­ti non dai suoi meriti ma dal suo conformarsi alla volontà del regolatore. Il Governatore poteva consentire di aumentare le quote di possesso, mandare ispettori, autorizzare l’Opa: aveva il potere.

E la politica, che potere aveva? Anche quando non governa, la politica, ha il pote­re/dovere di valutare e di comunicare. Ma di quelle vicende, la politica non ha capito la portata: non la sinistra, oggi chiamata in causa, ma neppure la destra. Le frasi dei lea­der ds, proprio perché irrilevanti sul piano penale o deontologico, sono atti d'accusa per l'errore più grave per un politico: non avere capito che l'errore primario, l'esclu­sione arbitraria dal mercato di alcuni sog­getti a vantaggio di altri, distorceva il mer­cato e mortificava la politica. Quando si re­stringe il gioco al "quartierino", i "furbetti" pensano di essere tutti dei George Soros. Quando si mortifica la politica, la si riduce a cercare un ruolo in giochi condotti da altri: il ruolo della mosca cocchiera.

Fassino e Bersani, andando da Fazio, rico­noscono che è lui quello che «giudica e man­da secondo ch'avvinghia». Non contestano il suo potere, e sanno che non hanno neppure potere sulle banche "vicine", Unipol e Mps, che tanto "vicine" non erano, se da anni man­davano a monte tutti i progetti di integrazione. I fatti economici pubblici, invece che valutazioni politiche, hanno prodotto polemiche interne, in particolare sulla vicenda Unipol-Bnl, strumentali alla definizione di rapporti di potere tra Margherita e Ds, o tra Ds e Ds, giocate sulla contrapposizione moralistica tra cooperazione buona a capitalismo catti­vo: finendo così per fare un sol fascio di vicen­de completamente diverse.

Che bisogno c'è di inventare complotti non riusciti, piani non materializzatisi, quan­do a spiegare basta un solo "motore immobile", il principio di protezione dell'italianità, e il potere che su quello aveva costruito il Governatore Fazio? C'erano già stati i casi Cirio e Parmalat, audizioni e discussioni sulla legge sul risparmio: ma per approvare la nuova disciplina antitrust e il mandato a termine del Governatore si dovettero superare resistenze coriacee: a destra del drappello di "fedelissimi" di Fazio, a sinistra di personaggi di primissimo piano, che lo difendevano perché «chi è nemico del mio nemico è mio amico». Anche nella vicenda Rcs siamo in presenza di una restrizione del mercato. I patti di sindacato sono meno ferrei delle "regole di vigilanza", richiedono la volontà concorde di molte persone, e non quella monocratica del Governatore: ma è solo la vivacità della reazione a indicare che l'attacco di un outsider solitario alla rocca presidiata dal fior fiore del capitalismo italiano poteva avere una minima possibilità di successo. Entia non sunt multiplicanda: la massima vale per l'analisi della cause, vale anche per i problemi a cui porre rimedio. Che non sono le divulgazioni, ma le distorsioni dei mercati, i poteri che derivano a singoli soggetti o a intere categorie quando se ne escludono altri. Oggi che non è più Bankitalia a mettere vincoli a priori, a preoccupare sono certe iniziative del Governo: gli interventi, in Autostrade e in Telecom, per impedire operazioni cross border tra privati, le proposte di legge per conformare ai propri disegni le reti telefoniche e le aziende televisive, gli strumenti finanziari à controllo pubblico per intcrventi su infrastrutture.

Se vogliamo evitare che si ripetano i fatti che lamentiamo, non inventiamoci "enti" inutili, non divaghiamo verso altri bersagli. Se non vogliamo più scandalizzarci guardando dal buco della serratura, basterà non chiudere le porte.

Iscritto dal: 07/09/2000
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(Nicola Rossi dovrebbe scrivere anche i nomi (tutti!) degli esponenti DS a cui fa riferimento, altrimenti rimaniamo nel recinto della "casta" o, se preferite, della guerra fra bande!)

(20 giugno, 2007) Corriere della Sera

INTERCETTAZIONI, DS E FAZIO

Non Voterò Come l' Ulivo

Caro direttore,

alta e forte si è levata in questi giorni la voce del vicepresidente diessino del gruppo dell' Ulivo al Senato: «È ora di affrontare la questione in Parlamento!», dove - com' è noto - la questione è quella della nuova normativa sulle intercettazioni telefoniche. A quella voce, notoriamente autorevole e disinteressata, se ne sono presto aggiunte altre dall' uno e dall' altro schieramento politico. Al massimo livello. «Abbiamo il dovere di fermare questo degrado!» ha tuonato il capo dell' opposizione. «Ci troviamo di fronte a un uso improprio delle intercettazioni», gli ha fatto severamente eco un ministro della Repubblica. Ora, che ci sia urgente bisogno di una normativa che, senza interferire con la libertà di stampa, ci sollevi dall' incombenza di annegare giornalmente nello squallore delle registrazioni e/o dei verbali giudiziari è cosa evidente a tutti. Ma se - come sembra più che probabile - il provvedimento oggi all' esame del Senato dovesse tornare emendato all' esame della Camera, vorrei che fosse chiaro che i proponenti di quel provvedimento non potrebbero contare - per quel poco o tanto che vale - sul mio voto. Anche se ciò implicasse venir meno alla regola - alla quale mi sono imposto fino a oggi di essere fedele (e solo io so con quanta fatica!) - di votare secondo le indicazioni del gruppo parlamentare cui pro tempore appartengo.

Non contino sul mio voto, dunque. E non già perché - come ho detto - ritengo irrilevante o secondaria una nuova normativa sulle intercettazioni. Ma perché questa può solo essere proposta e sostenuta da una classe politica diversa da quella che, sulle pagine dei giornali di queste settimane, ha dato di sé una rappresentazione di straordinaria pochezza. Nulla di penalmente rilevante, non c' è dubbio (almeno per quel che è dato capire a un profano). Molto di politicamente rilevante, però. Perché da quelle intercettazioni emerge un' idea della politica a dir poco avvilente e un' idea del ruolo dei politici francamente umiliante. Una classe politica di questa modestia è - essa sì! - il vero, grande alfiere dell' antipolitica. Un vero e proprio monumento all' antipolitica (opera peraltro - che ironia! - di professionisti della politica). Ma non solo di questo si tratta. Perché da quelle intercettazioni emerge un fallimento politico di prima grandezza: non aver compreso o non aver voluto comprendere il senso di un momento di particolare importanza nella vita della Repubblica. Un fallimento dal quale nessuna classe politica dovrebbe uscire sana e salva.

In questo senso sbaglia chi afferma - e colpisce il fatto che si tratti di un ministro della Repubblica - che è «un grave vulnus per la democrazia e le regole il fatto che si imposti un dibattito a partire da quelle frasi venute fuori in quel modo». Sbaglia perché ho ancora perfettamente presenti - e non credo di essere il solo - le riunioni del gruppo parlamentare diessino alla Camera di 2-3 anni fa - nel pieno della discussione della legge sul risparmio - in cui spiccava l' assoluta fermezza e la tetragona determinazione con cui un viceministro dell' attuale governo si opponeva a ogni incisivo intervento nei confronti della Banca d' Italia inteso a porre le condizioni per un avvicendamento al vertice dell' Istituto. Perché ho ancora negli occhi le perplessità e le esitazioni, le titubanze e i distinguo, le incertezze e le remore che caratterizzavano gli interventi, in quelle stesse riunioni, di un ministro di spicco dell' attuale governo. Perché non riesco a dimenticare il fatto che alcune di quelle riunioni si chiusero con un voto a favore di interventi più incisivi a tutela del risparmio e dei risparmiatori, voto che venne poi regolarmente disatteso. (Del centrodestra so meno, ma mi basta e mi avanza quel che scrive Bruno Tabacci nella sua «Intervista su politica e affari», Laterza).

Gli aspetti penali, dunque, non solo non ci sono ma se anche ci fossero sarebbero, dal mio punto di vista, in questo momento secondari. E' il giudizio politico quello che conta e questo non può che essere negativo: con poche eccezioni, un intero gruppo dirigente - in buona misura assurto oggi a responsabilità di governo - ha mostrato, nel migliore dei casi, un' insufficiente capacità di giudizio e una ridotta indipendenza di valutazione. Quanto basta per negargli oggi il mio voto.

Nicola Rossi

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"La Stampa", 21 Giugno 2007, pag. 15

NEL MIRINO DEGLI INQUIRENTI ANCHE L’EX GOVERNATORE DI BANKITALIA FAZIO E ALCUNI DIRIGENTI DELLA VIGILANZA SULLA BORSA

Caccia al tesoretto del contropatto

FRANCESCO GRIGNETTI
ROMA

Il giorno dopo la fuga di notizie, e cioè i titoloni su Caltagirone e Fazio indagati per la scalata alla Bnl, in procura il disappunto è tanto. Sarà aperto un fascicolo per scoprire la talpa. Intanto è annunciato un prossimo rapporto della Guardia di Finanza che andrà a integrare quello che la stessa Finanza aveva inviato ai pm il 30 maggio e che ha portato alla raffica di nuovi indagati. La strategia della pubblica accusa è chiara: provare che ci fu aggiotaggio informativo e manipolativo nei retrobottega della scalata, sia nella fase portata avanti dal «contropatto», sia nella fase gestita dall’Unipol. La conseguenza non può essere che una, percorsa già nel caso della scalata Rcs: il prossimo passo sarà una richiesta di sequestro delle plusvalenze ottenute fraudolentemente (agli occhi della procura, ovvio) dai contropattisti. In ballo c’è una cifra notevole: i contropattisti, fissando con Unipol il prezzo di 2,70 euro per azione, nel maggio 2005 guadagnarono la bellezza di 1 miliardo di euro.
Il nuovo rapporto della Finanza riserverà un capitolo all’operato delle autorità di vigilanza. Ci saranno pagine imbarazzanti per la Banca d’Italia di Antonio Fazio. E forse qualcosa anche per la Consob, che aveva il dovere di vigilare sulla ascesa azionaria di Unipol che portò Giovanni Consorte ad annunciare di aver rastrellato il 50,01 per cento delle azioni Bnl con l’aiuto del contropatto, della Banca Finnat, di Bpi e della Banca popolare di Reggio Emilia. Insospettisce un’interminabile istruttoria aperta dalla Consob sulle attività di Unipol e che a tutt’oggi, secondo quanto si apprende in ambienti giudiziari, non è ancora conclusa. Ben più rapida fu invece l’attività di Consob sulla scalata ad Antonveneta. I militari del Nucleo Valutario hanno già sentito come persona informata dei fatti il responsabile dell’area mercati di Consob.
Sarebbero una trentina gli indagati in questa inchiesta. Molti i banchieri e gli uomini di Bankitalia. Uno è Gianpietro Nattino, patron di Banca Finnat. Ma anche altri. A proposito della Banca di Reggio Emilia, ad esempio, c’è un’intercettazione che mette nei guai Francesco Frasca, l’ex responsabile della Vigilanza. Guido Leoni, amministratore delegato, gli dice: «Avverti pure il Governatore che abbiamo raggiunto il 4%». Ovviamente di Bnl. Particolare non secondario: mentre la banca rastrellava azioni per supportare la strategia di Unipol, in sede c’erano gli ispettori di Bankitalia che stavano effettuando i loro controlli.
Piovono smentite, intanto, per le rivelazioni che quasi ogni giorno finiscono sui giornali. Diego Della Valle annuncia querele per Ricucci: «Mai ricevuto finanziamenti, né da Bnl né da Capitalia, in relazione all’acquisto di azioni Bnl. Né direttamente né attraverso società a lui riconducibili». Piero Fassino, a sua volta, smentisce di aver mai parlato con il presidente di Generali, Antoine Bernheim, della scalata Bnl: «La prima e unica volta che Piero Fassino ha incontrato il Presidente di Generali, Antoine Bernheim, è stato il 5 marzo scorso per una prima colazione all’Hotel Hassler di Roma. Oggetto: uno scambio di opinioni sulle politiche di liberalizzazione del governo». Anche il ministro Bersani smentisce di aver mai parlato approfonditamente con Fazio - come invece l’ex Governatore ha detto ai magistrati - di un progetto di aggregazione Unipol-Bnl-Montepaschi: «Sono sorpresissimo. Ricordo solo un giro d’orizzonte, uno sguardo, senza questioni particolari e niente di rilievo».
E c’è tensione tra le procure di Roma e di Milano a proposito di questa ultima inchiesta. Segnale inequivocabile, le intercettazioni telefoniche sulle scalata bancarie - disposte dalla procura di Milano - non sono state trasmesse ai colleghi romani.

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Le spallucce della politica

• da La Repubblica del 20 giugno 2007, pag. 1

di Giuseppe D'Avanzo

C’è stata (e c'è) una interessata e ingenua sot­tovalutazione della finanza, degli impren­ditori e della politica dinanzi alla lunga te­stimonianza di Stefano Ricucci. A destra, a sinistra e nelle aziende si è voluto liquidare l'estenuante testimonianza come «una storia del passato», dimentica­ta, ininfluente per l'interesse generale, ormai meta-bolizzata anche dall'opinione pubblica. Non è così.

L’indagine, che in un anno esatto di verifi­che, ha confermato o smentito o trovato reticenti le parole del "furbetto" si muove e oggi coinvolge Francesco Gaetano Caltagirone, altri immobiliaristi e ancora Antonio Fazio che, nel 2005, era Governatore della Banca d'Italia. Il cammino dell'inchiesta giudiziaria farà la sua strada, ma l'affare si confer­ma serio e degno di attenzione. Fare spallucce dinanzi a legami imbarazzanti e nessi obliqui - seppure privi di rilievo penale - sembra un'operazione debole e destinata a non fare molta strada. La scena ricostruita dal­la magistratura e dalle testimonianze dei protagonisti (da Ri­cucci come da Fazio e verificata dai pubblici ministeri) confer­ma che la politica non ha espresso soltanto «opinioni» nell'anno della scalate ad Antonveneta, aBnl, al Corriere della sera, al gruppo Riffeser. È sta­ta (o ha cercato di essere) co-protagonista. I leader politici non si sono limitati a stare alla finestra, ad attendere l'esito di una contesa di mercato.Scesi in strada, sono intervenuti, con il peso del loro ruolo e respon­sabilità pubbli­che, a vantaggio dei protégés. Berlusconi indica a Stefano Ricucci il partner indu­striale per l'as­salto a via Solferi­no e scrutina i possibili media­tori. D'Alema consiglia a Con­sorte (Unipol) l'acquisto di pac­chetti azionari mentre Fassino e Bersani (come ha svelato il Sole-24 Ore con un interrogatorio di Antonio Fazio) incontrano il governatore della Banca d'Ita­lia per «spingere» una fusione Unipol-Monte dei Paschi-Bnl. Quel che se ne ricava è la serena convinzione che la politica abbia giocato in proprio la partita, per di più cercando di influen­zare uno degli arbitri (il gover­natore). Chiunque comprende che non può essere questo il primato della politica né si può credere che questa interpreta-zione della politica come eser­cizio di autorità possa far bene all'Italia. La politica legifera.

Seleziona opzioni. Sceglie re­gole che possano modernizza­re il Paese e renderlo capace di affrontare le sfide del futuro. A destra come a sinistra sembra­no, al contrario, non voler prendere atto che una politica che, nello stesso tempo, gioca, fa l'arbitro e legifera è una cattiva politica che paralizza il Paese nella sua arretratezza.

Non sorprende naturalmen­te la reazione di Berlusconi che nega un attivismo confermato anche da un suo antico collabo­ratore (Ubaldo Livolsi). Da più di un decennio il Cavaliere ci ha abituati all'assoluta noncuran­za in cui tiene conto le regole, i controlli, le responsabilità pubbliche e private e la verità. Sorprende che la sinistra mo­stri di credere o di aver creduto che le diverse opzioni etico-politiche possano diventare im­provvisazioni fluide. Destra e sinistra sono cose diverse, nella cultura, nei valori, nel metodo. «Finché dura questo vuoto ideale e politico, le forze politi­che non possono pretendere dalla gente una delega fiducio­sa e convinta: in nome di che e per fare che? Nessuno chiede la luna; ma se non prendono evidenza nette discriminanti ideali e programmatiche, se ai miti contrapposti e trascinanti del passato si sostituisce un paesaggio politico indistinto, immagini omologate, e i partiti de­cadono a pure macchine elettorali, allora viene meno la ra­gione e la voglia di schierarsi». Non si può dire di meglio (anche se Luigi Pintor lo diceva all' Unità addirittura il 31 mag­gio del 1983).

In nome di che e per fare che? È questa la domanda che affio­ra dal disegno delle scalate del 2005 e separa il Paese dalla "sua" politica. Berlusconi può non rendersene conto, ma la si­nistra, il centrosinistra?

Quel che il Paese vede è una fragilità strutturale della politi­ca che cerca di porvi rimedio con una nascosta solidarietà di persone e di gruppi degra­dando le idee ad abiti da cerimo­nia. È una debo­lezza che rivitalizza la persistenza endemica dei compromessi sottobanco; la legittimazione del­le clientele; l"'af­farismo" di pre­doni come Stefa­no Ricucci; gli egoismi di grup­po; la cronica contraddizione tra le parole e i fatti; la riduzione della vita politica a un confron­to «scarso di idee e riluttante ai grandi programmi come alle questioni diprincipio». La visio­ne di questo paesaggio «indi­stinto» danneggia il Paese - questo sì, e non il racconto del pae­saggio - perché lo induce a cre­dere alla flessibilità delle regole, lo separa dalle istituzioni e dallo Stato, ne umilia la fiducia nella politica e nel «vivere politico». È questa criticità che un leader politico dovrebbe affrontare per tenere unita la sua gente e, per la parte che rappresenta, il Paese e, per l'incarico che assol­ve, le istituzioni. Massimo D'A­lema è stato il primo a denun­ciare la crisi di credibilità della politica, il rischio di un rigetto che avrebbe potuto «travolgere il Paese con sentimenti come quelli che, negli anni 90, segna­rono la fine della Prima Repub­blica». Dopo la diagnosi, è ora di approntare la terapia con auda­cia e fermezza, anche se è neces­sario rivedere criticamente i propri comportamenti e quelli del suo partito. Un leader "ne­cessario" come Massimo D'Ale­ma non può non saperlo e non può che assumersi con coraggio il compito di affrontare i proble­mi evitando di sopire e minimiz­zare, come gli è capitato a Ballarò. Pena il dissesto che egli stesso teme e la lunga agonia di una democrazia screditata.

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E' scoppiato il bubbone

• da Libero del 20 giugno 2007, pag. 1

di Oscar Giannino

C'è una differenza di fondo, tra il rombo che precedette il tuono del 1992, e quello che rotola e rimbalza sulle finestre mediatiche in questi giorni convulsi. Allora, sembrava al­l'inizio e fu confermato alla fine che la folgo­re giudiziaria e il discredito mediatico avrebbe colpito solo i partiti che conPsi eDc avevano retto il patto anticomunista per de­cenni, fino a fare dell'occupazione dell'eco­nomia con la mano pubblica una sorta di caposaldo a proprio vantaggio. Allora, la si­nistra fu esclusa. Oggi, il rilancio mediatico-giudiziario che rivive a ripetizione la tripla scalata abortita due anni fa a Rcs, Antonveneta e Bnl, con l'innesto di nuove indagini come quella calabrese su Why Not e la ripartenza a singhiozzo di vecchi e nuovi tronco­ni d'inchiesta come quello annunciato ieri a Roma sul caso Bnl, conosce e segue le stesse regole di allora. Ma con una differenza, ap­punto, di fondo. Questa volta l'obiettivo è esplicitamente puntato contro i vertici dei Ds, a cominciare da D'Alema e Fassino. Sen­za escludere il tentativo di coinvolgere in una stessa insalata anche Berlusconi e persino Gianni Letta, naturalmente. Ma è poco più di un riflesso condizionato. Perché sta­volta ce n'è anche per i prodiani, e in Cala­bria per margheritici e diessini.

Questa volta è lotta fratricida interetnica, tutta interna al recinto della sinistra. Ali­mentata con doppio vigore dai giornaloni "borghesi" che furono in prima fila nella svolta filoprodiana in politica, come il Cor­riere e il Sole. Tranne poi estrarre sciabole e dar mano ai cannoni, quando nelle doppie scalate del 2005 fu la Unipol di Giovanni Consorte a insidiare la Bnl cara ad Abete, Montezemolo e Rutelli, e il troppo svelto Ri­cucci a pensare addirittura di poter diventa­re socio rilevante del Corriere senza aver chiesto il permesso. (...) E' un bubbone che scoppia, è il segno che la tanto pervicacemente affermata e difesa "diversità" è sempre stata una bubbola pietosa. Per la ben nota regola leninista per la quale c'è sempre un vec­chio epuratore che finisce a propria volta epurato, ecco che a distanza di due anni sono gli stessi giornali che allora difesero le proprie proprietà, e i soci sindacati ad essi collegati e schierati sul fronte banco-industriale contro gli scalatori di allora, a scoprire e a scandalizzarsi che gli stessi moralizzatoli di cui ospitavano le intervi­ste - tipo i prodiani e i margheritici, ap­punto - a propria volta sondavano i fami­gerati scalatori, senza troppi scrupoli.

Ed ecco che, come nel 92, la magistra­tura risponde con un tempismo strano. Tipo l'annuncio venuto ieri da Roma, del formale passaggio a indagati di Caltagi­rone, Coppola, Statuto, Bonsignore, i Lonati e lo stesso Antonio Fazio per insider trading, aggiotaggio e ostacolo alla vigi­lanza per le movimentazioni di titoli Bnl detenuti dai cosiddetti "contropattisti", che allora si opponevano a Della valle e Abete, Generali e BBVA. Le agenzie che ieri hanno annunciato la faccenda han­no parlato di "accelerazione" da parte dei pm romani. E a noi è venuto con tutto il rispetto da ridere. A due anni e oltre dai fatti, di simili accelerazioni la tartaruga batte persino Achille pie veloce. Senza contare del supremo ridicolo logico di un Fazio che faceva ostacolo a se stesso...

Ma vedete cari lettori, oggi non stare­mo a ripetervi per l'ennesima volta ciò che tante volte vi abbiamo scritto, di quanto pensiamo delle scalate 2005. E cioè del fatto che mettere in uan stessa insalata la malagestione di Fiorani ai danni dei propri correntisti con il proget­to industriale banco-assicurativo di Consorte e con l'ingenua ma non ese­cranda scalata al Corriere di Ri­cucci è un abile artificio. Or­mai pienamente riuscito, ai suoi ideatori mediatici che difendono equilibri banco-industriali che a noi non sembrano affat­to più mondi dal presunto peccato d'inciucio poli­tico-affaristico.

No, questa volta la riflessione che si impone è di altro tipo. E' sul si­gnificato e sulle conseguenze politiche che in ogni caso tali vicende ormai assu­mono. In un'Italia in cui Romano Prodi non può mettere piede nemmeno all'as­semblea dei commercianti "rossi" di Confesercenti senza essere subissato dai fischi, com'è avvenuto ieri. In cui è il pre­sidente dei piccoli e medi di Confindustria - Confindustria, non Confcommercio - del Veneto, ieri, ad aver regalato l'apertura del Mattino di Padova, annun­ciando che ormai metà dei suoi iscritti pensa a chiudere e andare all'estero, di fronte allo tsunami d'imposte e tasse in­debitamente aggravate dall'attuale go­verno. In questa Italia in cui ormai ogni giorno l'Agenzia delle Entrate è costretta a una vera e propria guerra di trincea, co­stretta dal viceministro Vicenzo Visco a rispondere rabbiosamente alle contesta­zioni sugli studi di settore con dati ed ela­borazioni che nel giro di poche ore vengono respinte e travolte dalle associazioni di categoria con reazioni ancora più veementi e fondate di quelle del giorno prima. In un'Italia co­sì, in cui il consenso al cen­trosinistra è franato e Lu­ca di Montezemolo ogni giorno ammonisce - dal­l'alto del suo 85% di con­sensi certificato ieri in un sondaggio, occhio ragazzi che qui l'ambizione lievi­ta fino ad autorealizzarsi - sulla necessità di farla finita coi vecchi riti stanchi di questa politica, in un Paese così ridotto la lotta intertenica del­la sinistra divisa dal potere banco-indu­striale rischia di essere l'avello finale del governo Prodi. E della banda di tutti i suoi sostenitori, compresi magari anche i giornaloni che lo intronarono alternativa morale prima che politica, rispetto al fa­migerato "regime" del Cavaliere "faccio-prima-i-fatti-miei".

Hanno voglia a dire, Prodi e D'Alema, che nel Paese c'è ormai un'aria irrespirabile, che la delegittimazione deve conoscere un punto d'arresto e di caduta. Ave­te visto l'autodifesa di D'Alema ieri sera a Matrix dell'ottimo Mentana? Sincera­mente - ve lo chiediamo noi senza nascondere che D'Alema ci è sempre stato simpatico, rispetto al buonismo nullista e più che affaristico delle presunte sue al­ternative - vi è sembrata una difesa fondata sulla solidità di argomenti e misura, come fa un leader certo del suo e capace di mettere in riga chi lo trascina nel fango? Oppure non l'avete intravista anche voi come noi, in quel tirarsi indietro di D'Alema dalla battaglia per laeadership del Partito Democratico, un'inconfessata consapevolezza che i siluri ormai in­cassati sotto la linea di galleggiamento sono troppi, per poter pensare di averne ancora una volta agevolmente ragione con una modesta sosta in cantiere, e con­tinuare poi come prima dritti sulla propria rotta?

E Prodi, che manda telegrammi a con­vegni sull'economia della felicità conti­nuando a prometterla, mentre a Palazzo Chigi coi sindacati sta andando in onda l'ennesimo smontaggio di una riforma come quella che almeno grazie a Maroni ci faceva risparmiare 10 miliardi di euro sull'età pensionabile, pensate davvero che a Prodi resti ancora intanto quel "fattore e..." che tante volte gli ha salvato la ghirba, malgrado la povertà dei risulta­ti, tanti anni fa all'Iri e poi in politica?

Noi pensiamo di no. Persino la magi­stratura inquirente, ormai, sembra aver infranto quella vecchia regola del "niente nemici a sinistra" che nel 1992, checché si dica, sembrò torreggiare insuperabile, come un undicesimo comandamento non dettato sul monte Oreb. Noi che pensiamo male perché siamo uomini di mondo, e infatti rabbrividiamo all'idea di dannare tutti nella stessa insalata storie e uomini così diversi anche se non abbia­mo mai votato per loro, giungiamo a credere che forse a tali nuovi sviluppi d'in­dagine possa non essere estranea, la stiz­za togata per questo centrosinistra, che ha promesso ha promesso ma ancora l'ordinamento giudiziario del ministro Castelli non l'ha abrogato. La contropro­va, come tante altre volte in passato, ce la dà quel drittone di Antonio Di Pietro. Che infatti, di fronte all'infittirsi della caligine mediatico-giudiziaria nel campo del centrosinistra, ha pensato bene di lan­ciare un altolà secco a Prodi e a tutti gli al­tri: o si blocca la riforma delle intercetta­zioni e si sbaracca l'ordinamento giudi­ziario, oppure a casa.

Non credeteci, naturalmente. Ma il bubbone è esploso. E' un fatto. E questa volta il veleno colpisce coloro che per an­ni l'hanno lanciato. Non c'è alcuna sod­disfazione, nell'osservarlo. Ma è un fatto. Bisogna avere la freddezza di assistervi come a un naufragio di capitani troppo oltraggiosamente ambiziosi. Indicavano al Terra Promessa. Ma non vedevano gli scogli davanti alla prua.

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"La Stampa", 20 Giugno 2007, pag. 5

D’Alema difende la scalata Unipol

L’autodifesa «Vengono dette cose terribili, ma poi non succede nulla
perché le accuse non hanno fondamento»

MARIA GRAZIA BRUZZONE
ROMA

«Si scrisse che dietro Ricucci c’ero io. Le intercettazioni a volte servono e dimostrano che non era vero: si è capito che dietro Ricucci c’era Ricucci che cercava agganci qua e là». E poi: «Se ho commesso un reato mi consegno mani in alto alla magistratura, ma non ho fatto nulla, non ho telefonato a nessuno, ho solo riposto a una persona, ma quello che ho detto (la battuta ormai famosa a Consorte: “facci sognare”) non ha alcuna rilevanza, neanche etica. E allo stato degli atti neppure Consorte, di cui si parla come di Al Capone, è stato rinviato a giudizio». Massimo D’Alema partecipa con Pierferdinando Casini all’ultima puntata di Ballarò affrontando l’inevitabile tema delle intercettazioni, ancora ignaro degli ultimi sviluppi delle indagini sul caso Bnl. E se subito sostiene di condividere il giudizio di Prodi sull’aria irrespirabile nel Paese, alla fine, rispondendo a Casini che lo invita a tornare allo spirito della Bicamerale, è netto nel fare blocco intorno a Palazzo Chigi: «Se va in crisi il governo Prodi ci sono solo le elezioni. Le riforme non si possono usare per scardinare l’equilibrio politico».

Il ministro degli Esteri, sempre fra viaggi e impegni, appare visibilmente stanco. E a volte sembra sgranare gli occhi più per mantenersi attento che per vero stupore. Ma quell’aggrapparsi ogni tanto alla poltrona e quel mettersi e togliersi gli occhiali sfogliando le cartelline piene di ritagli stampa che si è portato dietro («Sono cose così vecchie...») denuncia, almeno all’inizio, un certo nervosismo. Floris gli dà l’abbrivio chiedendogli se condivide le parole di Prodi. E D’Alema parte subito all’attacco: «Penso ci sia un clima preoccupante e rischiamo di pagare un prezzo alto come Paese. C’è un clima di confusione perché le persone credono che questi fatti siano avvenuti adesso mentre si tratta di eventi di due anni fa, archeologia». E «ridiscutere di cose vecchie è un’altra malattia del nostro Paese». Quanto ai frequenti paragoni che si fanno con Tangentopoli, D’Alema taglia corto: «Nel 1992 la classe dirigente era sotto accusa per gravi reati. Oggi non è così».

Oggi «vengono lanciate terribili accuse ma poi non succede nulla perché non hanno fondamento e la gente può chiedersi come mai nessuno venga punito. Tutti dovremmo ricondurre le questioni alla loro dimensione reale e se qualcuno ha commesso degli errori, anche moralmente, allora paghi». Lei di errori ne ha commessi? «Io no, nel modo più assoluto» risponde, citando la sua telefonata. «Noi guardavamo con favore al progetto di Unipol» perché la creazione «di una grande banca vicina al movimento cooperativo avrebbe potuto essere utile all’economia italiana». E «non è uno scandalo che la politica si intessi alle fusioni bancarie. Se non vengono commessi reati, è normale; in tutto il mondo si fa squadra per difendere gli interessi nazionali. Solo in Italia c’è una disputa continua che ci rende più deboli rispetto agli altri Paesi». Quanto alle intercettazioni «caso mai, più della politica, danneggiano la magistratura», osserva il ministro degli Esteri. E battibecca col procuratore di Torino Caselli, che sostiene invece che «la gente vuole spiegazioni e non accuse alla magistratura e ai media». E col direttore del Giornale Belpietro, al quale imputa «se riguarda Berlusconi, la pubblicazione di intercettazioni è un attacco delle toghe rosse».

Casini non solo non infierisce su D’Alema, ma lo sostiene dandogli atto, da garantista, che «mentre a sinistra c’è un garantismo a intermittenza, D’Alema garantista lo è sempre stato». Anche al leader dell’Udc, tirato in ballo da Ricucci, tocca fare l’autodifesa: «Non ho mai parlato con Caltagirone di Rcs. Come tutti sanno io ho avuto una figlia con la figlia di Caltagirone, non è un peccato, anzi ne sono fiero. Io faccio gli affari miei e lui i suoi, intromissioni non ce ne sono mai state».

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"La Stampa", 20 Giugno 2007, pag. 2

Franco l’Ingegnere, dal mattone a Goldman Sachs

Personaggio
Fra business e politica

FRANCESCO MANACORDA
MILANO

Due miliardi di liquidità in tasca e due compagni di strada particolarmente scomodi come Stefano Ricucci e Danilo Coppola. Cinque società quotate in Borsa e un genero famoso che di nome fa Pierferdinando e di lavoro l’ex presidente della Camera. Un sorriso - spesso esibito anche in forma di difesa - su una faccia che lascia trapelare poche emozioni, il primato mondiale nella produzione dell’esotico «cemento bianco», la passione per i busti marmorei dell’impero romano. Da ieri, poi, anche il titolo di indagato nell’inchiesta della Procura di Roma sulla Bnl. Titolo che non dovrebbe turbarlo più di tanto alla luce dei tredici processi («e tredici assoluzioni», aggiunge preciso lui) per i quali è passato durante gli anni di Tangentopoli.

Brevi cenni per un profilo tutt’altro che esaustivo di Francesco Gaetano Caltagirone, bloccato nell’immaginario collettivo alla figura classicissima del «palazzinaro» romano, sul cui impero di 50 mila appartamenti - dalla Bufalotta alla Tuscolana - non tramonta mai il sole dell’urbe. Ma descrivere «l’Ingegnere» stretto solo nei suoi panni di calcestruzzo significa per l’appunto inchiodare Caltagirone a un cliché che non gli appartiene. O almeno non gli appartiene più da tempo, da quando nell’83 sborsa 63 miliardi alle tonache dello Ior per rilevare l’allora disastrata Vianini Costruzioni, e poi prende la Cementir dall’Iri e poi si compra Messaggero, Mattino di Napoli e il venetissimo Gazzettino, mentre crea anche un quotidiano gratuito al grido sussurrato - come è nello stile dell’uomo - di «un foglio di carta è più pesante di un mattone», e poi si mette nell’affare Bnl, e poi prende sul mercato il 5% del Montepaschi e ne conquista la vicepresidenza, e poi entra ed esce dal «salotto buono» della Rcs, e poi sborsa 500 milioni per un 1,2% delle Generali dove ad aprile entra in consiglio...

E poi, si potrebbe dunque dire in sintesi, salta direttamente dal palazzo di via Barberini, sede della superholding familiare, alla Serie A capitalismo. Sempre all’ombra di uno stile che fa della riservatezza - rotta in modo traumatico nel 2000 dall’episodio del rapimento della moglie Luisa Farinon ad opera del domestico filippino Leo Begasson e finito poi con la liberazione della signora e la morte dell’uomo - una delle sue stelle fisse assieme a pochi altri articoli di fede ortodossa per un imprenditore romano: dalla devozione al presidente di Capitalia Cesare Geronzi agli ottimi rapporti con il sindaco Walter Veltroni.

Ecco, molti in quella rovente estate del 2005 si chiedono che ci stia a fare Caltagirone assieme all’ondata dei furbetti o simil tali che lo seguono nel mitico «contropatto», opposto al patto dominante, della Bnl. Lui come capo cordata, per l’appunto, e dietro Ricucci che fa le giravolte da un patto all’altro, Coppola, che per inciso con Ricucci non si può vedere, il silenzioso Statuto - a giudicare dal seguito il più furbo e/o onesto di tutti gli immobiliaristi -, i bresciani fratelli Lonati sodali di Chicco Gnutti anche nell’avventura di Antonveneta e il parlamentare autostradale Vito Bonsignore.

Lui, Caltagirone, spiega e spiegherà sempre che non ha certo ambizioni di assalto al sistema, punta all’operazione finanziaria e basta, agli «schei», come direbbero all’ormai suo Gazzettino. Tanto che proprio nel luglio 2005, mentre Ricucci accumula azioni su azioni della Rcs, agitando sempre più lo spettro di un’impossibile Opa sulla casa editrice del Corriere della Sera, l’Ingegnere, che da tempo ha un 2% della Rcs, capisce l’aria che tira e vende la sua quota. Infuriato Ricucci, sollevati i «salotti buoni» che vedevano con un supplemento d’inquietudine l’asse furbetti-Caltagirone.

Passata quell’estate, che ritorna però nelle sbobinature di Ricucci, questi ultimi giorni si rivelano così uno stillicidio di piccole violenze autoinflitte allo stile riservatissimo dell’ingegnere sotto forma di lettere, precisazioni, messe a punto. «Mai lavorato dietro le quinte nella vicenda Bnl» - scrive - mentre «nelle vicende Antonveneta e Rcs non ho mai avuto alcun ruolo né ufficiale, né ufficioso, né immaginario». E lamenta la «spropositata enfasi con cui sono state presentate le fantasiose dichiarazioni del dott. Ricucci». Tutto legittimo, anche se in quella estate i rapporti con il «dott. Ricucci» erano assai più cordiali. Indimenticata, ad esempio, l’apparizione dell’Ingegnere, rigorosamente in abito scuro a tre pezzi, nella cornice di Villa d’Este al battesimo della Confimmobiliare, il goffo centauro che avrebbe dovuto unire commercianti e «mattonari» partorito dalle fantasie gemellate di Stefano Ricucci e Sergio Billè. Lontani quei personaggi, lontana quell’estate. Adesso il Caltagirone post 2005 punta - è notizia di ieri - sui fondi immobiliari di Pirelli Real Estate. E come compagni di strada non ha più Coppola e Ricucci ma la Goldman Sachs.

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"La Stampa", 20 Giugno 2007, pag. 2

Bnl, Caltagirone e Fazio indagati con i “furbetti”

ROMA

Indagato Francesco Gaetano Caltagirone, grande imprenditore ed editore, uno degli uomini più ricchi d’Italia. Indagato anche, nuovamente, Antonio Fazio, l’ex governatore di Banca d’Italia. E indagati, di nuovo, gli immobiliaristi rampanti Ricucci, Statuto e Coppola. Finisce in un gigantesco guaio giudiziario, la fallita scalata alla Bnl.

Diversi i reati ipotizzati, dall’aggiotaggio informativo, a insider trading, a ostacolo alle Autorità di Vigilanza, all’aggiotaggio manipolativo. C’è chi avrebbe guadagnato, secondo la procura, un sacco di soldi alle spalle del mercato. Al vaglio degli investigatori ci sono passaggi, ritenuti sospetti, di azioni tra soci del «contropatto». Quando questi ultimi vendettero a Unipol il loro 27% di Bnl, ci furono plusvalenze per decine di milioni di euro.
Il mondo della politica, dopo che nei giorni scorsi, alle prime avvisaglie di indagini, si erano spesi a favore di Caltagirone tanti esponenti di destra e di sinistra, da Gianfranco Fini a Walter Veltroni, ieri ha accolto con glaciale silenzio le novità. L’unico a saltar su è stato il ministro Antonio Di Pietro: «La giustizia - ha detto - è lenta ma è inesorabile. Così come deve essere ed è giusto che sia. Ora si tratta di capire se in questa scalata ci sono solo queste persone o anche loro sponsor». In tutt’evidenza, Di Pietro vorrebbe riaprire la questione degli appoggi politici.

Il nome più in vista tra gli imprenditori indagati, indubbiamente, è quello di Caltagirone. Era lui il leader del cosiddetto «contropatto». Come si ricorderà, in quell’estate del 2005, furono due le cordate che si contrapposero per mettere le mani sulla Bnl. Da una parte gli spagnoli del colosso Bbva, appoggiati dal management, dal presidente Luigi Abete, dal socio forte Diego Della Valle. Dall’altra, oltre al taciturno Caltagirone, uno stuolo di immobiliaristi, che poco avevano a che fare con lui, sbucati dal nulla, giovanissimi e apparentemente ricchissimi, quelli che di sé - come da intercettazione celebre sul telefonino di Ricucci - si definivano «furbetti del quartierino». Il 18 luglio, poi, il «contropatto» conferiva tutte le sue azioni alla Unipol che subentrava nella gara.

Ma chi davvero fossero, questi misteriosi Ricucci, Statuto, Coppola, e perché avessero stretto alleanza con il bresciano Gnutti, all’epoca era un mistero. Né si conosceva l’intreccio con Fiorani e con le altre scalate all’Antonveneta da parte di Banca popolare di Lodi e alla Rcs-Corriere della Sera da parte del solo Ricucci. Si ignoravano i disegni di riassetto che si coltivavano nelle stanze di Fazio. Ma venne fuori assai presto che la magistratura indagava. E si conobbero le famose intercettazioni, quelle culminate con la telefonata del «Ti darei un bacio in fronte» di Fiorani a Fazio.

Antonio Fazio, ormai è stranoto, nel caso Bnl incoraggiò gli italiani a contrapporsi agli spagnoli. Nel pranzo che ispirò le strategie del «contropatto», a casa Caltagirone, c’era pure, al solito, il banchiere Fiorani. E c’era Vito Bonsignore, l’eurodeputato Udc, proprietario di un ricco pacchetto di azioni. L’attenzione della procura si è concentrata anche sul ruolo dell’ex governatore Fazio, già indagato a Roma - ma nel frattempo l’inchiesta è passata a Milano - per abuso d’ufficio nell’ambito dell’inchiesta Antonveneta. Fazio finisce per pagar cara una sua interpretazione «estensiva» delle norme bancarie che vietano a uno o a più imprenditori in cordata di superare il 15% del capitale di una banca.
Sono due anni che si indaga. L’inchiesta si era concentrata inizialmente sul ruolo avuto dalle Autorità di Vigilanza (a partire da Bankitalia) e sulla ricostruzione dei passaggi azionari. Le indagini sono poi proseguite con l’apertura di un filone relativo alla dismissione, a fine 2005, di 133 immobili di Unipol. Per tale vicenda sono stati indagati per appropriazione indebita gli ex amministratori Consorte e Sacchetti più altre 12 persone, tra cui l’imprenditore Vittorio Casale.\

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"la Repubblica", MERCOLEDÌ, 20 GIUGNO 2007

Pagina 11 - Interni

I VERBALI

Gli interrogatori di Ricucci sulla vicenda Unipol.
Attacchi a Della Valle, Abete e al figlio di Ciampi

"Così i vertici della Finanza passavano i dossier riservati"

WALTER GALBIATI
EMILIO RANDACIO

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MILANO - Azioni di lobbying, ma non solo. Gli interrogatori davanti ai pm di Roma di Stefano Ricucci sono ricchi di retroscena inediti sulle operazioni messe in atto dai "furbetti del quartierino" e sulle grandi manovre per condurre in porto le scalate alle banche e alla Rcs.

«I dossier dalla Finanza al Giornale»

Secondo l´immobiliarista romano, c´è stata una regia nel fare uscire notizie coperte da segreto durante le indagini.
Ricucci: «Nel primo incontro che io feci a casa di Tavano (ex ufficiale dell´esercito arrestato con Ricucci, ndr), nel quale c´era anche questo Carano (tenente colonnello della Gdf, indagato per violazione del segreto istruttorio, ndr), si parlò dell´argomento che lui diceva... lui Carano, diceva che era deluso, che era stato estromesso dalla carica delle operazioni Unipol e Bnl... diceva che praticamente lui aveva ragione e non avevano ragione i vertici, ... ce l´aveva con i vertici, no? Che dice lui che era stato estromesso da questa indagine, secondo lui in malo modo, in quanto si voleva affossare le operazioni «Unipol/Bnl» per aver dato una copertura politica della sinistra diciamo, mentre si voleva andare contro di me, su Rcs, che io non ci avevo nessuna copertura politica... io pur convenendo con lui sulla seconda parte, eh, no, questo gli sto dicendo la verità, non ero d´accordo su quello che invece lui diceva su Unipol/Bnl, perché per quanto mi riguarda, l´operazione Bnl fu fatta... fu fatta in modo del tutto legittimo...

C´era il Tavano che invece alimentava e dava ragione a Carano, tant´è che dice «ah, questa cosa dobbiamo farla uscire sui giornali, bisogna dirla questa cosa» e la fece uscire anche su «il Giornale» e diedero questa relazione a Nuzzi (inviato del "Giornale", ndr). Tutta questa cosa che lui diceva, questa relazione che lui aveva fatto, non so con chi.... l´ha fatta uscire sul giornale».

Pm Cascini: «Chi l´ha fatta uscire, Tavano o Carano?»
Ricucci: «Loro due, non lo so mo´ chi, eh, eh, comunque eccola, uscì.
Pm: «Ma che l´hanno fatta uscire loro sul giornale...
Ricucci: «Sì, sì».
Pm: «È una sua deduzione o gliel´hanno detto?»
Ricucci: «No, me l´hanno detto... non è che io ho visto le due persone che sono andate dal giornalista in persona, però mi hanno detto...»

«I finanziamenti Bnl»

Secondo il racconto del fondatore della Magiste, in Bnl molte operazioni finanziarie passate nascondono più di un mistero.
Ricucci: «Ci sono dei rapporti molto importanti dentro la Bnl, perché se no non si spiega tutta questa lotta per avere il controllo di questa banca. Non è una banca che guadagna 2 miliardi o un miliardo di euro l´anno, anzi sempre peggio fino al 2004. (...) Perché il Bilbao, perché Generali, perché Della Valle, perché Abete ha fatto tutto questo? Perché non si indaga un po´ su questi altri signori. (...) Dentro alla Bnl sono state fatte delle operazioni nel tempo non tanto consone. Ad esempio i finanziamenti alla Tipografia Abete, i finanziamenti quando sono state acquisite le quote da parte di Della Valle, i finanziamenti fatti al figlio di Ciampi, e via discorrendo. I finanziamenti fatti ... il famoso finanziamento... nel bilancio stava a costo zero, ha fatto un finanziamento da circa un miliardo di euro all´Iraq.
Si disse che nel giugno 2003, fu finanziato attraverso la Bnl di Zurigo, Della Valle per comprare a 1 euro le azioni. Un presidente che finanzia il suo migliore amico che a sua volta sta nel suo consiglio di amministrazione, non è tanto legale! Finanziare le proprie aziende, non è proprio consono... il presidente della banca. Non ci sono prove. (...) Per avere le prove dovresti avere il potere per andare a vedere tutte le pratiche di fido e tutte ... chi ce l´ha? Perché io non ce l´ho, noi ci abbiamo provato, ci hanno tagliato le mani, eh! Io le posso spiegare questo che le sto dicendo, sul fatto ... per esempio una triangolazione sui finanziamenti fatti da Bnl di Zurigo a comprare a 1 euro e poi è stato un prezzo di obbligazione con la Dorint lussemburghese (società di Della Valle, ndr) e sottoscritto da Capitalia in Lussemburgo, questo gli posso dire».

La mediazione di Galliani e Ben Ammar

Nel verbale del 5 giugno 2006, Stefano Ricucci spiega anche le operazioni di lobby esercitate per sorreggere la sua scalata ad Rcs. Accanto alla figura del banchiere vicino al gruppo Mediaset, Ubaldo Livolsi, spuntano anche i nomi del produttore cinematografico Tarak Ben Hammar, che ha anche una quota in Mediobanca, e del vice presidente del Milan, Adriano Galliani.
Ricucci: «...facendo anche riferimento alla telefonata di Galliani che dice che ti ha fatto un assist Berlusconi perché lui lanciò delle agenzie, quando uscì dai giornalisti (giugno 2005, inaugurazione sede Confcommercio)... c´erano tutti i giornalisti e disse (Berlusconi) delle frasi positive su di me....»
Ricucci: «Io Adriano lo conosco, Adriano Galliani lo conosco da tanto tempo».
Si scopre che Ricucci, nel luglio 2005, è stato intercettato diverse volte al telefono con il numero due del Milan dai finanzieri che indagavano su Antonveneta. Il 2 luglio, a pochi giorni dall´ufficializzazione dell´Opa, un altro contatto.
Pm Cascini: «Quindi quando lei dice qui in questa conversazione con Galliani, domani lo vedo, si riferisce al gran Presidente, di chi state parlando»?
Ricucci: «Perché io dovevo vede Alejandro Agag... mi aveva detto che andavamo a casa sua e invece dopo non ci siamo più andati... e Agag mi ha detto "forse domani viene anche il Presidente" e quindi io quando parlo con Galliani gli ho detto: "forse domani lo vedo", perché sapevo che a casa di Agag doveva andarci anche Berlusconi...»
Ricucci: «Tarak, da quello che mi ha detto Livolsi è stato sollecitato da lui per poter dare forza e conoscenza al gruppo Lagardere (gruppo editoriale francese, che ha trattato con Ricucci l´acquisto delle azioni Rcs rastrellate, ndr). Tarak non è che ha fatto nulla, è stato soltanto un signore che conoscendo il mondo finanziario francese ha rafforzato all´interno di questa trattativa la nostra possibile unione in Rcs... e sicuramente ci avrà messo una buona parola il presidente, perché il presidente Berlusconi conosce molto bene Tarak».

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"la Repubblica", MERCOLEDÌ, 20 GIUGNO 2007

Pagina 10 - Interni

IL COSTRUTTORE

Indagati Caltagirone e Fazio
Bnl-Unipol: contestati aggiotaggio e insider trading

Sotto esame anche Bonsignore, euro-parlamentare dell´Udc
Ventinove in totale gli "iscritti" nel nuovo filone d´indagine
Rapporto della Gdf sulle mosse del cosiddetto "contropatto"

MARINO BISSO

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ROMA - Gaetano Caltagirone, Stefano Riccucci, Danilo Coppola e Giuseppa Statuto. Gli immobiliaristi che due anni fa avevano rastrellato i titoli della Bnl per contrapporsi all´offerta di acquisto degli spagnoli del Banco di Bilbao sono finiti nel registro degli indagati. A inchiodarli un´informativa curata dal nucleo valutario della guardia di finanza del 30 maggio sulle mosse del cosiddetto "contropatto" nella fallita scalata di Unipol alla Bnl. Cento pagine fitte di interrogatori che hanno spinto la procura capitolina all´iscrizione di ben ventinove tra imprenditori e finanzieri. A cominciare dal costruttore Francesco Gaetano Caltagirone a capo dell´alleanza tra gli immobiliaristi romani che avrebbero rastrellato e poi rivenduto alla Unipol oltre il 27 per cento della banca romana. Con lui Ricucci, Coppola e Statuto, ma anche i fratelli Lonati e il conte Giulio Grazioli, padrone di casa della dimora romana di Silvio Berlusconi in via del Plebiscito. E tra i nomi celebri figurano l´ex governatore della Banca d´Italia, Antonio Fazio e gli ex vertici di Unipol Giovanni Consorte e Ivano Sacchetti, già indagati nel primo filone d´inchiesta. Oggetto di attenzione giudiziaria sarebbe anche il parlamentare dell´Udc, Vito Bonsignore ma il suo nome non comparirebbe nella lista dei ventinove.

Il procuratore Giovanni Ferrara con i suoi sostituti Giuseppe Cascini e Rodolfo Sabelli contestano, a seconda delle posizioni, diversi reati: dall´aggiotaggio all´insider trading fino all´ostacolo all´attività di vigilanza. L´ipotesi è che l´aumento di capitale che seguì alla costituzione del contropatto sia stato accompagnato da un oscuro passaggio di azioni tra i membri dell´alleanza guidata da Caltagirone, un´alleanza che si opponeva all´altro accordo siglato tra il Banco di Bilbao, le Generali e la Dorint, la società lussemburghese di Diego Della Valle.

A dare impulso all´inchiesta romana, che s´intreccia con il filone milanese curato dal pm Luigi Orsi, sono state soprattutto le verità messe a verbale da Stefano Ricucci nel corso dei suoi numerosi interrogatori. Dichiarazioni che inchiodano anche l´ex governatore di Bankitalia Antonio Fazio, già finito nel registro degli indagati della procura di Roma per l´ipotesi di reato di abuso d´ufficio relativamente all´inchiesta sulla scalata ad Antonveneta da parte della ex Bpi di Gianpiero Fiorani.

Per il vecchio filone di indagine, aperto due anni fa con il contributo delle fiamme gialle guidate dal comandante del Valutario Bruno Buratti, erano indagati l´ex numero uno di Unipol, Giovanni Consorte, il suo ex vice Ivano Sacchetti, il finanziere Emilio Gnutti e i fratelli Lonati. L´ultima tranche dell´indagine dei pm Cascini e Sabelli ha riguardato le acquisizioni del cosiddetto contropatto i cui componenti - gli immobiliaristi alleati con gli imprenditori - rastrellarono a partire dall´estate di tre anni fa oltre il 27 per cento delle azioni dell´Istituto di Via Veneto su cui poi venne lanciata una Opa dalla Unipol di Consorte. Le quote di Bnl del contropatto furono poi acquisite, nel luglio del 2005, dagli stessi Consorte e Sacchetti. Gli inquirenti romani hanno ricostruito la movimentazione sul titolo Bnl fatta dal contropatto. Il sospetto, ancora tutto da dimostrare, è che le acquisizioni dei titolo celassero un´attività speculativa che avrebbe fruttato plusvalenze di milioni di euro.

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(19 giugno, 2007) Corriere della Sera

IL CASO RICUCCI. I VERBALI

Livolsi e la scalata Rcs: «Berlusconi mi suggerì di parlarne con Agag»

ROMA - Ubaldo Livolsi ha ammesso di aver trattato la quota di Rcs per conto di Stefano Ricucci. E di averne parlato con Silvio Berlusconi che gli consigliò di rivolgersi ad Alejandro Agag. Il banchiere d' affari che è stato l' artefice della quotazione in borsa di Mediaset, ha raccontato ai pubblici ministeri il suo ruolo nell' operazione, confermando quanto era stato già detto dall' imprenditore. Ha negato invece di aver partecipato all' affare il senatore Romano Comincioli, «zio Rommy» per Ricucci. «Me ne parlò - ammette - e mi chiese di avere un incontro con Berlusconi, penso per avere coperture politiche, come avrà fatto con altri. Ma io non ritenevo che fosse assolutamente il caso».

I politici e la trattativa

Il 6 giugno 2006 Livolsi arriva alla Procura di Roma. «Il discorso si esplicita intorno al luglio del 2005 con l' operazione chiamiamola Rcs, dove appunto Ricucci in qualche modo mi esplicitò che aveva raggiunto... Questa quota non era superiore al venti per cento, se ricordo bene, di Rcs. Parlando con lui mi sembrava che l' unica possibilità per tentare una valorizzazione e una soluzione a questo suo investimento fosse la possibilità di trovare un socio industriale... P.M.: Lei ha avuto un incarico formale? LIVOLSI: No, questo è ancora a voce. Quindi io mi attivo... prima telefono al dottor Tarak Ben Ammar... la risposta però fu negativa. Dopodiché, parlando per telefono con il dottor Berlusconi, mi accennò che poteva essere interessante una telefonata, un colloquio con Alejandro Agag perché era una persona, molto bene introdotta nel settore, diciamo, dell' informazione e quindi del mondo editoriale in Spagna e in Francia. P.M.: E lei perché ne parlava con Berlusconi? Così chiacchierando del più e del meno? LIVOLSI: Sì, parlando così... avevo fatto una telefonata per salutarlo, per parlare e così venne... si discusse di questo fatto... e lui mi diede questa informazione... P.M.: È la prima volta che lei parla con Berlusconi di questo argomento? Di questa situazione? LIVOLSI: Sì, sì. In passato c' erano stati dei tentativi da parte del dottor Ricucci di farsi accreditare, di incontrare il dottor Berlusconi, ma questo non avvenne mai. P.M.: E come lo sa? LIVOLSI: Chiese a me, ma io non riuscì a farlo incontrare... ma anche prima, cioè indipendentemente dal discorso Rcs... P.M.: Quindi Berlusconi la indirizza ad Agag e lei va... LIVOLSI: Io telefono ad Agag chiedendo se era interessato ad incontrare il dottor Ricucci... e ottengo una risposta positiva. Quindi faccio mettere in contatto Ricucci con Agag... penso che siamo nella seconda metà di luglio... Agag si dà da fare per organizzare un incontro a Parigi perché ritiene che il gruppo Lagardère sia interessato a fare un' operazione con Ricucci e quindi il 27, mi pare, di luglio, si organizza questo incontro a Parigi con la partecipazione di Magiste di Ricucci e del sottoscritto, del professor Fransoni e dell' avvocato Sinibaldi con Agag. Mentre a Parigi incontriamo nella sede del gruppo Lagardère Arnauld Lagardère che era, chiamiamolo così, il personaggio più importante del gruppo.... In quell' occasione ci presentammo con un documento dove di fatto cercavo di dare una valutazione, un documento della "Livolsi & Partners" del valore di Rcs nel senso che chiaramente il titolo a quel momento era superiore ai 6 euro quindi era considerato un valore abbastanza importante... P.M.: Lei ha fatto un riferimento... Ricucci ed eventualmente altri soci. LIVOLSI: Nello schema... ecco Ricucci ci disse che il venticinque per cento faceva parte della "new co." cosiddetta italiana dove lui aveva il venti e rotti, quasi il ventuno per cento, e però pensava... per aggregare evidentemente un altro quattro per cento. P.M.: Un altro quattro per cento di Rcs? LIVOLSI: Sì, che io non ho mai saputo chi fossero, chi potessero essere e non ho capito se c' erano già eventualmente altri soci che avevano queste azioni o pensava che nel momento in cui l' operazione potesse andare in porto fossero in grado di prendersi questo ulteriore quattro e qualcosa per cento... Lui era convinto, questo sì, che in caso di Opa qualcuno del patto avrebbe sicuramente aderito. P.M.: Con Gianni Letta ha mai parlato di queste cose? LIVOLSI: Con Gianni Letta? Mi pare proprio di no, mi pare proprio di no, adesso non... non... questo sicuramente non mi pare, non ricordo di averne parlato, Gianni Letta uhm... una volta parlò con Ricucci, ma non... ma non ricordo su questa operazione, così, nel senso più generale, non... Ricucci voleva in qualche modo accreditarsi, insomma. P.M.: Come avvenne questa conversazione di Ricucci e Letta? LIVOLSI: Tra Letta e Ricucci, non so, una volta parlavo con il dottor Letta e gli passai... gli passai il dottor Ricucci che era vicino a me, però era perché... P.M.: Lei era al telefono con Letta... LIVOLSI: Sì, e c' era Ricucci, glielo passai... P.M.: Ma qual era l' oggetto di questa conversazione? LIVOLSI: Ma così, era... perché appunto il dottor Ricucci aveva questo piacere poi di... di incontrare anche il dottor Letta, insomma di parlare in generale... di tutte le operazioni... P.M.: E più o meno quando eravamo? LIVOLSI: Eh, questo non... non ricordo, ma dovrei collocarlo, prima del... del luglio del... del 2005.

Il ruolo di Rossi

Il giorno dopo i pubblici ministeri convocano il professor Guido Rossi. Argomento: le mosse del patto sindacale di Rcs. «All' inizio del mese di giugno - dice - venni incaricato dal patto di sindacato di Rcs non tanto di prendere contatti, quanto di sentire la persona incaricata dal gruppo Magiste a proposito delle azioni della Rcs acquistate dal gruppo Magiste. La persona era il professor Natalino Irti. P.M.: Può dirci esattamente il tipo di incarico che lei ha ricevuto? ROSSI: Il patto era interessato a sapere dove sarebbero finite quelle azioni... se effettivamente c' era l' intenzione di fare una scalata alla Rcs perché... temeva che un' Opa sulla Rcs avrebbe potuto creare qualche difficoltà all' interno del patto di sindacato non essendo sicuro che gli amministratori dei singoli pattisti, avendo un prezzo di Opa magari estremamente interessante, potessero rinunciare al patto e portare le azioni in Opa. P.M.: Lei ha avuto un mandato esplorativo... scritto?... Lei è a conoscenza del fatto che tutti i componenti del patto hanno avuto conoscenza dell' incarico a lei? ROSSI: Guardi, erano tutti a conoscenza della mia azione se posso... divagare, che tutti mi hanno pagato la parcella che ho chiesto... singolarmente, perché è stato diviso e il l' ho mandato al patto e tutti hanno pagato la loro quota in relazione alle azioni, quindi certamente erano a conoscenza... P.M.: Ha mai incontrato Ricucci? ROSSI: No, mai incontrato... Non l' ho proprio mai visto se non in fotografia.

* * * INTERROGATI

ROMANO COMINCIOLI. Ha detto al pm: «Ricucci mi chiese di avere un incontro con Berlusconi, per avere coperture politiche, come avrà fatto con altri. Non ritenevo fosse il caso»

GUIDO ROSSI. Al pm, a proposito del suo incontro con Irti: «Il patto era interessato a sapere dove sarebbero finite quelle azioni, tutti erano a conoscenza della mia azione»

Sarzanini Fiorenza