Il giudice e lo storico

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CARLO GINZBURG

"IL GIUDICE E LO STORICO"
Einaudi 1991

I

Un leggero spaesamento. Questa è la prima sensazione provata da chi, abituato per ragioni di mestiere a leggere processi inquisitoriali del '500 e del '6oo, comincia a leggere gli atti dell'istruttoria condotta nel 1988 da Antonio Lombardi (giudice istruttore) e Ferdinando Pomarici (sostituto procuratore) a carico di Leonardo Marino e dei suoi presunti correi. Spaesamento, perché questi documenti hanno, contro ogni aspettativa, una fisionomia curiosamente familiare. Ci sono diversità importanti, come la presenza di avvocati difensori, prevista bensí da un manuale inquisitoriale come il "Sacro Arsenale" di Eliseo Masini (Genova 1621) ma a quel tempo raramente messa in pratica. E tuttavia, non diversamente che nelle aule inquisitoriali di tre o quattro secoli fa, gli interrogatori degli indiziati di reato si svolgono in segreto, al riparo dagli sguardi indiscreti del pubblico (addirittura in sedi improprie come caserme dei carabinieri).

Si svolgono - o meglio, si svolgevano. Con l'entrata in vigore del nuovo codice è parzialmente scomparsa dal processo penale italiano l'istruttoria segreta ossia l'aspetto prevalentemente inquisitorio che malamente si accoppiava all'altro, prevalentemente accusatorio, costituito dalla fase dibattimentale'. L'istruttoria condotta da Lombardi e Pomarici contro Marino e i suoi presunti complici è stata una delle ultime (forse addirittura l'ultima) a essere condotta in base al vecchio codice.

Ma l'impressione di continuità col passato che mi aveva colpito immediatamente non era legata soltanto agli aspetti istituzionali della fase istruttoria. Essa era dovuta a una somiglianza piú sottile e specifica con i processi inquisitoriali che conosco meglio quelli contro donne e uomini accusati di stregoneria. In essi la chiamata di correo ha un'importanza cruciale soprattutto quando al centro delle confessioni degli imputati c'è il sabba, il convegno notturno di streghe e stregoni . Talvolta spontaneamente, piú spesso incalzati dalla tortura o dalle suggestioni dei giudici, gli imputati finivano col fare i nomi di quanti avevano partecipato con loro ai riti diabolici. In questo modo un processo poteva (come di fatto spesso avvenne) generarne cinque, dieci, venti, fino a coinvolgere comunità intere. Ma l'Inquisizione romana, erede dell'inquisizione medievale (o, come viene anche chiamata, vescovile) che aveva dato un impulso decisivo alla persecuzione della stregoneria, fu anche la prima a porsi dei dubbi sulla legittimità giuridica di questo tipo di procedura. All'inizio del '6oo negli ambienti della Congregazione romana del Sant'Uffizio fu redatto un documento, intitolato Instructio pro formandis processibus in causis strigum, sortilegorum & maleficiorum («Istruzione sul modo di procedere nei processi di streghe, di sortilegi e di malefici»), che segnava rispetto al passato una svolta netta. L'esperienza, vi si diceva, mostra che fino ad oggi i processi di stregoneria non sono stati condotti quasi mai in base a criteri accettabili'. I giudici dei tribunali inquísitoriali periferici venivano perciò avvertitiattraverso « esquisite diligenze giuditiali » avrebbero dovuto controllare tutte le affermazioni degli imputati; rintracciare, se possibile, i corpi del reato; provare che guarigioni o malattie non erano riconducibili a cause naturali.

Anche il processo di cui voglio parlare s'impernia su una figura di imputato-teste, di un imputato che è contemporaneamente accusatore di se stesso e di altri. Le autoaccuse di Leonardo Marino sono il punto d'arrivo di una tragica sequenza di fatti notissimi. Li ricordo brevemente. Il 12 dicembre 1969, al culmine della stagione di scioperi e lotte operaie nota sotto il nome di « autunno caldo », scoppia a Milano, in una sede della Banca dell'Agricoltura, una bomba che uccide 16 persone (un'altra morrà di lí a poco) e ne ferisce 88. Due giorni dopo la polizia arresta un anarchico, Pietro Valpreda, che i giornali moderati (primo fra tutti il « Corriere della Sera ») presentano all'opinione pubblica come l'autore dell'attentato. Il ferroviere anarchico Giuseppe (Pino) Pinelli viene convocato nella questura di Milano per accertamenti. Passano tre notti, e il corpo di Pinelli vola giú dalla finestra dell'ufficio del commissario Luigi Calabresi, dove in quel momento si trovavano un ufficiale dei carabinieri e quattro agenti di polizia. Un giornalista trova Pinelli steso al suolo, ormai privo di conoscenza. Due ore dopo, in un'improvvisata conferenza stampa notturna, il questore di Milano, Marcello Guida, dichiara ai giornalisti che Pinelli, messo di fronte alle prove inoppugnabili della sua complicità nell'attentato eseguito da Valpreda, si era gettato dalla finestra gridando « E' la fine dell'anarchia ». .Successivamente la circostanza viene smentita. Si dice che Pinelli, in una pausa dell'interrogatorio, si è accostato alla finestra per fumare una sigaretta colto da un malore, è precipitato. A queste versioni contrastanti se ne contrappone una terza, che comincia a circolare insistentemente nell'ambito della sinistra (extraparlamentare e non) Pinelli, colpito da un agente con un colpo mortale di karaté, era stato gettato dalla finestra dell'ufficio di Calabresi già cadavere. Nel 1969 il gruppo Lotta Continua comincia sui propri organi di stampa una violenta campagna contro Calabresi, il commissario che conduceva l'interrogatorio, accusandolo di essere l'assassino di Pinelli Dopo alcuni mesi Calabresi querela il giornale
« Lotta Continua » per diffamazione. Nel corso del processo, il 22 ottobre 1971, viene decisa la riesumazione del cadavere di Pinelli. Poco dopo l'avvocato di Calabresí ricusa il presidente della Corte il processo viene rinviato a nuovo ruolo. Il 17 maggio 1972 Calabresi viene ucciso con due colpi di pistola sotto il portone della propria casa. Nessuno rivendica l'assassinio. Il giorno dopo un commento apparso sul quotidiano « Lotta Continua » ne dà un giudizio sostanzialmente favorevole (« un atto in cui gli sfruttati riconoscono la propria volontà di giustizia ») ma non lo fa proprio. Qualche tempo dopo vengono indiziati del crimine alcuni estremisti di destra un procedimento poi lasciato cadere per mancanza di prove. Passano sedici anni. Il 19 luglio 1988 un ex operaio della Fiat, già militante di Lotta Continua - Leonardo Marino - si presenta alla stazione dei carabinieri di Ameglia (non lontano da Bocca di Magra, dove vive con la famiglia) dicendo di essere in preda a una crisi di coscienza e di voler confessare vari reati connessi alla sua passata militanza politica. (La cronologia del pentimento che viene data qui è quella diffusa inizialmente, non quella emersa due anni dopo nel corso del processo). Il 20 luglio Marino viene condotto negli uffici del nucleo operativo dei carabinieri di Milano, dove vengono verbalizzate le sue prime dichiarazioni. Il giorno dopo, alla presenza del sostituto procuratore Ferdinando Pomarici, dichiara di aver preso arte, oltre che a una serie di rapine commess tra il 1971 e il 1987, all'uccisione di Calabresi. Essa era stata decisa (sempre secondo la versione di Marino) a maggioranza dall'esecutivo nazionale di Lotta Continua. Lui stesso, Marino, era stato incitato a partecipare all'azione da uno dei dirigenti del gruppo, Giorgio Pietrostefani; aveva acconsentito solo dopo aver avuto (a Pisa, dopo un comizio) una conferma esplicita della decisione da arte di Sofri, a cui era particolarmente legato; qualche giorno dopo l'incontro con Sofri si era recato a Milano e aveva aspettato sotto la casa di Calabresi insieme a Ovidio Bompressi; subito dopo l'omicidio aveva fatto salire Bompressi, l'esecutore materiale, su un'automobile rubata tre sere prima ed era fuggito. Tutto ciò raccontato con grande abbondanza di particolari. Ma i racconti, anche minuziosi, di un imputato-teste non costituiscono una garanzia sufficiente se n'erano accorti già i giudici dell'Inquisizione romana all'inizio del '6oo rileggendo i processi di stregoneria celebrati dai loro colleghi. Una confessione, per essere attendibile, dev'essere corroborata da riscontri oggettivi.

Vedremo tra poco come i giudici del processo contro i presunti autori dell'assassinio di Calabresi abbiano affrontato questa difficoltà. Fin d'ora però va sottolineato che trovare prove o riscontri oggettivi è un'operazione che accomuna non solo gli inquisitori di trecentocinquant'anni fa ai giudici di oggi, ma anche gli storici di oggi agli uni e agli altri. Su quest'ultima convergenza, e soprattutto sulle sue implicazioni, vale la pena di soffermarsi.

II

I rapporti tra storia e diritto sono sempre stati strettissimi da quando, duemilacinquecento anni fa, il genere letterario che chiamiamo « storia » emerse in Grecia. Se la parola «storia» (historia) deriva dal linguaggio medico, la capacità argomentativa che essa implica proviene invece dall'ambito giuridico. La storia come attività intellettuale specifica si costituisce (come Arnaldo Momigliano ci ha ricordato alcuni anni fa) all'incrocio tra medicina e retorica esamina casi e situazioni cercandone le cause naturali secondo l'esempio della prima, e li espone seguendo le regole della seconda - un'arte di persuadere nata nei tribunali'.

Nella tradizione classica, all'esposizione storica (come, d'altronde, alla poesia) si richiedeva, in primo luogo, una qualità che i Greci chiamavano "enargheia", e i Latini, "evidentia in narratione" la capacità di rappresentare con vividezza personaggi e situazioni. Al pari di un avvocato, lo storico doveva convincere attraverso un'argomentazione efficace che fosse in grado eventualmente di comunicare l'illusione della realtà non attraverso la produzione di prove o la valutazione di prove prodotte da altri'. Queste ultime erano attività proprie degli antiquari e degli eruditi; ma fino alla seconda metà del '700 storia e antiquaria costituirono ambiti intellettuali del tutto indipendenti, frequentati di norma da individui diversi'. Allorché un erudito come il gesuita Henri Griffet, nel suo "Traité des diffièrentes sortes de preuves qui servent à établir la vérité de l'histoire (1769), paragonò lo storico a un giudice che vaglia attentamente prove e testimonianze, manifestò un'esigenza ancora insoddisfatta, anche se probabilmente ormai avvertita da piú parti. Essa doveva esser realizzata pochi anni dopo con "The Decline and Fall of the Roman Empire" (Il declino e la caduta dell'impero romano, 1776) di Edward Gibbon la prima opera che fondeva con successo storia e antiquaria'.

Il paragone tra storico e giudice era destinato a una grande fortuna. Nella famosa battuta, pronunciata originariamente da Schiller, "Die Weltgeschichte ist das Weltgericht", Hegel condensò, nel duplice significato di "Weltgericht" (« tribunale del mondo » ma anche « giudizio universale »), il succo della propria filosofia della storia la secolarizzazione della visione cristiana della storia universale (Weltgeschichte) ". L'accento cadeva sulla sentenza (con l'ambiguità che si è detta) ma si imponeva allo storico di giudicare figure e eventi in base a un principio - gli interessi superiori dello Stato - tendenzialmente estraneo sia al diritto sia alla moralità. Nel passo di Griffet, invece, l'accento cadeva su ciò che precede la sentenza, ossia sulla valutazione imparziale di prove e testimonianze da parte del giudice. Alla fine del secolo Lord Acton, nella prolusione pronunciata in occasione della nomina a Regius Professor di Storia Moderna presso l'Università di Cambridge (1895), insistette sull'una e sull'altra la storiografia, quand'è basata sui documenti, può ergersi al di sopra delle contese e diventare « un tribunale riconosciuto, lo stesso per tutti » Queste parole riecheggiavano una tendenza che si andava diffondendo rapidamente, alimentata dal clima positivistico dominante. Tra la fine dell'8oo e i primi decenni del '900 la storiografia, soprattutto la storiografia politica - e, in maniera specialissima, la storiografia sulla Rivoluzione francese - assunsero una fisionomia spiccatamente giudiziaria'. Ma, data la tendenza ad associare strettamente passione politica e dovere professionale d'imparzialità, si guardava con diffidenza chi, come Taine (che dal canto suo si era vantato di voler fare della « zoologia morale ») esaminava il fenomeno rivoluzionario con l'atteggiamento di un « giudice supremo e imperturbabile ». Alphonse Aulard, autore di queste parole, cosí come il suo avversario accademico Albert Mathiez, preferirono indossare di volta in volta le vesti del procuratore della Repubblica o dell'avvocato difensore per provare, sulla base di dossiers circostanziati, le responsabilità di Robespierre o la corruzione di Danton. Questa tradizione di requisitorie al tempo stesso politiche e morali, seguite da condanne o assoluzioni, si è protratta a lungo "Un jury pour la Révolution", scritto da uno dei piú noti storici viventi dell'età rivoluzionaria, Jacques Godechot, è del 1974 "
Il modello giudiziario ebbe, sugli storici, due effetti interdipendenti. Da un lato, li indusse a concentrarsi sugli eventi (politici,. militari, diplomatici) che in quanto tali potevano essere ricondotti senza troppe difficoltà alle azioni di uno o piú individui; dall'altro, a trascurare tutti i fenomeni (storia dei gruppi sociali, storia delle mentalità e cosí via) che non si prestavano ad essere racchiusi in questa rete esplicativa. Come in un negativo fotografico riconosciamo, rovesciate di segno, le parole d'ordine attorno a cui si costituí la rivista « Annales d'histoire économíque et sociale », fondata nel 1929 da Marc Bloch e Lucien Febvre rifiuto dell'"histoire événementielle", invito a indagare una storia piú profonda e meno appariscente. Non stupisce di incontrare nelle riflessioni metodologiche redatte da Bloch poco prima di moríre l'ironica esclamazione «Robespierristi, antirobespierristi, fateci grazia per pietà, diteci semplicemente chi era Robespierre». Di fronte al dilemma «giudicare o comprendere? » Bloch optava senza esitare in favore della seconda alternativa". Era, come oggi ci sembra ovvio, l'alternativa storiografica vincente. Per rimanere nell'ambito degli studi sulla Rivoluzione francese, il tentativo di Albert Mathiez di spiegare la politica di Danton attraverso la corruzione sua e dei suoi amici ("La corruption parlementaire sous la Terreur", 1927') appare ormai inadeguato, mentre la ricostruzione della Grande Paura dell'89 di Georges Lefebvre (1932) è diventata un classico della storiografia contemporanea ". Lefebvre non faceva parte del gruppo delle «Annales» in senso stretto ma "La grande paura" non sarebbe mai stato scritto senza il precedente de "I re taumaturghi" (1924) di Bloch, collega di Lefebvre all'Università di Strasburgo'. Entrambi i libri ruotano attorno a eventi inesistenti il potere di guarire gli scrofolosi attribuito ai re di Francia e d'Inghilterra, le aggressioni di bande di briganti al servizio del « complotto aristocratico». A rendere storicamente rilevanti questi eventi fantomatici è stata la loro efficacia simbolica, ossia l'immagine che se ne faceva una miriade di individui anonimi. E' difficile supporre qualcosa di piú remoto dalla storiografia moralistica ispirata a un modello giudiziario.

Del suo diminuito prestigio, che ha accompagnato il rarefarsi della figura di storico convinto di interpretare le ragioni superiori dello Stato, dobbiamo certo rallegrarci. Ma mentre una ventina d'anni fa era possibile sottoscrivere senz'altro la netta disgíunzione tra storico e giudice operata da Bloch, oggi le cose appaiono piú complicate. La giusta insofferenza nei confronti della storiografia ispirata a un modello giudiziario tende sempre piú spesso a coinvolgere anche ciò che giustificava l'analogia tra storico e giudice formulata, forse per la prima volta, dall'erudito gesuita Henri Griffet la nozione di prova. (Ciò che sto per dire si riferisce solo in minima parte a fenomeni italiani. Parafrasando una frase di Brecht, si potrebbe dire che le cattive vecchie cose - a cominciare dalla filosofia di Giovanni Gentile, invisibilmente presente nel nostro paesaggio culturale - ci hanno protetto dalle cattive cose nuove").

Per molti storici, la nozione di prova è fuori moda come quella di verità, a cui è legata da un vincolo storico (quindi non necessario) molto forte. Le ragioni di questa svalutazione sono molte, e non tutte di ordine intellettuale. Una è certo la fortuna ipertrofica assunta di qua e di là dell'Atlantico, in Francia e negli Stati Uniti, dal termine « rappresentazione ». Dato l'uso che se ne fa, esso finisce col creare in molti casi attorno allo storico un muro insormontabile. La fonte storica tende a essere esaminata esclusivamente in quanto fonte di se stessa (del modo in cui è stata costruita) e non di ciò di cui parla. In altre parole, si analizzano le fonti (scritte, figurate ecc.) in quanto testimonianze di « rappresentazioni » sociali ma al tempo stesso si respinge, come un'imperdonabile ingenuità positivistica, la possibilità di analizzare i rapporti che intercorrono tra queste testimonianze e le realtà da esse designate o rappresentate ". Ora, questi rapporti non sono mai ovvi definirli in termini di rispecchiamento sarebbe, questo sí, ingenuo. Sappiamo bene che ogni testimonianza è costruita secondo un determinato codice attingere la realtà storica (o la realtà) in presa diretta è per definizione impossibile. Ma inferire da ciò l'inconoscibilità della realtà significa cadere in una forma di scetticismo pigramente radicale che è al tempo stesso insostenibile da un punto di vista esistenziale e contraddittorio dal punto di vista logico come si sa, la scelta fondamentale dello scettico non è sottoposta al dubbio metodico che egli dichiara di professare ".

Per me, come per molti altri, le nozioni di «prova » e « verità » sono invece parte costitutiva del mestiere dello storico. Ciò non implica, ovviamente, che fenomeni inesistenti o documenti falsificati siano storicamente poco rilevanti Bloch e Lefebvre ci hanno insegnato da tempo il contrario. Ma l'analisi delle rappresentazioni non può prescindere dal principio di realtà. L'inesistenza delle bande di briganti rende piú significativa (perché piú profonda e rivelatrice) la paura dei contadini francesi nell'estate dell'89. Uno storico ha il diritto di scorgere un problema là dove un giudice deciderebbe un « non luogo a procedere ». E una divergenza importante, che però presuppone un elemento che accomuna storici e giudici l'uso della prova. Il mestiere degli uni e degli altri si fonda sulla possibilità di provare, in base a determinate regole, che x ha fatto y dove x può designare indifferentemente il protagonista, magari anonimo, di un evento storico o il soggetto di un procedímento penale; e y, un'azione qualsiasi'.

Ma raggiungere una prova non è sempre possíbile; e quand'anche sia possibile, il risultato apparterrà sempre all'ordine della probabilità (magari del novecentonovantanove per mille) e non della certezza ". Qui s'innesta un'ulteriore divergenza una delle tante che segnano, al di là della contiguítà preliminare di cui si è detto, il profondo discrimine che separa storici e giudici. Cercherò di delinearlo a poco a poco. Emergeranno allora le implicazioni, e i limiti, della suggestiva analogia suggerita da Luigi Ferrajoli « E processo è per cosí dire il solo caso di "esperimento storiografico" in esso le fonti sono fatte giocare de vivo, non solo perché sono assunte direttamente, ma anche perché sono messe a confronto tra loro, sottoposte ad esami incrociati e sollecitate a ríprodurre, come in uno psicodramma, la vicenda giudicata » ".

III

Di uno di questi esperimenti storiografici ho consultato i verbali le trascrizioni degli interrogatori raccolti nella fase istruttoria dal giudice Antonio Lombardi, l'ordinanza-sentenza di rinvio a giudizio da lui redatta, le trascrizioni del dibattimento nella Corte d'Assise di Milano presieduto da Manlio Minale, le requisitorie del sostituto procuratore Ferdinando Pomarici, le arringhe degli avvocati difensori, piú vario materiale di contorno riguardante Leonardo Marino e i suoi presunti complici. In tutto, circa tremila pagine. Dell'inattesa (e perciò sconcertante) sensazione di familiarítà che avevo provato leggendo gli interrogatori raccolti dal giudice istruttore, ho già detto. Naturalmente questa sensazione è molto diminuita allorché sono passato alla fase dibattimentale. Il dialogo tra le parti, continuamente filtrato e mediato dal presidente, crea un'atmosfera completamente diversa da quella del processo inquisitoriale. Inversamente (e paradossalmente) la vivezza delle trascrizioni dal nastro magnetico del dibattimento svolto in aula è molto píú vicina ai verbali inquisitoriali di quanto non lo sia l'inamidato linguaggio burocratico in cui sono trascritti (e distorti) gli interrogatori della fase istruttoria, che è invece piú prossima da un punto di vista giuridico al processo inquisitoriale. Certo si tratta, nell'un caso e nell'altro, di trascrizíoni nel passaggio dall'oralità alla scrittura vanno perduti intonazioni, esitazioni, silenzi, gesti. Vanno perduti, ma non del tutto. Spesso, seguendo senza saperlo le orme dei notai del Sant'Uffizio, i trascrittori registrano tra parentesi lacrime, risa, risposte mancate o pronunciate con particolare foga". Qui la trascrizione è già interpretazione, e condiziona le interpretazioni successive elaborate in un futuro prossimo (per esempio da me che scrivo) o remoto'.

Non ho mai preso in considerazione la possibilità di partire da questo materiale documentario per ricostruire da un punto di vista storico le vicende che erano state oggetto di giudizio. Non volevo e in ogni caso non avrei saputo farlo. I miei obiettivi erano molto piú limitati un'analisí degli atti volta a sottolineare le divergenze e le convergenze tra storici e giudici. Queste ultime poggiano, come ho già detto, anzitutto sull'uso della prova. Ma a differenza dei giudici (e degli storici che si occupano di storia orale) io non sono in grado di partecipare alla produzione delle fonti che analizzo. Posso soltanto, con l'aiuto talvolta solidale, talvolta antagonistico di chi mi ha preceduto (giudici, testimoni, imputati, trascrittori) partecipare alla loro decifrazione.

« Le dichiarazioni confessorie del Marino - scrive il giudice istruttore Antonio Lombardi nella sua ordinanza-sentenza, al capitolo "Le fonti di prova", - costituiscono [...] per qualità e quantità, la fonte di prova dominante di questo processo». La loro sincerità (spiega il giudice istruttore) è indubbia. Nell'animo di Marino è maturato a poco a poco un disgusto irrefrenabile per i crimini commessi. Un impulso etico profondo lo ha spinto a denunciare sé e gli ex compagni

« Da diversi anni dentro di me - comincia la confessione resa spontaneamente da Marino - si andava radicando il convincimento dettatomi dai sentimenti morali e religiosi di confessare alle competenti autorità fatti e circostanze che mi hanno visto coinvolto tra la fine degli anni '60 e gli inizi degli anni '70 allorché militavo nelle file del movimento extraparlamentare "Lotta Continua". Pur essendo certo che nessun sospetto potesse essere mai stato rivolto nei miei confronti, anche perché non ho mai avuto a che fare con la giustizia, dentro di me è sorto da 3-4 anni un imperativo, l'esigenza di rendere conto di quanto da me fatto in un contesto politico dal quale mi sono distaccato da oltre 15 anni [...] Anche se forse ritengo che molti non possono credermi, io ho deciso di confessare quanto da me fatto od a mia conoscenza soprattutto per un rispetto verso questi ragazzi [i due figli] » (inf test., p.I) ".
Le rapine a cui aveva partecipato (almeno quelle anteriori al 1976) erano state compiute - dice Marino - da una struttura illegale di Lotta Continua che faceva capo a Pietrostefani. Quanto all'omicidio di Calabresi, era stato discusso in una riunione dell'esecutivo di Lotta Continua, messo ai voti e approvato a maggioranza. Dietro i responsabili materiali, i militanti di base Bompressi e Marino, vediamo profilarsi i mandanti, due dirigenti prestigiosi come Sofri e Pietrostefani, che coinvolgono i massimi livelli dell'organizzazione. A uccidere Calabresi è stata dunque, nel senso piú pieno del termine, Lotta Continua.

Ma il giudice istruttore sa bene che l'asserita sincerità del pentimento di Marino non basta a garantire la veridicità delle sue confessioni. «Esse hanno trovato spesso concordanze nelle dichiarazioni rese sullo stesso punto da testimoni e (in ordine ad importanti dettagli) anche da altri imputati; hanno trovato infine inequivoci riscontri in accertamenti di polizia giudiziaria, sopralluoghi, perizie su armi ». Certo, continua il giudice istruttore « non tutte le dichiarazioni sono sempre circostanziate e meticolose nei particolari; a volte esse sono "de relato"; piccoli errori, dimenticanze, imprecisioni, sovrapposizioni di ricordi, sono sempre inevitabilmente presenti nella ricostruzione di episodi cosí numerosi avvenuti tanti anni prima [...] Questi piccoli errori tuttavia sono stati, ad avviso del Giudice Istruttore, superati dal controllo attento dei riferimenti collegati alle chiamate di correo» (Ordinanza-sentenza, pp. 70-71) . Qui i « piccoli errori » si configurano come ostacoli marginali, poi
« superati ». Piú avanti essi diventano invece una garanzia di autenticità « La valutazione della chiamata in correità va [...] fatta in termini realistici; pretendere che nella narrazione di numerosissimi fatti e circostanze si abbia un racconto totalmente privo di errori o di marginali contraddizioni equivarrebbe a pretendere delle capacità sovrumane nel dichiarante, nella specie Marino; il racconto dello stesso manifesta talora la propria spontaneità proprio attraverso l'esistenza di piccoli errori o marginali contraddizioni nel narrare i fatti di tanti anni fa. Il problema di fondo è quello di stabilire se l'eventuale piccolo errore o contraddizione sia tale da compromettere la validità probatoria di tutto il racconto. E ciò ad avviso del Giudice Istruttore è decisamente da escludere in riferimento alla serrata narrazione dell'imputato, » (Ordinanza-sentenza, pp. 91-92).

Vediamo allora i « piccoli errori » che, come riconosce nell'ordinanza-sentenza il giudice Lombardi, Marino ha commesso nel raccontare l'assassinio di Calabresi.

a) Il colore della Fiat 125 rubata e poi usata nell'agguato .
Era blu, non beige come aveva sostenuto in un primo tempo (in seguito disse di essersi confuso con una macchina rubata a Massa per compiere una rapina).

b) La via seguita per allontanarsi dal luogo del delitto .
Nella confessione resa in istruttoria Marino dichiarò di aver lasciato via Cherubini imboccando via Giotto o via Belfiore verso piazza Wagner. Dalle testimonianze oculari risulta invece che gli attentatori presero via Cherubini svoltando in via Rasori, diretti verso via Ariosto angolo via Alberto da Giussano, dove abbandonarono la 125 blu col motore acceso (vedi cartina). Allorché Adriano Sofri rilevò in istruttoria questa clamorosa discordanza gli inquirenti replicarono che Marino, poco pratico dei nomi delle vie di Milano', aveva descritto la via di fuga utilizzando una cartina stradale che il pubblico ministero gli aveva « sottoposta a rovescio ». - « [Marino] - si legge nell'ordinanza-sentenza, - prendendo in esame Via Cherubini in senso inverso, indicando di aver svoltato subito a destra, ha letto il nome di Via Giotto o Via Belfiore anziché Via Rasori». Ora, la goffa espressione usata dagli inquirenti - « sottoposta a rovescio » vuole evidentemente indicare che la cartina stradale era orientata, rispetto a chi la usava (Marino), in direzione sud-nord anziché nord-sud.
A questo punto due ipotesi sono possibili Marino, per poter leggere i nomi delle strade, questi sí scritti « a rovescio », chiede al pubblico ministero di voltare la cartina secondo il verso normale nord-sud; oppure, non riuscendo a decifrare i nomi delle strade, indica la via percorsa al pubblico ministero. In entrambi i casi costui non si accorge che il percorso indicato da Marino contraddice, oltre alle descrizioni dei testimoni oculari, il luogo in cui è stata ritrovata la 125 blu. Nel tentativo di coprire la propria sciatteria gli inquirenti promuovono a pieni voti l'imputato pasticcione « In conclusione il Marino ha quindi descritto perfettamente la via di fuga principale e quella subordinata (poi effettivamente seguita) » (p. 257).

In questo caso la versione di Marino è stata riconosciuta come erronea (anche se con un certo ritardo) dal giudice Lombardi e dal sostituto procuratore Pomarici. Non c'erano alternative è chiaro che qualsiasi descrizione della via di fuga doveva necessariamente portare alla 125 blu abbandonata dagli attentatori in via Ariosto angolo via Alberto da Giussano. Ma in complesso l'istruttoria dà della confessione di Marino una valutazione ben diversa. Nel capitolo dell'ordinanza- sentenza intitolato "I riscontri", dedicato alla preparazione ed esecuzione dell'omicidio Calabresi, si afferma (p. 264) che il racconto di Marino non solo « collima perfettamente » con la ricostruzione compiuta dalla polizia ma addirittura consente di «rivederne... alcune inesattezze ». In altre parole, anziché cercare riscontri oggettivi alla confessione dell'imputato, l'istruttoria si serve di quest'ultima come di una pietra di paragone per vagliare (ed eventualmente scartare) i racconti dei testimoni oculari.

continua...

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Buona parte del libro di Carlo Ginzburg "Il giudice e lo storico" si può leggere qua:

http://books.google.it/books?id=3tgexNZ8V6gC

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«Preferirò sempre che la giustizia venga danneggiata piuttosto che negata» - "Leonardo Sciascia" -

Scritto da Pasquale Vitagliano
sabato 12 luglio 2008

...Ci mancano la penna e la spada di Leonardo Sciascia», ha scritto Vincenzo Consolo nel 2004 in un articolo su «Liberazione». Eppure, c’è il sospetto che al salotto buono della cultura italiana non manchi affatto quel “politicamente scorretto” che denunciò i “professionisti dell’antimafia”; quello che ebbe il coraggio di indicare nella figura del giudice-legislatore il pericolo di un potere fondato sulla virtù ma senza possibilità di verifica. Non è possibile appropriarsi di Sciascia. «Di volta in volta sono stato accusato», diceva di se stesso, «di diffamare la Sicilia o di difenderla troppo; i fisici mi hanno accusato di vilipendere la scienza, i comunisti di avere scherzato su Stalin, i clericali di essere un senza Dio. (…) Il fatto è che i cretini, e ancor più i fanatici sono tanti; godono di una così buona salute non mentale che permette loro di passare da un fanatismo all’altro con perfetta coerenza».

La sua più tragica profezia è stata quella di intuire che il terreno sul quale si sarebbe realizzato il più grande incontro di questi fanatismi sarebbe stato la giustizia: la sua amministrazione, il ruolo dei magistrati, il loro inevitabile quanto pericoloso inserirsi nel vuoto della politica.

Due casi emblematici su tutti: il caso Tortora nel 1983 e il caso Sofri nel 1988: due affairs giudiziari che hanno dimostrato quanto l’Italia della manzoniana colonna infame non fosse molto lontana dall’Italia-da-bere di quegli anni. E neppure da quella di oggi: l’Italia della Seconda Repubblica, che Sciascia non ha potuto conoscere e giudicare.

E’ passato molto tempo dalla sua morte, il mondo è cambiato e la sensibilità sociale, forse, si è ribaltata. Un rimedio per i mali della giustizia? «Paradossale quanto si vuole, sarebbe quello di far fare ad ogni magistrato, una volta superate le prove d’esame e vinto il concorso, almeno tre giorni di carcere fra i comuni detenuti, e preferibilmente in carceri famigerate come l’Ucciardone o Poggioreale.» Immaginate se questa frase fosse stata pronunciata da Sciascia oggi, negli anni di Berlusconi, dei Girotondi e de Il Caimano.

Da che parte, dunque, starebbe oggi Leonardo Sciascia, il più lucido e severo intellettuale italiano della fine del XX secolo? Dalla parte della democrazia, della libertà e della giustizia, che per lui rischiavano di essere ridotti a “puri nomi”. Allora. Ed oggi?

Il 10 gennaio 1987 scoppiava il caso dell’articolo su I professionisti dell’antimafia. La tesi dell’articolo è semplice eppure rigorosa: «la soluzione dei problemi legati alla mafia dovrà passare attraverso il diritto, la legge, o non ci sarà soluzione, perché sarebbe come opporre alla mafia un’altra mafia, come avvenne durante il fascismo. Non si può fare antimafia lasciando che lo Stato, che le città marciscano nella corruzione e nel disservizio». L’antimafia può diventare strumento di potere: «può benissimo accadere anche in un sistema democratico, retorica aiutando e spirito critico mancando».

La forza di queste parole non stava solo nella lucidità dell’analisi. Ma, ancora una volta, nella potenza profetica, capace di scavalcare i confini stessi dell’oggetto della sua analisi. Cosa avrebbe detto, in piena tangentopoli, della via giudiziaria alla riforma della politica, della via carceraria alla lotta alla corruzione? Non avrebbero potuto quelle parole bene adattarsi anche a questo oggetto di analisi storica? Poteva esserci lotta vera alla corruzione e al malcostume senza rispetto del diritto, in nome di una solo presunta e proclamata virtuosità dell’azione giudiziaria, con tanto di tintinnio di manette?

Nella lotta alla mafia, Sciascia fu collocato dal coordinamento antimafia «ai margini della società civile». Dove lo avrebbero collocato i virtuosi dei girotondi? «Sciascia combatte Sciascia», scriveva Pansa, richiamando involontariamente un qualche tradimento dei chierici. E invece Sciascia era Sciascia. Come oggi, vent’anni dopo, Pansa non combatte Pansa, quando con i suoi libri ricorda gli eccidi del triangolo rosso e rivela le ombre della lotta partigiana, rimosse dalla retorica dell’antifascismo.

Va detto che lo difesero in pochi. La maggior parte degli intellettuali pretese l’abiura: se non ti piacciamo noi che combattiamo la mafia… Allora ti piace la mafia.

Sciascia rimase inflessibile. Anzi, dette A Futura Memoria il patrimonio di idee e battaglie che avrebbero dovuto costituire il suo non negoziabile lascito di pensiero e azione. Respingere il garantismo, quale richiamo non retorico, non intermittente ed equilibrato al diritto e alla costituzione, sarebbe stato un errore incalcolabile. Nella lotta alla mafia, come anche, malgrado la sua assenza, nella lotta alla corruzione politica.

«Preferirò sempre che la giustizia venga danneggiata piuttosto che negata», questa l’eredità più duratura, non solo di un uomo libero, ma di uno degli ultimi testimoni di una tradizione di pensiero critico ed autonomo, contro «l’intolleranza del pensiero totalizzante», come scriveva Piero Ostellino in quei giorni di polemica.
E' curioso leggere sulla pagina che apre un libro che a Sciascia sarebbe piaciuto: «Un leggero spaesamento. Questa è la prima sensazione provata da chi, abituato per ragioni di mestiere a leggere processi inquisitoriali del ‘500 e del ‘600, si accosti agli atti dell’istruttoria condotta nel 1988 da Antonio Lombardi e Ferdinando Pomarici a carico di Leonardo Marino e dei suoi presunti correi.» Chi è abituato ad occuparsi di Inquisizione è lo storico Carlo Ginzburg. L’inchiesta è quella sull’omicidio Calabresi, per il quale Adriano Sofri oggi è in carcere. Il libro è Il Giudice e lo Storico, considerazioni in margine al processo Sofri. La presenza di Sciascia, dell’ombra e del riflesso del suo pensiero, te la porti accanto per tutta la lettura di questo libro, dall’inizio alla fine.

Quale giustizia, dunque? Questa è la domanda che ti resta nel fondo e si ripete ossessivamente. Può essa arrivare a negare se stessa proprio nel momento in cui raggiunge la punta più alto di sacrificio degli uomini che la incarnano?

A Consolo, come a noi tutti, Sciascia manca. Manca la sua lucida visione profetica. Ma sarebbe ben povera cosa se tra i suoi lasciti ci fosse principalmente la visione del fallimento del Psi: «quel partito socialista – sono parole di Consolo – che alla sua fine, come frutto avvelenato, ci avrebbe lasciato in eredità un uomo e un partito: Berlusconi e Forza Italia, del cui potere o strapotere tutti soffriamo e di cui ci vergogniamo».

E, invece, ci manca l’ostinata volontà di non chiudere mai il cerchio della comprensione dei fatti umani con rassicuranti e troppo corrette conclusioni; di rimandare la risposta ad ogni dilemma un po’ più in là, per mezzo di una nuova questione, di un nuovo dubbio, di una diversa osservazione. Ci manca la tenace forza di metterci continuamente in discussione.

Quando Sciascia riusciva ad anticipare quello che sarebbe accaduto nel nostro paese intorno agli anni ’70, lui si schermiva: «Non sono un profeta, ma leggo la realtà e due più due fa quattro».

Ecco allora che, dopo la battaglia sui “professionisti dell’antimafia”, avremmo voluto sentire la sua voce, la sua riflessione adagiarsi tormentata, eppure sempre lucida, sulle stragi di Capaci e di Via Amelio. Ricevere da lui, in quei momenti di smarrimento e di resa, un barlume di comprensione. Di ascoltare un ragionamento in grado di conciliare il garantismo con il sacrificio delle vite umane, il diritto formale con la giustizia quotidiana.

Allo stesso modo, Sciascia ci è mancato al momento del crollo della politica, quando le monetine dell’Hotel Rafael consegnarono le istituzioni, nel vuoto di potere, all’azione delle Procure. Anche allora sarebbe stato decisivo ascoltare dalla sua voce come conciliare la separazione dei poteri con la degenerazione della partitocrazia; lo straripamento di potere dei giudici con l’incapacità della politica di auto-emendarsi. C’è stato, invece, il silenzio della ragione, nel rimpianto struggente di non avere alcuna voce capace di indicare una rotta, di indicarci, senza indulgenze, se sono stati più grandi i nostri torti o le nostre ragioni.

Ha scritto il filosofo Gustaw Herling che «per anni l’antimafietà è stata la misura di tutto. Con l’eccezione di Sciascia: gli altri facevano e fanno romanzi sulla mafia, però, solo lui seppe portare la mafia dentro la sua narrativa e i suoi saggi bellissimi.» Opere che partivano dall’Onorata Società, in realtà, parlavano del “limite del mondo”.

«Contraddisse e si contraddì», diceva Leonardo Sciascia di se stesso. E questa è la sua più stringente eredità. Ed ancora, con le parole di Candido Munafò, «la morte è terribile non per il non esserci più ma, al contrario, per l’esserci ancora e in balia dei mutevoli sentimenti, dei mutevoli pensieri di coloro che restano» (Candido ovvero un sogno fatto in Sicilia). Ci ha lasciato il coraggio di fare i conti con il limite umano; con i suoi libri e i suoi articoli ci ha condotto per mano su quella debole corda che separa, anzi no, unisce il giusto e il torto; la forza della denuncia e la mansuetudine della comprensione; l’anelito ad un mondo migliore e la pesante difesa della ragione e del diritto.

E ci ha così fatto vincere la paura di sbagliare, di cadere. Ma oggi siamo rimasti soli. Un po’ meno capaci di leggere la realtà di oggi.

Da: www.giustiziagiusta.info

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Mentre gli italiani continuano a dividersi quasi in due e alla fine delle elezioni nulla sembra cambiato per i lavoratori, rispunta il passato. Adriano Sofri, il quasi innocente già condannato con rigore a distanza di 15 anni per il delitto Calabresi, ha voluto ricordare una sua vecchia storia.
Qualcuno molto in alto dei servizi segreti civili, l’Ufficio Affari Riservati, lo avrebbe avvicinato tanto tempo fa proponendogli di fare un omicidio in due: lo Stato e il leader di Lotta continua. Io ci credo. Non vi è nessun motivo perché oggi Sofri debba mentire. E se non ha raccontato tutto lo ha fatto per clemenza verso questo Stato, che ha tanti difettima si è fatto moderno e che quella stessa clemenza non gli ha dimostrato. Bisogna credergli, e riflettere. Negli anni Sessanta e Settanta era perfettamente logico guadagnarsi l’antagonista scomodo e sovversivo con abili minacce intervallate
da ricchi premi e cotillons. Tessere intrighi e allargare le fila dei collaboratori occulti, proteggendoli, era la regola dei grandi strateghi. È stato fatto, ne abbiamo le prove:
assassini dell’estrema destra, fomentatori di rivolte, alimentatori di propaganda armata che nelle stanze del Vicinale andavano poi alla cassa incamerando denaro e armi ci sono stati. Un vecchio Ministro, nel nome della crociatadella guerra fredda, chiedeva addirittura statistiche addomesticate:
gli attentati di sinistra dovevano essere superiori di numero a quelli della destra. Se poi all’attentato fatto dall’estrema destra seguiva una strage, l’involontario errore doveva essere coperto, e con esso lo stratega di turno. Gli esperti lo sanno. Gli storici cominciano a capirlo. Sofri ha solo voluto ricordare tutto questo. Fiumi di carte processuali hanno dimostrato che mentre le formazioni armate
dell’extrasinistra colpivano vicino al cuore dello Stato, e i brigatisti un po’ più al centro, gli apparati di sicurezza militari e civili, su delega di quelli americani, o assieme a loro, facevano la corsa per intruppare i “civili” in strutture paramilitari ingigantendo la controinformazione, spiando persino cattolici come don Dossetti. Si deformava l’evoluzione della società civile nel nome di quell’ “emergenza” che sarebbe potuta scaturire al momento dell’invasione delle truppe del patto di Varsavia. Ma quante emergenze reali ci sono state in 25 o 30 anni? Abbiamo mai avuto il dubbio
che quelle formazioni paramilitariservissero per altri scopi? E quanti processi contro alti dirigenti di quei vecchi servizi segreti sono stati veloci o condotti a termine? Sofri non ha motivo di mentire. Ha
aggiunto un pezzo di verità a fatti che non devono essere dimenticati.

Carlo Mastelloni

Magistrato

da E-Polis

Iscritto dal: 21/06/2001
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Marino e i carabinieri, altri misteri. Il parroco: «Li incontrò per mesi...»

di Giuliano Fontani
da Il Tirreno, 25 gennaio 2000

A Bocca di Magra alla ricerca dei testimoni del tempo. Dice don Vincenzo Regolo, parroco del paese: "Ma quale segreto... Prima di confessarlo a me Leonardo Marino ne aveva parlato ad altri, all'amico, all'amico dell'amico. Erano almeno due mesi che questa storia aleggiava sulle acque, come la Creazione del nostro Signore...". Luigi Flavio Bertone, l'ex senatore del Pci e sindaco di La Spezia, non c'è più. E' morto pochi mesi fa. Parla però il suo unico figlio, Vezio, segretario del senatore diessino Lorenzo Forcieri: "Marino venne da me, non ricordo in quale periodo. Voleva parlare con mio padre. Io non lo conoscevo neppure, ma insisté molto, perché aveva cose importanti da riferirgli. Allora dal mio ufficio telefonai a mio papà e gli combinai l'appuntamento".

Il borgo è piccolo e la gente non ha più voglia di parlare di quel "romanzaccio", come Adriano Sofri ha definito la confessione di Leonardo Marino. E tuttavia è da qui che bisogna ripartire per approfondire l'ultima difesa dei tre ex di Lotta Continua condannati per l'uccisione del commissario Calabresi. Forse sarà la battaglia giudiziaria delle prossime settimane e dei prossimi mesi, prima della sentenza della cassazione. Marino confessò spontaneamente ai carabinieri la sua partecipazione all'omicidio? O, sempre per dirla con le parole di Sofri, la strana miscela del risentimento e della vendetta fu consegnata in altro modo all'apparato giudiziario? Alcune date sono sicure. Ufficialmente Leonardo Marino, nel maggio del 1988, consegnò la sua "verità" prima al parroco di Bocca di Magra, don Vincenzo Regolo, poi all'ex senatore Flavio Bertone, l'ex comandante Walter della brigata partigiana "Muccini". Era il tempo in cui la sua donna, Antonia Bistolfi, annotava sul diario strani incontri tra Marino e il Commissario. Due mesi dopo, a luglio, la vicenda "esplode" con i verbali redatti dai carabinieri di Sarzana. Ma altre date, non scritte nelle carte degli otto processi, per quanto ufficiose, sono sicure e ben stampate nella memoria dell'anziano prete che amministra la anime di Bocca di Magra.

"Ufficialmente la confessione ai carabinieri avviene nel mese di luglio. Già, ufficialmente... Ma le cose non sono andate così. I carabinieri erano in contatto con Marino almeno da due mesi, forse di più. Parlavano con lui e lo aiutavano a parlare perché la cosa, come dicevo, aleggiava sulle acque... Mezze parole, qualche frase appena sussurrata. Se ne sono sicuro? Certo, perché sono stato io a scoprire per primo che i carabinieri tenevano d'occhio Marino. Una sera, forse di marzo, mi affaccio sulla porta della chiesa e vedo dei giovani che non conosco fermi davanti ai giardinetti. Li spedii con un urlaccio: cosa ci fate qui? Andate a casa vostra... Vallo a sapere che erano carabinieri in borghese che non si interessavano della chiesa ma della casa di Marino". E giù una risata di gusto: "Eh sì, perché sono un tipo brusco, io..."

Ma ora don Vincenzo si fa serio. Il mondo che ruota intorno alla chiesetta del paese gira forse troppo vorticosamente per i suoi gusti. Ieri pomeriggio, quando gli abbiamo parlato, ancora non sapeva dell'esito del processo di Venezia. Ed è rimasto molto sorpreso della conferma delle condanne, come del nostro interesse a tornare su una storia talmente intricata da riservare delle sorprese anche dopo dodici anni. Molti, dunque, a Bocca di Magra sapevano. Adriano Sofri ne è sempre stato convinto, ma forse non è sulla pista giusta quando ripercorre la storia a ritroso tirando il ballo l'ex senatore Luigi Flavio Bertone. E' di questo parere il suo unico figlio, Vezio: "Mio padre era persona schiva e discreta e neppure a me disse il contenuto di quel colloquio. Ne parlammo solo dopo alcuni mesi, quando il caso finì sui giornali. Ma non vedo cosa c'entri tirare in ballo mio padre o Pecchioli, che sono morti. Vi posso garantire che il mio papà, per cultura, non avrebbe ordito complotti e non avrebbe informato i carabinieri. Forse non gli avrebbe neppure consigliato di andarci dai carabinieri. Al massimo gli avrebbe detto di andare dal magistrato". Procediamo con lo stesso metro: per "cultura" "Walter" Bertone avrebbe riferito quelle confidenze ai vertici del partito? "Questo non lo so" dice Vezio "e dunque non posso neppure escluderlo".

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"Insisto: su Sofri non c'è prova..."

Enrico Deaglio, L'Unità, 14 novembre 1995.

L'Unità mi aveva telefonato venerdì scorso per chiedermi, preventivamente, un commento alla sentenza per il processo Calabresi prevista per sabato mattina, 11 novembre 1995. Avevo risposto che l'avrei scritto, e anche lungo, se li avessero assolti, ma non l'avrei scritto se li avessero condannati. Pensavo però che li avrebbero assolti e che quindi avrei scritto. Sabato alle 11,05 ho saputo che avevano condannato Sofri, Bompressi e Pietrostefani a 22 anni di carcere. Sono rimasto molto colpito - "turbato", "annichilito" sono dei possibili sinonimi - e non ho scritto.

Dopo un dibattimento assolutamente anonimo, disertato dai cronisti e dal pubblico, la Corte si era ritirata in camera di consiglio, a Como, lunedì 6 novembre alle 14 ed aveva discusso del caso fino a venerdì notte. L'ultimo atto del processo (il terzo processo di appello in sette anni) era stato una vibrata dichiarazione di innocenza di Adriano Sofri. Aveva parlato per un'ora e quaranta minuti, appassionato come al solito, ma questa volta anche con un filo evidente di esasperazione nella voce. L'accusa contro di lui, da sette anni, è sempre stata una sola: aver dato a Leonardo Marino il mandato di uccidere il commissario Luigi Calabresi, in una manciata di minuti, ai margini di un comizio a Pisa il 13 maggio 1972, giorno in cui migliaia di persone protestavano contro l'uccisione dell'anarchico Franco Serantini.

Questi nomi e queste circostanze probabilmente non fanno scattare nei più giovani alcun ricordo. Il mio invece è vivido pochi giorni prima Franco Serantini era stato fermato, durante scontri di piazza a Pisa tra manifestanti e polizia. Era riemerso dai locali del carcere di Don Bosco, cadavere, con un referto di "morte per insufficienza cardio respiratoria". (Allora si diceva così: "Gli si è fermato il cuore").

Franco Serantini era un orfano e nessuno poteva chiedere indagini in nome suo. Però, in base ad una vecchia legge, un comitato cittadino ebbe il permesso di far partecipare un perito di parte all'autopsia. Quel perito fu il professor Durante, dell'Università di Roma. Quando lo incontrai, molti anni dopo, e gli chiesi che cosa aveva visto sul corpo di Serantini, mi disse: "In tutta la mia carriera, io non ho mai visto un cadavere così intriso di sangue, con ecchimosi così vaste e diffuse". Franco Serantini era stato picchiato nella questura di Pisa, poi trasportato in carcere senza cure e lì era stato lasciato morire.
Il 13 maggio 1972 a Pisa si parlava di questo, dolorosamente. Le manifestazioni erano due: una del Pci, con un comizio di Giancarlo Pajetta, una di Lotta Continua e degli anarchici, con comizio di Adriano Sofri. Pajetta aveva allora 61 anni; Franco Serantini 18; Adriano Sofri, 29 anni. Quel giomo piovve insistentemente e fortemente per tutto il tempo delle manifestazioni, cosa che tutti ancora oggi ricordano, ma che stranamente Marino non ha mai ricordato.

Quattro giomi dopo, alle 9,15 di mattina, a Milano, uno sconosciuto uccise per strada il commissario di polizia Luigi Calabresi. La vittima era nota da tre anni al grande pubblico: aveva condotto le indagini per la bomba di piazza Fontana indirizzandole contro gli anarchici, non si sa ancora oggi se per suo errore personale o per ordini dall'alto. Nel pomeriggio del 12 dicembre era andato a prelevare uno degli esponenti anarchici più noti a Milano, il ferroviere Giuseppe Pinelli, e l'aveva portato in questura. Lì l'avevano tenuto per settantasei ore senza dormire e con poco mangiare, accusandolo di aver messo la bomba alla banca. Il 16 dicembre, a mezzanotte, venne comunicato dal questore Guida e dal commissario Calabresi, che un certo Pinelli - fortemente indiziato - si era lanciato dalla finestra del quarto piano della questura di Milano, gridando "è la fine dell'anarchia". Non era vero. Negli stessi giorni la questura confezionava un colpevole per la bomba, l'anarchico Pietro Valpreda. Il movimento Lotta Continua, allora appena nato, fu il più attivo (anche temerario, data la codardia della stampa di allora) nel condurre una battaglia di informazione contro quella che definimmo allora "strage di Stato". Sembra proprio - anche dalle notizie di oggi - che avevamo ragione. Chi vuole trovare, per esempio, negli articoli di allora, il nome Delfo Zorzi, oggi sulle prime pagine, lo trova. Il giornale Lotta Continua pubblicò - spesso con linguaggio truce e inaccettabile, vignette e articoli contro il commissario Calabresi, sfidandolo alla denuncia per diffamazione, che alla fine gli fu imposta dai suoi superiori. Si andò al processo e l'avvocato Lehner, difensore del commissario Calabresi, ricusò il giudice Biotti sostenendo che aveva già comunicato ad altri la sua convinzione: colpevolezza per Calabresi nella morte di Pinelli. La sentenza finale di quel processo venne solo tre anni dopo l'omicidio del commissario, nel 1975, a firma D'Ambrosio: vi si legge che Pinelli morì per "malore attivo" (definizione che non compare nei testi di medicina) dopo tre giorni di maltrattamenti, che Luigi Calabresi era innocente e che contro il questore Allegra non si procedeva solo per sopraggiunta amnistia.

Il 6 novembre 1995, nella sua dichiarazione finale, Sofri aveva raccontato - per l'ennesima volta, ma questa volta con la voce rotta - tutte le colossali incongruenze del racconto di Marino e aveva chiesto alla Corte che cosa, umanamente, avrebbe dovuto fare di più per provare la sua innocenza. Aveva infine aggiunto: "Non cercate una via di uscita concedendomi delle attenuanti; se mi volete condannare, fatelo apertamente. Ma quando scriverete le motivazioni, visto che non potrete dire di avere delle prove, per favore scrivete così: di riffa o di raffa, Sofri è colpevole". I due giudici togati ascoltavano attenti, i giurati popolari prendevano appunti.

Io sono amico di Adriano Sofri da un quarto di secolo e quindi non chiedetemi se lo considero colpevole o innocente. E' innocente. Non è il mandante dell'omicidio Calabresi, non ha mai dato un mandato di uccidere a nessuno, lo so per certo. Se lo avesse fatto, allora, lo avrebbe detto. Il mio stupore per la sentenza di sabato scorso nasce anche da questo: che, guardando le espressioni dei giurati, davvero mi sembrava che fossero anche loro convinti. Mi dicevo: penseranno che è un arrogante perché prende di petto la Corte; penseranno che è esasperato dopo sette anni di processi, ma non possono non accorgersi che è sincero. Mi sono sbagliato nella fisiognomica, tutto qui.

Temo di sapere che cosa sarà scritto nella motivazione della sentenza. Ci sarà scritto che la seconda Corte d'Assise d'Appello di Milano è stata chiamata dalla Cassazione a riformulare la precedente sentenza perché illogica. La precedente sentenza aveva assolto tutti, l'accusatore Leonardo Marino compreso, ma aveva motivato quella decisione in maniera volutamente assurda: per 125 pagine sostenendo che il pentito Marino era del tutto attendibile, nelle ultime cinque dicendo che però non si erano raggiunte prove della partecipazione di Marino all'omicidio Calabresi, visto che i testimoni oculari avevano raccontato tutt'altro svolgimento dei fatti. 125 pagine contro cinque, ha concluso la Corte di Cassazione, quindi l'illogicità sta nelle ultime cinque. Quella motivazione di sentenza, firmata dal giudice a latere Pincioni lasciò tutti di stuccco, non solo me. Il giudice Pincioni era stato in realtà messo in minoranza dal resto della Corte ma fu proprio lui a scrivere le motivazioni, stilando quella che in Sicilia è nota come "la sentenza suicida", quella che si scrive apposta perché non superi il vaglio di merito della Cassazione. Ora quindi il giudice De Ruggiero - conosciuto a Milano come intelligente, sensibile e garantista - incaricato della nuova motivazione, scriverà che, come ha autorevolmente dettato la Cassazione, Marino deve essere considerato credibile e quindi le prove devono essere considerate sufficienti. Tutto questo avverrà in nome del popolo italiano, che sul caso Calabresi è stato piuttosto ondivago. In Corte d'Assise e poi in Corte d'Appello ha volto il pollice in basso, condannando; poi le Sezioni unite della Cassazione hanno detto che un pentito come Marino vale, giuridicamente, meno di niente; nella successiva Corte d'Appello ha assolto (motivando - in nome del popolo italiano - come abbiamo visto); poi una nuova corte di Cassazione (inferiore per prestigio a quella delle Sezioni unite) ha detto che, no, il pentito è buono e una ulteriore Corte d'Appello ha appena detto che Sofri, Bompressi e Pietrostefani si devono fare 22 anni di galera. Da sette anni non c'è alcun atto nuovo in questo processo, accusatori e difensori ripetono gli stessi argomenti. Mi sembra di capire che esistono perlomeno due popoli italiani. E che vige il maggioritario, anche in giustizia. Una volta governi tu, una volta governo io. Peccato che quando assolvono Sofri, poi invalidino il risultato.

Leonardo Marino (ufficialmente prescritto e quindi ormai intoccabile) è riuscito in un'opera notevole: ha fatto giurisprudenza. Lui, dichiarato inattendibile dalle Sezioni unite della Cassazione, è ora non solo attendibile, ma l'incarnazione della verità. D'ora in poi la sentenza di Milano potrà essere usata come precedente per avallare condanne sulla sola parola, sui ricordi dubbiosi, sulla personalità ambigua di una sola persona, peraltro ufficialmente non più perseguibile. Mi chiedo se negli annali della magistratura nell'Italia repubblicana esistano casi, nello stesso tempo così diabolici e loschi, come quello appena descritto. Se ci sono, non ci fanno certo onore. Oppure ditemi se, nell'attuale Italia giudiziaria - da Tangentopoli ai processi per mafia - esistono inchieste e processi in cui si viene condannati sulla base di un solo chiamante in correità, della fatta di Marino, per giunta.

Pur essendo un esperto, ho qualche domanda da fare: un magistrato che stende una sentenza suicida, come viene considerato? Viene sanzionato o questo diventerà uno dei punti di merito della sua carriera? I giurati popolari che vedono stravolto il resoconto del dibattimento cui hanno partecipato, possono protestare? E se no, come possono fare sapere che cosa veramente è successo? Il Csm non dovrebbe esaminare tutto il caso? Non dovrebbe convocare i giurati popolari e ascoltarli? Ci sono forse, a proposito del processo Calabresi meccanismi di potere nel palazzo di giustizia di Milano che vincolano i collegi giudicanti all'impostazione originaria della Procura? Nel 1988, quando tutta questa storia cominciò, io sentii parlare dell' esistenza di una prova di accusa definitiva ma "non ostensibile". Ne ha sentito parlare qualcun altro? Se sì, perché non lo dice?

Adriano Sofri, nei sette anni di questo processo, è sempre stato sincero. Non gli è mai stata contestata una menzogna, mentre menzogne su di lui ne sono state dette tante. Ha ricostruito - spesso in solitudine e con sofferenza - clima dell'epoca, convinzioni personali poi mutate, andamento dei fatti. E' stato puntiglioso fino alla minuzia e non è mai stato smentito. Il suo accusatore, come tutti riconoscono, si è invece contraddetto e ha più volte ammesso di aver detto il falso. Qualcuno mi può quindi spiegare perché Sofri è stato condannato? Nella scorsa motivazione è stato scritto che non potevano esserci prove certe della presenza di Marino sul luogo dell'omicidio e che la sua versone era contraddetta dai testi oculari. Ora dovranno scrivere, senza nessun fatto nuovo emerso, che i testimoni oculari si sbagliarono. Coraggio, signor giudice relatore. Ma, ripeto, se qualcuno mi spiega bene che è giusto che sia così, me ne farò una ragione. Tempo due o tre giorni e tutta questa storia sparirà dai giomali. L'interesse per il caso è effimero, è passato molto tempo e nessuno si ricorda bene che cosa succedeva in Italia a quel tempo. A me piacerebbe, invece, che si ricordasse con precisione. Che si arrivasse alla verità: sulla bomba, sul perché vennero pervicacemente perseguitati gli anarchici, sull'omicidio del commissario Luigi Calabresi: una verità che non è quella di Leonardo Marino.

Ma sono piuttosto pessimista, perché, in questa Italia 1995, la verità su quegli anni è ormai autorizzato a dettarla proprio Leonardo Marino. Lui l'hanno prescritto, ma purtroppo lo stanno prescrivendo anche a me, come una medicina che dovrò prendere ogni giorno, come antidoto alla possibilità che i miei ricordi continuino a sbagliarsi.

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Leonardo Marino: la bocca della verità!

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