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di Erasmo d'Angelis da Il Manifesto, 6 febbraio 1997
Luciano Della Mea oggi ha 73 anni e vive a Torre Alta, una frazioncina di Lucca; rappresenta una bella pagina della sinistra italiana guerra in Montenegro, Resistenza, poi l'inizio dell'attività giornalistica a Milano all'Avanti! e quindi la militanza che lo portò a fondare nel '67 con Adriano Sofri il Potere operaio pisano, la rivista di cui divenne direttore e intorno a cui nacque poi il gruppo del Potere operaio. "Sofri - racconta - l'ho conosciuto nel '64 quando era studente a Pisa e conobbi allora anche Bompressi e Pietrostefani. Mi considero il loro fratello maggiore. L'altro giorno, quando ci siamo rivisti con i vecchi amici davanti al carcere di Pisa per salutare Pietrostafani, ho scoperto che il più anziano del gruppo sono io".
Della Mea restò con Sofri fino al '69 quando Adriano ruppe e decise di fondare Lotta continua. "Anche se all'inizio non mi convinceva - ricorda - restai vicino a Lc fino al marzo 1972, quando Sofri e Lanfranco Bolis misero a punto le Tesi. A quel punto rompemmo, perché le consideravo caratterizzate da estremismo infantile. Loro adombravano un colpo di stato imminente, davano per spacciata la sinistra, io le discussi una per una e l'editore Bertani pubblicò le mie considerazioni nel libro "Proletari senza comunismo"".
Dunque c'eri anche tu a Pisa quel 13 maggio 1972, quattro giorni prima dell'assassinio di Calabresi, quando Lotta Continua organizzò il comizio per la morte dell'anarchico Serantini?
C'ero anch'io, e ricordo che fui contrario a quella manifestazione. Talmente contrario che presi l'iniziativa e telefonai a Cossutta, a Botteghe oscure, perché volevo spingere anche il Pci a ricordare Serantini. Così quello stesso giorno, accanto alla manifestazione di piazza San Silvestro con Sofri, c'era quella di piazza Carrara del Pci con Giancarlo Pajetta. Questo si è rivelato un particolare importante, perché i testimoni delle due manifestazioni, politicamente avversi, affermano che quel giorno pioveva a dirotto. Solo Leonardo Marino afferma che quel giorno non pioveva ed è stato creduto.
Del resto, basta scorrere le cronache dei giornali dell'epoca, dal "manifesto" a "Paese Sera", alla "Nazione", per leggere una serie di "pioggia battente", "pioggla insistente", "fuggi fuggi per la pioggia". Ma secondo Marino proprio al termine del comizio, in un bar della piazza, Sofri e Pietrostefani gli avrebbero impartito l'ordine di eseguire l'attentato...
Intanto, quel giorno Pietrostefani non era a Pisa. Mi pare poi che fosse un giorno di festa, e nei dintorni della piazza c'era solo un bar frequentato da sportivi, talmente pieno di gente e incasinato che difficilmente poteva essere quello il posto adatto per dare mandati. Mi domando perché molti testimoni non sono stati creduti, come Guelfo Guelfi, che stette sempre accanto a Sofri e dichiarò che Adriano non si allontanò mai da solo e ne tantomeno andò in un bar. Dopo il comizio Sofri andò con Guelfo a casa di Soriano Ceccanti e poi a casa sua...
Dove li raggiungesti anche tu...
Andai a casa di Sofri in via Pellizzi dove c'erano la moglie, Alessandra Peretti, con i figli Nicola e Luca. C'erano alcuni compagni che volevano salutare Sofri e c'era anche Marino, per cui non si capisce perché quel mandato Sofri doveva darlo al bar e non piuttosto a casa sua, dove avrebbero potuto appartarsi tranquillamente. La verità è che sono innocenti tutti e tre, io li conosco bene. Se Sofri avesse voluto la morte di Calabresi sarebbe andato lui di persona ad ammazzarlo, questa è la sua struttura morale. E' scandaloso giudicare attendibile una persona che presenta un racconto del tutto privo di riscontri. Ci sono testimoni che affermano che Bompressi era a Massa il giorno dell'omicidio Calabresi ma nessuno ha proceduto a riscontri. Mi ricordo che quando andai a testimoniare a Milano, al primo processo, il giudice mi ritenne inattendibile per partito preso e non c 'e stata nessuna accusa di falsa testimonianza.
Ti aspettavi questa sentenza?
No, mi illudevo che non reggesse, un'accusa del genere. Ma non credo sia una vendetta politica, è piuttosto la dimostrazione di una logica perversa interna alle istituzioni, alla magistratura, alla sfera politica una volta presa una determinata direzione non tornano indietro anche se è sbagliata. Ma oggi abbiamo l'assoluta necessità della continuità nell'azione di denuncia, perché il rischio e che pian piano le cose cadano nel silenzio. Il comportamento di queste tre persone, che accettano la galera pur essendo innocenti, e un esempio di dignità rara. Bisogna fare di tutto per tirarli fuori.
Cosa significano i nomi di Pinelli, Annarumma, Calabresi, Valpreda per tutti coloro che hanno oggi trent'anni? Ecco un sondaggio che varrebbe la pena di promuovere e che probabilmente ci riserverebbe delle sorprese. La storia dei nostri ultimi venti o venticinque anni è stata cosi spietata e tumultuosa da tagliare in due la coscienza e la memoria di tutti noi e da lasciare una eredità assai controversa alla generazione successiva. Coloro che c'erano "allora" negli anni del mitico Sessantotto e poi negli anni successivi della violenza e del terrorismo non saranno mai, quale che fosse la posizione allora assunta, uguali alla generazione successiva. La maggioranza di coloro che hanno fatto il Sessantotto, i protagonisti delle vicende successive, quelli che non sono stati implicati in fatti eversivi e di sangue, vivono ormai una loro vita normale. Alcuni hanno già pagato un qualche loro conto con la giustizia, molti non hanno nemmeno voglia di ricordarli quegli anni. I superstiti di quell'epoca così carica di passioni e di infamie non esistono più come gruppo compatto di opinione.
Ed è bene che sia cosi. Ogni giudizio, ogni presa di posizione rispetto al processo Sofri che si va celebrando in appello da ieri a Milano, va sottratto a mio avviso alla passione politica. Non è ai superstiti di quell'epoca, amici o avversari di Lotta continua che va chiesto di leggere con attenzione la sentenza di primo grado e le motivazioni, che va chiesto di seguire il dibattito che da ieri si svolge al palazzo dl giustizia di Milano. Il processo Sofri-Bompressi-Pietrostefani-Marino va seguito e valutato come tutti gli altri processi dimenticando o mettendo in secondo piano la posizione politica degli imputati.
Personalmente credo di poterlo fare per almeno tre motivi. Perché per formazione culturale e politica mi sono sempre collocata su un versante lontano se non opposto a quello nel quale militavano gli accusati ti questo processo. Perché non ho nessuna propensione ideologica per le cosiddette teorie tel complotto. Perché infine non ho mai creduto e non credo ad una giustizia "borghese" o "proletaria" ma ad una giustizia senza aggettivi, solo preoccupata dell'accertamento della verità e amministrata in nome del popolo italiano. (E quinti disponibile anche al controllo del suo operato da parte della pubblica opinione).
Il commissario Luigi Calabresi, che Lotta continua aveva ripetutamente indicato come responsabile della morte dell'anarchico Pinelli, venne assassinato il 17 maggio del 1972, esattamente dunque diciannove anni fa, una mattina mentre usciva di casa. Per quasi due decenni la magistratura milanese indagò inutilmente su quell'omicidio. Di volta in volta sulla base di sospetti o vociferazioni, vennero fermati e interrogati giovani appartenenti a formazioni di estrema testra o di Lotta continua. Fino a quando nell'estate del 1988 un pentito, Leonardo Marino, non confessa di essere stato lui l'autista della macchina usata nell'attentato ed indica come esecutore materiale il Bompressi e come mandanti Pietrostefani e Sofri.
Esaminiamo dunque questo processo come un processo per omicidio e chiediamoci se la colpevolezza degli imputati è sufflcientemente dimostrata. Dopo la sentenza che li condannava a ventidue anni di reclusione (ridotti a undici per Marino) abbiamo voluto tenere sospeso il giudizio in attesa di leggerne le motivazioni. Poi queste motivazioni sono state pubblicate e non hanno fornito alcun elemento tale da modificare la nostra opinione che cioè, a parte la testimonianza di Marino non ci sono elementi di prova a carico degli imputati.
La stessa testimonianza di Marino è apparsa spesso lacunosa e contraddittoria, talvolta in modo grave e su elementi tutt'altro che secondari. All'inizio ad esempio Marino sostiene che a Pisa sono Sofri e Pietrostefani a dirgli che deve uccidere Calabresi. Ma Pietrostefani, si dimostrerà nel corso del processo, a Pisa quel giorno non c'era. Fa niente se non c'era Pietrostefani c'era però Sofri. E Marino va creduto in tutto e per tutto. Ma c'è di più. Sulla stessa meccanica dell'omicidio la ricostruzione di Marino è in palese contraddizione con tutte le testimonianze che vennero rese allora subito dopo quel 17 maggio del 1972 da alcuni cittadini che il caso aveva voluto presenti sul luogo del delitto. La lettura delle loro deposizioni oggi è impressionante ed è impressionante l'accanimento con il quale il presidente del tribunale si è adoperato per farli cadere in contraddizione o per farli ritrattare o per mettere in dubbio la loro memoria e la loro buona fede. Qui veramente c'è da restare turbati la loro versione dei fatti viene contestata, irrisa e alla fine rigettata solo perché non coincide con quella proposta da Marino. E dunque le loro testimonianze (rese, si badi, diciotto anni fa e oggi confermate) vengono praticamente espunte dal processo. Non parliamo poi delle testimonianze rese da quanti erano allora amici degli imputati, tutte liquidate come inattendibili o meglio sospette.
Marino e solo Marino è attendibile. Non ci sono prove. Non ci sono riscontri obiettivi a ciò che Marino dice. Il suo racconto è però verosimile, ci si risponde. Ma la verosimiglianza non è ancora la verità. "Marino non mente" ha detto il giudice Pomarici nella sua appassionata arringa. "Non mentiva certamente, quando singhiozzava davanti a me nessuno riusciva a fermarlo. Se commuoveva me e gli ufficiali dei carabinieri avrebbe certamente commosso anche voi". Ma le lacrime, il pianto, i singhiozzi di un pentito possono essere considerati una prova? Questo è il punto rilevante che interessa quanti, noi siamo tra quelli, credono in una giustizia amministrata con equità in nome del popolo italiano.
Paola Sacchi intervista Stefano Rodotà, da L'Unità, 12 novembre 1995
"La formula americana per cui la condanna arriva solo quando la colpevolezza dell'imputato è stata provata al di là di ogni ragionevole dubbio è la formula della civiltà giudiridica. Io credo che è quella implicita ormai anche nel nostro sistema. Ma, ora, di fronte a queste carte io non credo che nessuno possa dire che ogni ragionevole dubbio sia stato superato..." .
Stefano Rodotà commenta a caldo la sentenza che condanna a 22 anni Sofri, Bompressi e Pietrostefani. Una decisione che giudica "estremamente grave, sorprendente, ingiustificata".
Allora, la decisione della Corte d'Appello di Milano giunge dopo un lungo e frastomante carosello di condanne e assoluzioni. Che ne pensa professor Rodotà?
La mia reazione non può che essere di incredulità dopo una vicenda così lunga e dopo l'intensa discussione svoltasi sia all'interno dei diversi gradi di giurisdizione sia nell'opinione pubblica. Io credevo francamente che tutto ciò avesse chiarito i limiti dell'impianto accusatorio .
E, invece, pare che si ricominci da capo... Sì, ora ci ritroviamo a partire da capo. Devo dire, certo, che in questi casi si usa sempre la clausola prudenziale in base alla quale si aspetta di leggere le motivazioni della sentenza. E però io sono tra quelli che hanno avuto occasione di vedere molte di queste carte, le sentenze precedenti, quindi mi sento non dico di sbilanciarmi, ma di esprimere il mio giudizio anche prima che queste motivazioni vengano. Ripeto, di fronte alla debolezza di quell'impianto accusatorio, mi sembrava del tutto naturale e corrispondente al direi elementare criterio di giustizia che si assolvessero gli imputati da un'accusa così grave e sostenuta da indizi così deboli, contraddittori. Un'accusa sostenuta da indagini che hanno manifestato non solo estrema approssimazione ma anche molti dubbi il rapporto di Marino con i carabinieri...
Un passato lontano sembra quindi tornare con tutti i suoi in quietanti dubbi, fantasmi ed aloni di mistero mai fugati. Insisto, ci troviamo di fronte ad una fragilità di fondo dell'impianto accusatorio e anche a dubbi su come nasce questo impianto accusatorio. Una inconsistenza che viene fuori chiaramente leggendo tutti i pronunciamenti precedenti sia quelli di condanna sia quelli di assoluzione .
Ma qui siamo in presenza ad una condanna a 22 anni di reclusione, una decisione che i magistrati avranno ben ponderato... Io lo giudico un fatto estremamente grave tenendo conto del particolarissimo caso che abbiamo di fronte, all'insistenza dei magistrati di voler ad ogni costo tirare da quelle premesse questa conclusione accusatoria. Ripeto, a me sembra che non ci fossero gli elementi...
Sono tempi in cui il tema della giustizia è al centro del dibattito. Nelle sue considerazioni si riferisce anche alla discussione generale di questi giorni? No, assolutamente. Questa è una vicenda di straordinario rilievo e a mio giudizio anche di grande gravità, ma, per carità, non mettiamo tutto nel calderone, non diventi questo un altro elemento accusatorio della magistratura. E' un caso che va valutato per la vicenda particolare che esprime .
C'è una vicenda giudiziaria e c'è il lungo incubo umano dei suoi protagonisti diretti ed indiretti. A Sofri cosa si sente di dire in questo momento? Mi sono occupato a lungo di questa vicenda, per collaborare con la giustizia ma anche per esprimere una testimonianza nei confronti di persone come Sofri tirate in questa storia da un impianto accusatorio che mi sembra inconsistente. La solidarietà personale mi pare che sia del tutto ovvia .
Parliamo di due persone la cui più alta aspirazione è avvicinare il più possibile le parole dette alla condotta della propria vita Giorgio Gaber e Adriano Sofri. L'atteggiamento tenuto da Adriano di fronte alla pazzesca vicenda giudiziaria che, ahilui!, lo riguarda ne è una dimostrazione. Il rifiuto di Giorgio di fare stritolare le sue idee dal sistema televisivo e dal mercato discografico ne è una testimonianza. Adriano Sofri ha sempre seguito Gaber e il suo lavoro. Giorgio Gaber aveva avuto all'epoca una certa simpatia per Lotta Continua e ha seguito con preoccupazione il calvario di Sofri. Ma non si erano mai incontrati. C'era stata un'occasione, in verità una delle presentazioni di "Re Nudo" a Sant'Arcangelo di Romagna, nel 1997, dove si presentò soltanto Adriano per un'indisposizione di Giorgio. Adriano ne rimase deluso, così, a distanza di qualche anno, Giorgio ha accettato l'invito di Re Nudo ad incontrare Adriano nel carcere di Pisa. Lo abbiamo accompagnato io e Majid Valcarenghi. Si è parlato molto e anche riso, e tentiamo qui di riportare in modo abbastanza fedele una cosa che non è un'intervista, per cui potrebbe talvolta essere di difficile lettura. Ma ne vale la pena .
Adriano Noi abbiamo in Occidente una popolazione vecchia, cui apparteniamo anche noi, ahimé, cioè è longeva, rincoglionita, visto il consumismo di cosi rapido riciclo, rincoglionita dal ritorno di superstizione, il più pacchiano, il più triviale e il più dilagante. Questa popolazione è spaventata dall'eventualità che tutto questo le sia minacciato, dal mondo giovane. A me sembra che la cosa sconfortante del mondo moderno sia esattamente questa specie di instupidimento di persone che la sanno molto più lunga, in teoria, per un verso, e per l'altro verso l'incattivimento preventivo, per cosi dire, di avarizia, di chiusura preventiva delle stesse persone. Dunque questo mi fa pensare che il mondo è brutto, e la discussione non so se ha senso se non a partire dal fatto che il mondo è spacciato…
Giorgio certo, su questo siamo d'accordo…
Adriano certo, e la differenza non è tra catastrofisti ed ottimisti, secondo me, ma fra chi, pensando che il mondo sia spacciato, continua a lavarsi la faccia, a tagliarsi le unghie, come si fa con i malati terminali quando ci si prende cura di loro, e chi invece molla e diventa barbone subito, accelera l'agonia. Noi stiamo parlando tra persone che sanno che il mondo è spacciato e si tagliano ancora le unghie. A me sembra molto triste il fatto che un territorio, per me, forse, a differenza che per te [rivolgendosi a Majid, ndr], come l'Europa, assolutamente privilegiato dal punto di vista culturale, civile e morale, sia attraversato da una cattiveria e da una paura che rischiano di travolgerla in Italia forse è ancora meno forte che in altri paesi, ma questa cosa avviene in Danimarca, visto il risultato del referendum, in Norvegia, che io conosco, conoscevo bene e amo molto, io ho una compagna norvegese; in Norvegia c'è l'affermazione di un partito apertamente fascista, come si può dire fascista di un paese scandinavo, il Partito Contadino, che ha preso il 30-35%. Cose di questo genere attraversano tutta l'Europa e tolgono l'unica specie di rassicurazione che fino ad oggi abbiamo avuto rispetto a questi anni lunghi d'incubazione di questo incattivimento, che era l'idea che l'unità europea, l'ingresso in Europa, avrebbero fatto argine agli estremismi e agli integralismi più fanatici. Ora il problema è che rischia di cedere, l'Europa, di fronte a tutto questo una volta che cede la Germania, per intenderci, siamo fritti, come sempre per altro. Ma ci sono molti segni, molti scricchiolii di questo genere. L'Europa centro-orientale che adesso deve entrare nell'Unione, ad esempio avrete visto le elezioni in Romania, che sono state poco commentate ma avrebbero meritato un'attenzione molto maggiore dal punto di vista esemplare. Nelle elezioni in Romania, che, come sapete, è un paese dove la miseria è veramente brutale ed abbrutente per le persone – come rivela il carattere dell'immigrazione che riceviamo dalla Romania, persone anche con un livello d'istruzione alto perché li funzionava l'istruzione pubblica, – i concorrenti elettorali erano un partito apertamente nazista, che dichiarava di voler fare i ghetti chiusi con i muri per gli zingari, gli ebrei, gli ungheresi della Voivodina, di concentrarli tutti in un ghetto, ma non metaforico, che era il principale concorrente della coalizione al potere, e poi c'era un partito capeggiato da un ex alto burocrate della nomenklatura di Ceausescu. Per fortuna hanno vinto gli ex comunisti dell'apparato, capisci? L'alternativa era tra la vittoria di un raggruppamento nazista e uno di ex stalinisti. E' stato visto come uno scampato pericolo, capite? Questi sono paesi che stanno giustamente per entrare nell'Unione Europea. Dunque questa cosa che abbiamo scoperto da tanto tempo, che non c'è progresso, che ci sono continui andate e ritorni, a me mi viene da pensare che, forse senza accorgercene, da un po' di anni siamo entrati in una di queste fasi di regressione che segnarono l'avvento dei fascismi, dei totalitarismi, l'altra volta. Non significa, questo, il ritorno di quei fascismi e di quei totalitarismi che non hanno nessuna possibilità.
Giorgio Forse sono stati i periodi più alti quelli delle socialdemocrazie, da un punto di vista della qualità dei rapporti, rivisti adesso da lontano.
Adriano Credo di si, e non soltanto gli anni della socialdemocrazia, ma anche della Democrazia Cristiana, perché in Germania e in Italia è questo.
Giorgio Io mi riferivo alle socialdemocrazie nordiche.
Adriano Sì, ma c'era anche una coincidenza collaterale quel periodo dalla ricostruzione alla prima costruzione europea, che noi vedevamo come loscamente mediocre, perciò lo odiavamo tanto, perché era mediocre, quando ci sembrava che le cose mediocri fossero le peggiori, e invece ce ne sono di molto peggiori che di mediocri. Comunque succedono cose nuove e così travolgenti che uno sa di non poterle maneggiare neanche mentalmente, come tutte le questioni scientifiche, genetiche, il genoma. Cose fantastiche, e al tempo quelle vecchie e peggiori non spariscono affatto ma si ringalluzziscono.
Majid Secondo me c'è un'appiattimento mortale; dicevo prima a Giorgio che come nei grandi media ci sono solo alcuni giullari, come Grillo o a "Striscia la notizia", che attraverso la battuta riescono a dire qualcosa, sulla stampa ci sono i vecchi saggi come Montanelli, Ceronetti, Bobbio, le sole persone che dicono qualcosa rompendo gli equilibri, i patti non scritti e conformi, tu li avrai seguiti…
Adriano Io seguo tutto perché sono in galera, ti posso dire tutto sull'ultimo fidanzato di Anna Falchi come sulla politica internazionale…
Giorgio A proposito, Montanelli come s'è espresso sul tuo caso?
Adriano Ciclicamente, cioè dicendo cose di volta in volta a favore o contro, impermalosendosi quando gli sembrava che io dicessi cose sgradevoli; sostanzialmente alla fine diceva che bisognava darmi la grazia, chiudere tutto questo, ma insomma con un andamento molto alterno. E' molto scandalizzato dalla mia arroganza, superbia, alterigia.
Giorgio Anche io sono molto incazzato per il fatto che tu abbia accettato bene o male questa giustizia italiana di merda. Avrei fatto il tifo che tu te ne fossi andato. Umanamente questo te lo devo dire.
Adriano Ma io non l'ho accettata questa giustizia …
Giorgio Mi hanno detto che su queste cose non transigi.
Adriano Ma no, transigo tra me e me ma fuori fingo di non transigere sennò non riuscirei più, avrei dei problemi all'anca insuperabili; pagherebbe il corpo.
Giorgio Io ho sentito questo tuo discorso molto interessante, ma in questo periodo m'è venuto in mente una cosa di Pasolini che tu certamente ricorderai, quando dice che non ci può essere progresso senza sviluppo, ma che ci può essere sviluppo senza progresso. E mi pare che siamo esattamente in questa condizione, cioè tutto si sviluppa ma l'uomo peggiora è la sensazione che io ho anche da un "Grande Fratello" europeo che non è più un fatto d'imbecillità generale, il sistema sta diventando imbecille. Questo mi porta a dire, e questa è la domanda che mi pongo anch'io per il mestiere che faccio, se c'è un abbandono totale del senso delle cose, e questo lo possiamo riferire anche a quella scienza che tu hai nominato, che va nel senso di cambiarti un braccio ma di non toglierti un raffreddore. È come se il senso volesse dire che c'è qualcosa che migliora la persona; ecco, non c'è più nulla che migliora la persona. Avrai seguito naturalmente alcuni avvenimenti, non so, due milioni e mezzo di giovani dal papa; io non sono credente, però sento che anche quel fenomeno è di consumo, non è di fede come fatto intimo o come fatto di crescita, che posso accettare, che non mi riguarda ma che posso accettare. L'ascolto di Padre Pio, l'ascolto del "Grande Fratello", per me sono fenomeni simili, e mi fanno capire che c'è una produzione consumistica che ormai ha perso completamente di vista qualsiasi senso dell'arricchimento dell'individuo; ecco questo mi rende sgomento di fronte a tutto e mi fa paura e mi fa vivere peggio perché la gente non mi piace, proprio la gente, faccio fatica! Adesso quando sono entrato in questo carcere e questi qui alla porta sono stati gentili, mi sono sorpreso, c'è ancora qualcuno che è gentile; la qualità delle persone mi sembra che stia scadendo sempre di più, nell'ottica del discorso di Pasolini, per cui c'è uno sviluppo ormai paradossale ed un progresso totalmente nullo. Questo è un altro punto di vista che non si discosta molto da quello che dicevi tu prima, ma a me che mi occupo più delle facce della gente che della politica, perché non ne avrei la competenza, mi fa star male, mi fa sentire inutile. Mi sembra quasi che questa mancanza di senso non sia neanche colpa di questo o di quell'altro, ma mi sembra che sia proprio incapacità di affrontare un mercato che si sta sviluppando da solo ormai e che va in una direzione e nessuno sa dare risposte; neanche quelli che vorrebbero opporsi ma neanche quelli che vorrebbero aiutarlo, perché anche loro sono vittime di un meccanismo che sta andando da solo, un meccanismo invincibile. Questa è la mia sensazione. In tutte le vicende a cui assistiamo, compresa la tua, s'intravvede dietro qualcosa di sporco, di oscuro, capisci poco; alla fine magari dico "Sofri è innocente e Marino è un testa di cazzo, basta guardarlo in faccia", e mi fermo lì perché se vado avanti e mi perdo in tutte le cose faccio ancora più fatica a capire. Ti devi fermare ad una impressione iniziale. Non sono andato a vedere lo spettacolo di Fo, mi ha dato fastidio, non mi piace, cerchiamo di emozionarci diversamente, poi non so se ti abbia fatto male o ti abbia fatto bene…
Adriano Non lo so nemmeno io però gli sono molto grato perché lui è anche una persona molto affettuosa e generosa, e questa cosa prevale in me su qualsiasi valutazione delle convenienze, criterio che ho ormai abbandonato da molto tempo in qualunque campo compresa la mia miserabile storia di cui adesso non vale la pena di parlare. Io sono sempre esitante rispetto a questi sentimenti che provo fortissimi sulla questione del progresso, che è ormai ben risolta, è chiaro che non c'è nessun progresso, è risolta da Leopardi, non c'era nemmeno bisogno di arrivare ai nostri giorni.
Giorgio E no, perché la razza a cui io mi sono affezionato, perché sono un po' più grande di voi… mi sono affezionato che voi eravate già una generazione successiva, e io sentivo questa voglia di senso, e non stiamo parlando di secoli fa…
Adriano Certo, è una cosa che si è consumata nel giro delle nostre vite.
Giorgio Devo dirti che, avendo ancora i teatri tutti esauriti quando ho la gamba a posto, forse un bisogno di senso c'è.
Adriano Sì, ma anche i due milioni di ragazzi che vanno dal papa hanno, insieme alle cose che dicevi tu, un fortissimo bisogno di senso e di trovarlo in comune, cosa che ogni generazione cerca con strumenti diversi; e anche i loro comportamenti erano contemporaneamente gregari e al tempo stesso indipendenti .
Giorgio Ecco, è su questa autonomia che io ho delle riserve. Ricordo una frase di Canetti che diceva che il palco del teatro distrugge la massa, cioè nel teatro ognuno è seduto ed è in qualche modo individuo di fronte a quello che sta succedendo, è per questo che ho scelto il teatro. La manifestazione di piazza crea la massa e annulla gli individui. Io ho sempre avuto paura di queste cose. Tuttora quando vedo, e le vedrai anche tu in televisione, queste adunate rispetto a certi gruppi musicali, o, che so, a Pavarotti, e vengono ripresi, e ti salutano, ho un restringimento di cuore, ho la sensazione che questi non siano individui ma siano inseriti in un processo di massa. Ecco perché il processo di massa anche della fede non mi suona come una prova di senso, ma mi suona come adesione acritica. Lo so che in qualche modo le masse una volta contavano…
Adriano In quella nostra mitizzazione delle masse, compresa la parola sulla quale ho poi recuperato una bella citazione di Leopardi che ho usato recentemente "Le masse, questa leggiadra paroletta moderna" diceva sarcasticamente Leopardi, quindi come vedi già allora, in noi (fatte salve tutte le cazzate che non vale la pena di deplorare più, anche quello è consumato) c'era una fortissima ispirazione individualista dentro quel culto della partecipazione comune, collettiva; quando noi abbiamo fatto fallimento e dichiarato fallimento, ci siamo sciolti, è perché questa specie di fusione, lungi dall'accrescere, dall'arricchire la personalità individuale e la libertà individuale, le stava alienando e impoverendo, questa è stata la vera ragione per cui siamo andati a casa, no?
Giorgio Settantasette?
Adriano Settantasei, ma io Lotta Continua l'avrei già voluta sciogliere nel Settantacinque.
Giorgio Io seguivo da lontano, c'era anche la questione femminile?
Adriano La questione femminile è stata cruciale per farci capire quelle cose lì perché le donne che si muovevano come un sol uomo con plotoni organizzati… Era però il principale modo di buttarci addosso questa specie di fallimento, questa specie di fondo toccato da una cosa che all'inizio era la più promettente e la più bella per noi giovani, compresi quelli che vanno dal papa, per questo io continuo ad avere una specie di paternalistica simpatia. Questa sorta di generosissimo mimetismo sociale che contraddistingueva la nostra militanza politica la scelta di fare politica non aveva nulla a che fare con la professione politica, l'idea che ciascuno potesse diventare ciascun altro, confondersi con gli altri e attraverso questo diventare più ricco personalmente; questo cosiddetto Sessantotto, che è successo in tutti altri anni, aveva una cosa molto bella, nella quale io ero un vero campione, una specie di caso clinico, un po' diversamente da me ma in modo forse ancora più magistrale, nel senso del talento circense, lo era Mauro Rostagno che era un suo intimo amico [rivolgendosi a Majid, ndr].
Giorgio Anch'io lo conoscevo.
Adriano … e cioè persone giovani, di quelle quindi che non hanno bisogno di stabilire una distanza fisica fra sé e gli altri, anzi si danno gomitate, si abbracciano, si stanno addosso perché sanno di non assomigliare agli altri, mentre noi vecchi temiamo… Io se non avessi una cella privata, ho un buggigattolo, la cella più brutta del carcere dove però sono solo, sarei un uomo finito, mi taglierei come i ragazzi arabi. Allora in quella nostra scelta questo mimetismo sociale, questo somigliare all'altro come una identificazione che ci metteva cinque minuti a compiersi, parlare con l'altro, diventare l'altro, era un'esperienza straordinaria rispetto alla rigidità dei ruoli che questa società attribuiva, non so "tu sei nato li e farai solo questo, l'universitario, il sottotenente di marina, la sposa fedele e madre", in questo mimetismo sociale di cui Lotta Continua era veramente la più alta espressione, che insegnava anche ai suoi adepti con l'esempio, al di là della linea politica e dei contenuti, c'era una fortissima ricchezza individuale, cioè s'imparavano le lingue, s'imparavano le facce, capite? Poi questa cosa decade e si tramuta esattamente nel contrario. Cioè alla fine non sai più chi sei, somigli a tutti e quindi più a nessuno, ti comporti in modo conformista, gregario; dunque quando arrivano le donne e ti sbattono in faccia questa realtà gergale, militante, manesca, tutte cose che caratterizzavano questa degenerazione quasi fisiologica di questa parabola, e soprattutto ti dicono che tu non puoi diventare donna, puoi diventare operaio, immigrato, tedesco, sardo, ma non puoi diventare donna, anche se qualcuno ci ha provato. E dunque perché non torni a chiederti chi sei? Questa è stata la cosa molto bella del femminismo, che io considero di tutte le esperienze della mia vita la più preziosa, quella a cui devo di più, umanamente, anche teoricamente, culturalmente.
Giorgio lo nel '76 facevo uno spettacolo che si chiamava "Libertà obbligatoria" che riecheggiava questi temi di cui stai parlando. A quel punto ebbi il coraggio, o per lo meno la spudoratezza, di usare la parola "noi", cosa che prima non ero riuscito a fare fisicamente. Ecco, nel Settantasei uso la parola "noi", nel Settantotto non ce la faccio più ad usarla, e parlo in prima persona. Quello è stato proprio un momento cruciale, io ho odiato il Settantasette…
Adriano Anch'io, il Settantasette è uno dei miei vanti; cioè io dissi nel Settantasette, e confermo, che era una di quelle circostanze in cui mi sarebbe piaciuto poter dire ai miei nipoti "io non c'ero". Questi sabato pomeriggio di Roma su Cossiga, i ragazzini con le pistole in tasca, erano giorni molto brutti, veramente.
Giorgio Io facevo il cantante ed ero già affermato…
Adriano E lo so bene, io le so le tue canzoni.
Giorgio Ombretta studiava russo e cinese alla Statale, russo e cinese guardacaso, alla Statale, ed io andavo a prenderla, però andavo a prenderla con la macchina che avevo, che era una macchina da cantante, che era una Jaguar 4200, e la sensazione che ebbi allora fu una sensazione di mio disagio; non gliene fregava niente a nessuno che io avessi la Jaguar perché ritenevano che i valori fossero degli altri, e questo mi mise un po' nella merda. Questo succedeva nel '69 all'Università. Quando poi invece ho visto scritto sui muri "liquori gratis" ho capito che volevano anche loro la fettina di merda e questo non mi è piaciuto più, perché culturalmente non erano diversi dagli altri.
Adriano io mi ricordo il lusso, i ragazzi del Settantasette inventarono il concetto di "abbiamo diritto al lusso", che era una bella idea se a dirla era un barbone, ma che in bocca a loro diventava una scempiaggine.
Giorgio "Il Grande Fratello" ha fatto 16 milioni di ascoltatori e questo lo hai visto tu non credi che i colpevoli, che sono Gori, gli inventori, gli autori, coinvolgano la gente a tirar fuori il loro peggio ma che un bisogno di senso la gente ce l'abbia ancora?
Adriano Ma guarda che io non ne dubito affatto, anzi sono convinto che quella che chiamiamo la "gente" sia come noi; questo che tu dici bisogno di senso, piacere nel trovare un senso alla propria vita e al rapporto con gli altri, sia la cosa che anima le persone, comprese le stronzate. Guarda, io che sono un moderato disfatto…
Giorgio Un moderato disfatto?
Adriano Sì, in via di disfacimento; che ci fossero delle cose che facessero simpatia anche nel "Grande Fratello", dei meccanismi che nonostante la formula, che era veramente tesa a far dare alle persone il peggio di sé, e questo lo si vede praticamente quando le persone escono e nelle orrende trasmissioni televisive cui partecipano sono già migliori di se stessi dentro la casa, Quello è il meccanismo della cosa, un esperimento sadico che altrove solo gli psicologi hanno fatto chiudendo le persone in laboratorio, e che ora diventa la cosa cui aspirano tutti i ragazzi. Per esempio in galera, che è un posto così abominevole che qualunque attenuazione del rifiuto di questo posto, del disprezzo assoluto, dell'odio assoluto per questo posto, qualunque uso metaforico della galera vanno combattuti. Io sono qui dentro da quattro anni, con una pausa di qualche mese durante il quale ho vissuto il processo che è ancora peggio che stare qui, perché aspettavo sempre una tappa invece adesso ho chiuso nei rapporti interni ad un posto come questo, tutti da quelli con i carcerieri, a quelli naturalmente con i carcerati, con questa popolazione che è una specie di deposito di feccia finale del bicchiere, i malati gravi, i ragazzi italiani tossicomani, i cosiddetti extracomunitari, giovani, poveri, senza nessuno, senza avvocati, c'è una specie di dimostrazione in negativo di che cosa potrebbe essere la vita delle persone in situazioni in cui la vita sembra pregiudicata, senza scampo. In tutti gli ultimi anni della mia vita ho fatto, un po' per scelta e un po' per costrizione, comunella con persone che si trovavano in questa situazione ho passato tre anni a Sarajevo, un lungo periodo in Cecenia, poi sono stato in posti meno tragici ma simili. Dunque con persone la cui vita era destituita di ogni dignità proprio dalle radici minime, materiali, alimentari, sanitarie, igieniche, la cui incolumità personale era messa a repentaglio momento dietro momento; anche qui dentro. E contemporaneamente persone nei cui comportamenti, nei cui pensieri e nella cui condizione c'è l'eventualità che la vita sia altra, che una specie di chiarezza maggiore su come potrebbe essere la vita emerge fortissima, che è la ragione per cui uno ci va volentieri, tranne la galera ovviamente. Il mio era un privilegio, io andavo in questi posti con un biglietto di ritorno in tasca, mentre qui c'è solo l'entrata.
Giorgio Per questa gente è normale che ci sia la ricerca di un senso, però anche quelli che hanno goduto al "Grande Fratello" hanno bisogno di dare un senso alle cose, e sentono che il "Grande Fratello" non ha senso.
Adriano Non so se lo sentono. Il mondo in cui noi siamo accontenta le persone persino imponendo dei desideri di cui poi si accontentano, desideri deviati, fessi, ottusi; però appena arriva una minaccia seria allora torna una specie di superstizione. Io a volte considero superstiziosi anche loro, questi nostri amici questa specie di combinazione squadernata delle ultime pagine della rivista "Re Nudo", questo mercatino di tutte le cose collegate tra loro per rappresentare una vita alternativa, delle abitudini alternative, una cultura alternativa; anche questa a volte mi sembra "superstiziosa". Certo la più benevola nei confronti del proprio prossimo, quindi la meno incriminabile. Gli animali umani sono sempre, come diceva il tragico greco, meravigliosi e orribili. La vera differenza sta nel fatto che noi ad un certo punto abbiamo pensato che si potesse scegliere un corno del dilemma e darsi da fare perché le cose fossero meravigliose, rifiutandone l'orribilità. Dopodiché, forse per ragioni di pura fisiologia, come sostiene qualcuno, forse per ragioni molto più ragionevoli, come io penso, purtroppo abbiamo dovuto accorgerci che bisogna scegliere aggettivi meno estremi, misure più premurose, più affabili, persino che limitassero il danno piuttosto che cercarne il massimo. Il punto mi pare è che quando si rinuncia alla rivoluzione, come io ho fatto avendovi molto investito e contando veramente di farla, avrei dato la vita, come si dice (e in un certo senso l'ho data ma con una scadenza sbagliata!)…
Giorgio Ma tu hai pensato veramente che si facesse la rivoluzione?
Adriano E' difficile dire; c'è una cosa che scrivevo l'altro giorno a Guido Viale. A quell'epoca noi non avremmo potuto discutere una domanda come quella che stai ponendo adesso tu, era una specie di tabù perché non l'avremmo discussa tra noi e noi, cioè avremmo represso dentro di noi il dubbio che non si dovesse fare la rivoluzione. Questa era la premessa, dopo di cui veniva il decalogo dei comandamenti. Ciascuno, ancora di più noi che eravamo i cosiddetti leader, io poi ero uno di una sicurezza straordinaria, ero l'incarnazione fisica e simbolica della rassicurazione data ad altri ma naturalmente dentro di me sentivo fortissimo questo peso ottundente della responsabilità e naturalmente del dubbio, cercava di essere all'altezza del ruolo, ma anche che la cosa fosse all'altezza di se stessa. Dicevo che Guido Viale mi ha mandato una cosa da leggere, lui è sempre molto intelligente, uno dei più bravi e poi gli voglio molto bene, una sorta di memoria di tutta la sua vita, bella mi è tornato in mente che una delle rarissime volte, ma anche con Mauro Rostagno una volta successe (erano poche le persone con cui poteva succedere allora), che una notte alla fine di chissà quale impegno di questi che ci tenevano a fare gli straordinari (la nostra vita era un'unico straordinario), eravamo rimasti, non so perché se per qualche macchina che ci aveva dimenticati o benzina che non c'era, seduti sul bordo di un marciapiede sfiniti, io e lui. Un po' prima dell'alba, in una città vuota, mi ricordo che, non so per iniziativa di chi, credo mia, quella volta esplicitamente noi ci siamo detti ma può succedere veramente questa cosa? Dopo non siamo andati molto avanti, però la cosa era stata detta, il seme della dissoluzione era stato non gettato ma era caduto li.
Giorgio lo ho sempre avuto un'idea diversa, io non ho mai pensato alla rivoluzione, ho sempre pensato ad una rivoluzione culturale, questo mi aveva affascinato di voi, essendo un po' più grande, io mi ero accostato e voi eravate già partiti. La cosa che più mi aveva affascinato era l'atteggiamento mentale diverso rispetto al resto e quindi pensavo che questo avrebbe cambiato le cose.
Majid Però scusa, questo c'è stato adesso è finito, però ha influenzato e modificato una generazione.
Adriano Sì, però modificato non vuol dire la rivoluzione; la rivoluzione a cui noi pensavamo era accontentarci, postumamente, dei cambiamenti che ci sono stati e che spesso sono avvenuti nonostante noi. Per esempio i cambiamenti nella vita sessuale, nelle libertà noi eravamo contemporaneamente molto più liberi della società in cui ci muovevamo, ma molto più pieni di pregiudizi di qualunque persona venuta da altre esperienze o arrivata dopo. Io sono contrario ad abbellire le cose, per esempio per quel che riguarda me, che ero pieno di pregiudizi, ma la cosa principale è che noi veramente pensavamo alla rivoluzione come ad una radicale conversione quando noi diciamo l'"Uomo Nuovo", come diceva peraltro mezzo socialismo internazionale usando un linguaggio tipicamente cristiano di rinascita, di rinnovamento, di conversione, cioè un mutamento radicale di sé, era una cosa in cui credevamo fortissimamente. Noi pensavamo davvero che il mondo, e noi stessi con lui, potessero essere rifatti da capo a fondo; e questa è una cosa tipica delle esperienze rivoluzionarie e di rinnovamento radicale che ciclicamente si sono presentate. Quando tu scopri che questa cosa non solo non succede ma rischia di provocare dei guai disastrosi, cioè che un'utopia così forte rischia di tramutarsi in una cosa violenta, totalitaria, in una sopraffazione, in una perdita di sé, il rischio è che tu tramuti in buon senso questa specie di ragionevolezza anti chirurgica che ti prende ad un certo punto, omeopatica, cauta, circospetta, perché sei un convalescente. Il rischio è che questa convalescenza, assolutamente salutare, necessaria, si tramuti a sua volta in un eccesso, in troppa grazia; e cioè che ci faccia accettare l'assurdità del mondo così com'è. Il mondo così com'è è assolutamente intollerabile, se tu ci pensi per due ore di seguito diventi matto, devi interrompere ogni cinque minuti, la fame nel mondo, i bambini, l'Africa, l'aids, le guerre puoi prenderne solo un pezzetto e amministrarlo nella tua vita normale in questa parte del mondo perché altrimenti puoi solo darti fuoco oppure correre nudo con la dinamite intorno alla pancia contro un sottosegretario. Io temo che in questa convalescenza molti abbiano lasciato le penne, in un certo senso anch'io forse in una certa misura.
Giorgio Siamo guariti insomma…
Adriano Siamo guariti a tal punto da diventare
rassegnati apologeti; io voglio bene anche a quelli di bocca buona e i più facili, quelli più amaramente rassegnati a questo, persone così spaventate della chirurgia da non accettare di operarsi nemmeno quando non riescono più a muoversi. Quando tu descrivi il mondo, come hai cominciato a fare quasi per scherzo adesso qui, e lo descrivi facendo due passi di lato e vedendo a quale punto di assurdità, di iniquità, di violenza, di sofferenza è arrivata la macchina che nessuno più guida (perché tu puoi dire le multinazionali, puoi dire Clinton, puoi dire Bush, ma non la guida nessuno), una macchina la cui inerzia è superiore a qualunque capacità non solo di controllo ma anche di comprensione, e contemporaneamente sai che se affronti questo problema, se dichiari in tutta la sua portata la malvagità e la perversione del mondo così come va, ti privi della possibilità di mettere un po' di riparo alle cose che hai di fronte. Cioè sei rimesso di fronte all'eventualità della rivoluzione avendo scoperto che non funziona, che non ce la fa, perché questa forza d'inerzia della macchina che fa si che altri allegramente trascinati verso l'abisso proprio ma soprattutto altrui, è una forza d'inerzia superiore alla tua stessa capacità di guidarla da un'altra parte. Dunque una generazione come la nostra, la generazione dei viventi di oggi in questa misura spropositata, superiore, dicono, all'esistenza di tutte le generazioni precedenti (quando si fa il giudizio universale i vivi sono più di tutti i morti che sono venuti prima) non può porsi nei confronti del destino della terra, di sé stessa, degli altri animali se non il fine della riparazione. Cioè non può immaginarsi né soluzioni dei problemi, né ricreazioni, né rivoluzioni, mentre questo mondo, questa macchina, nel suo percorso centrale ha trovato la propria parola d'ordine invincibile e trionfale nella "rottamazione". La rottamazione è esattamente il contrario, tu pigli e butti via, aumenti la discarica che si sta ingrandendo e mangiando quella parte che non è di discarica, a scapito della riparazione. Io sono uno, alla mia età, che ha memoria e immediatamente nostalgia per il calzolaio che risuola le scarpe, della vecchia automobile (io non ho mai avuto la patente) scassata e riparata con i pezzi di ricambio trovati dallo sfasciacarrozze. Leggevo oggi sul "Sole 24 ore" (non perdo niente qua dentro, non ho più la cultura ma ho una quantità di notizie vertiginosa, chiuso in quella cella) le notizie sulle vendite di automobili in Italia, che ha superato tutti i record nell'anno trascorso; è abbastanza impressionante ma il mercato dell'usato è ormai ridotto al lumicino e tutti quanti comprano auto nuove e c'è una crescita di cilindrata, di velocità, poi tutti fermi per 130 chilometri. Io con le auto non ho avuto bisogno di pentimenti perché non ho mai cominciato la carriera, ero felicissimo quando noi bloccavamo la carriera. Questa è la cosa un mondo assolutamente pieno dalla nostra parte; noi abbiamo la caduta demografica ma quello è un criterio assolutamente sbagliato per valutare il rapporto fra esseri e spazi a loro destinati. Noi abbiamo un incremento di automobili che è la vera natura della nostra longevità e caduta di natalità; abbiamo due automobili a testa, ferme, che occupano spazio, e contemporaneamente cessiamo di riparare l'automobile precedente anche se è ancora nuova e può andare per altri 300.000 chilometri, troviamo tutti gli argomenti, gli sconti favorevoli alla rottamazione e all'acquisto di nuove auto.
Giorgio Quindi la "rottamazione" in contrapposizione alla "riparazione".
Adriano Secondo me sono i due criteri opposti della vita di ciascuno di noi; naturalmente si applica anche a noi, che possiamo personalmente essere rottamati (come succede ad una grandissima parte della popolazione umana mondiale) cioè buttati via, calpestati, ridotti ad un pacchettino perché non ingombri e sostituito da un altro. Per esempio la tecnica dei trapianti è promettente, non me la sento di prendermela con gli studi sul genoma che permetteranno di superare le malattie genetiche (ho delle persone care che potrebbero essere curate con queste cose qui; il papa se gli dicono che con le cellule embrionali del nostro fratello surgelato si potrebbe risolvere il Parkinson pensi che non ci penserebbe? Io ci penso per lui). Dunque la rottamazione è il criterio vincente di una società che sa benissimo che moltiplicare per il numero dei cinesi l'esistenza di automobili, ferme in parcheggio o ferme in coda, significa immediatamente la fine del mondo. In Cina, che forse sono un miliardo e trecento milioni, ma forse di più, come dicono altri, perché non si fa il censimento da tempo e perché da tempo è del tutto occultata la presenza di neonati per via di questa tassa anti crescita demografica, da una decina di anni a questa parte hanno cominciato ad essere applicati nei centri metropolitani i divieti alla circolazione delle biciclette perché intralciano il traffico automobilistico. Questo per dire che questa assurdità o la guardi in faccia e allora puoi solo ritirarti, impazzire, morire, diventare santo, qualunque cosa, fare come te un concerto dei tuoi, sostanzialmente diventare matto, oppure non la guardi in faccia e fai il tuo pezzo di cosa, ripari il tuo pezzetto di cosa.
Giorgio Ti aggiusti.
Adriano Ti aggiusti, salvi la vita di quello, adotti quell'altro, disinfetti le ferite. Secondo me il problema della rivoluzione era questo. Per questo io penso che siamo stati l'ultima generazione, tra l'altro attardata, che ha potuto desiderare la rivoluzione, e immaginarsi il cambiamento in forma di rivoluzione.
Giorgio Scusa se torno su questo argomento, ma tu non ha la sensazione che il Movimento parta non legato alla rivoluzione marxista, ma parta abbastanza spontaneamente antiautoritaristico, anticonsumistico e poi diventi decisamente di sinistra?
Adriano Essere di sinistra allora era abbastanza automatico, ma è ovvio che non eri marxista.
Giorgio Ma il tuo comunismo da dove viene?
Adriano Qui le storie erano diverse. Il mio comunismo non era male. Ero anti-stalinista dall'infanzia per una specie di merito familiare.
Giorgio Non intendevo chiederti questo. Tu sei in quell'epoca del rifiuto. Questo rifiuto è immediatamente politico oppure passa attraverso un rifiuto più generico che poi diventa politico?
Adriano Sicuramente. La politicizzazione nel senso in cui parli tu è stata una cosa progressivamente imposta a questo Movimento che ha finito per soffocarlo. Siamo stati stupidi, abbiamo accettato di irrigidire sempre di più questa cosa con una dinamica abbastanza usuale che non ci faceva migliori di altri. Accettando come inevitabili i condizionamenti esterni, cioè che il nemico, invece di essere semplicemente un nemico con cui poter confrontare modelli diversi dell'esistenza umana e di organizzazione sociale, ammazzava la gente, e quindi bisognava essere in grado di contrastare un nemico che metteva una bomba a Piazza Fontana. E però era un alibi anche questo, solo che noi non lo sapevamo; eravamo stupidi, limitati.
Giorgio Vietnam, Piazza Fontana, queste cose hanno portato verso quella parte. Io stavo pensando se questo Movimento non avesse ricevuto un condizionamento di tipo vecchio. Nasce con l'idea di un rifiuto.
Adriano a differenza che oggi, per i più interessanti ragazzi di oggi, nasce da una voglia di rivolgimento, di rifiuto dell'ingiustizia, di rifiuto della mancanza di libertà. Secondo me erano due le cose la fame nel mondo, l'intollerabilità di questo dolore, e la voglia di libertà. C'era questa volontà d'identificazione con il molto distante, con gli antipodi, e anche questo aveva i suoi pregi, ma alla lunga il suo grande difetto, la perdita di vicinanza, di carità per il prossimo, per quello vicino a te. A me pare che i ragazzi più interessanti di oggi abbiano invece fin dall'inizio questa specie di delimitazione del loro orizzonte verso il prossimo, che è quello del sapere di chi ti stai prendendo cura, e chi si sta prendendo cura di te.
Majid C'è una cosa che non mi torna nella liquidazione del fenomeno culturale del Sessantotto, che non è fenomeno politico. Per quanto riguarda il fenomeno politico io in parte concordo con il paradosso di Mauro (Rostagno) che diceva "per fortuna che abbiamo perso", mentre dal punto di vista della modificazione della cultura, intesa dal punto di vista esistenziale, della ricerca, del mettersi in gioco, io credo che un segno forte ci sia stato, che ha modificato una generazione in modo preciso. È vero che adesso tutto è sfumato. Io con i "papa-boys" non sento nessun collegamento, anche se è vero che in molti di loro ci sono le istanze ed i bisogni che giustamente gli attribuivi. Però come comportamento di massa, di individui tutti insieme, io sento l'assonanza al pubblico dello stadio, sento l'assonanza al "Cantagiro", al fan, al meccanismo d'identificazione con la grande regia dello stadio, la grande regia vaticana, che ha mixato la politica con lo spettacolo, ed ha creato questa gigantesca macchina di consenso. Non ci sento assonanza con quella energia che pervadeva le piazze, gli stadi ed i palalido dell'epoca, anche se accompagnati dal nostro delirio ideologico. Ci sento la grande diversità tra chi facendo errori era comunque protagonista e ricercatore di qualcosa, pur nel suo essere massa, e chi è spettatore.
Adriano Secondo me siete troppo unilaterali e temo che questo dipenda dal fatto che noi siamo troppo disillusi, troppo ingenerosi; questi ragazzi, proprio quei due milioni li, ai miei occhi somigliano molto di più a "Re Nudo" di Parco Lambro che ai raduni di fedeli nell'altro anno santo che io mi ricordo, portati dalla Federconsorzi, da Bonomi, capisci? Quei ragazzi, che sicuramente hanno una regia… ma sono dei ragazzi che stanno nei sacchi a pelo, che cantano, e tutto questo veniva strumentalizzato, eterodiretto, tutto quello che vuoi, ma quella notte lì, mi hanno detto che hanno scopato in numerosissimi nei sacchi a pelo…
Giorgio Questa è una delle poche buone notizie.
Adriano Buonissima; moltissimi di loro erano arrivati a Tor Vergata non in comitive organizzate ma come persone che fanno insieme delle cose con una forte identificazione. C'è un aspetto prevalente che è quello che dici tu ma c'è anche un altro aspetto, e uno deve vederlo, altrimenti rischia di considerare avvenuta una mutazione antropologica tale che stai avendo a che fare con un altro genere vivente. E secondo me non è così. Questa storia del gregarismo e delle masse fa veramente impressione guarda gli stadi oggi. Il fascismo e le guerre in Europa hanno oggi come incubatrici gli stadi di calcio. Nella ex Jugoslavia, che io conosco molto bene, è così che si sono organizzati; ancora oggi le cose più importanti lì avvengono negli stadi di calcio ed in subordine in quelli di pallacanestro. Questa impressione allarmante che fanno i musulmani, cioè gli appartenenti a Paesi musulmani, non i musulmani di religione, è in parte giustificata secondo me dev'essere trattata senza posizioni di principio, ma è al tempo stesso spaventosamente maltrattata da questa specie di semirazzismo invalso, alla Biffi. Però, ad esempio, l'influenza dell'immagine della preghiera musulmana è impressionante queste schiene che si piegano e questi piedi, la scomparsa delle facce in un unico genuflettersi; io andai in Iran al tempo della cosiddetta rivoluzione e vidi lo spettacolo dei milioni di persone, maschi, che si genuflettevano così; è una rappresentazione come mai si è avuta nella storia del mondo di questo gregarismo e di questa massificazione di cui parlavamo. Stalin, la Piazza Rossa, persino Tien An Men non sono niente di fronte a questo spettacolo che tiene insieme un mondo in cui la grande maggioranza della popolazione ha meno di quindici anni, questa specie di spettro demografico con questi comportamenti. Questo punto è assolutamente essenziale nel misurare il fantasma che oggi è, come si diceva, "uno spettro si aggira oggi per l'Europa". Sulla regia volevo dire questo, una cosa che mi ha fatto molto piacere pensare all'indomani di Tor Vergata in questa cosa da fans, che non è assolutamente dissimulata ma quasi scontata, col papa che fa l'uomo dello show più importante del mondo, anche li con una certa ambivalenza, si paga un certo prezzo. Questo papa ha potuto fare questo non perché ogni papa può fare questo o perché ogni regia accorta può fare questo l'ha fatto nonostante l'imbecillità dei suoi manager. Quando questo papa morirà, cosa che forse non succederà mai, e bisognerà sostituirlo, la Chiesa cattolica, cioè questa grande Istituzione della potenza terrena, sarà messa di fronte a questo dilemma, cioè lo Spirito Santo dovrà risolvere questo problema o nominare un papa che segni la riappropriazione completa, che sta avvenendo già in questo periodo, della Curia, della gerarchia e degli apparati messi in difficoltà dal personalismo travolgente e carismatico di questo papa (e fare questa cosa significa sicuramente perdere gli spettatori, cioè al prossimo spettacolo non si vendono i biglietti), oppure sceglierne uno che possa far sperare che possa portare due milioni di ragazzi, o come a Manila tre milioni, si dice il più grosso raduno mai avvenuto, cioè l'incubo più grosso. Per fare questo devi sceglierne uno che sia così, in una storia diversa ma che abbia caratteristiche tali che possa far ballare due milioni di persone.
Majid C'è la congiuntura che questo papa s'è sostituito alla mancanza di politica verso il Sud del mondo da parte della Sinistra.
Adriano Ma perché dici una mancanza di politica verso i Paesi poveri? Lui s'è sostituito a tutto! S'è sostituito all'inefficienza dell'anticomunismo, dando una bella botta al fortunatissimo crollo del Comunismo; s'è sostituito alla critica del Capitalismo e del Consumismo diventando il capofila di Rifondazione; s'è sostituito a quello che dicevi tu.
Majid E poi ha rilanciato sul piano della conservazione, sulla morale, coprendo anche a Destra, ha raccolto dappertutto, creando il totale appiattimento (quello che io chiamo il partito papista, il 90% della politica italiana, per non parlare poi del mondo), per cui non può uscire niente se non dal grande vecchio e isolato intellettuale che può dire quello che vuole, e c'è un'omertà, una banalità spaventosa. Vasco Rossi era stato invitato anche lui a fare un concerto per il papa, e lui ha detto di no, che non ci pensava nemmeno. Era una notizia giornalistica, ma non è uscita da nessuna parte!
Giorgio Hai fatto prima un parallelismo tra questo raduno di Tor Vergata e i raduni di "Re Nudo"…
Adriano Ho detto che, se tu li confronti, questi due milioni da una parte con il massimo che a lui [Majid, ndr] sta a cuore, perché io a Parco Lambro li avrei fatti bastonare (scherzo ovviamente), anche se ovviamente allora ero, come dire, reazionario, non dei più ma abbastanza scherzo però allora avevamo una formazione ed una cultura mostruosa per esempio sulle cose sessuali, lasciamo perdere… Io non ho nessuna colpa per le incriminazioni per cui sono oggi in galera, però poi le vere colpe le ho in quel campo li; alcuni di noi erano veramente nemici di "Re Nudo", scandalizzati, indignati, altri di noi erano più protettivi, tra cui io, anche perché io ero molto più amico, di loro, di Mauro. Quando qualcuno se la prendeva con quest'ala allora intervenivo, ma io ero un bischero che faceva il segretario.
Giorgio Io a quell'epoca feci anche qualche concerto per Lotta Continua, diedi qualche soldo, mi ricordo di Gigi Noia…
Adriano Gigi Noia è l'assassino di Calabresi. Quasi tutti quelli di Lotta Continua sono assassini di Calabresi ma Gigi Noia sarebbe in galera con me oggi, perché era imputato dell'omicidio Calabresi, se non avesse avuto un colpo di fortuna spaventoso, e cioè delle fotografie con data, di quelle che si facevano con la Kodak e che sono state ritrovate, che hanno fatto da alibi perché Marino aveva detto che era lui il basista dell'omicidio Calabresi, descrivendolo glabro, mentre lui aveva queste fotografie con un barbone come ha sempre avuto e con la data. Capisci?
[i]Ci ringraziamo tutti e ci abbracciamo, infilando i cappotti. Giorgio chiede ad Adriano se lui ha piacere di un'altra visita eventuale. Adriano annuisce, "se siete voi che venite a trovarmi, ma ho intenzione di dimettermi presto dalla condizione di detenuto. Farò qualcosa ad oltranza". E si va via con il gelo nel cuore. Ma come rispondergli con qualcosa che avesse un senso!
... Fuori di qui, sulla vostra vicenda sta calando il silenzio.
"Anche questo è normale. Per due ragioni. Prima l'assoluta assuefazione, da me condivisa. Seconda è difficile dire qualcosa, io credo, in un paese beneducato".
Tutto finito, dunque? "No, il mio cadavere riaffiorerà, sarà avvistato, produrrà titoli di testa. Periodicamente riaffiorerà. La cosa non è finita" .
Come può riaprirsi, la storia?
"Non so come. Io non sono autore di questa storia, ne sono oggetto. C'è un giudice che sta scrivendo delle motivazioni. Un giudice giovane e simpatico, che teneva a mostrarsi preparato sulle carte del processo. Tutti e tre i giudici erano simpatici, tre persone ammodo. O ricadranno nella voluttà della condanna moralistica e integralista, e della contraffazione dei fatti, oppure dovranno trovare argomenti che non riesco a immaginare".
Perché? "Da dodici anni sostengo che furono i carabinieri ad andare da Leonardo Marino, e non viceversa, e ora pressoché tutti sono pronti a dire che probabilmente andò così. Da dodici anni sono accusato per un colloquio con Marino che non ho avuto, e ora il difensore di Marino dichiara che può essersi trattato di un fraintendimento. Sia il pubblico, sia il giudice che sta scrivendo le motivazioni, possono averne abbastanza o decidere di ignorare tutto ciò".
Prima di essere nuovamente condannato, lei ha rivolto un invito a esponenti del vecchio Pci ammettano che furono loro a mandare i carabinieri a prendere Marino. L'invito pare caduto nel vuoto. "Sì, abbastanza. Alcuni hanno risposto che non sapevano, benché considerassero plausibile o probabile l'itinerario che avevo disegnato. Aspetto di sentire se altri hanno qualcosa in più da dire" .
... Cosa resta da dire? "Nella mia condizione c'è un aspetto di caricatura, di macchietta. Una storia che si trascina così a lungo, così grottescamente, diventa inevitabilmente ridicola. Persino la tragedia in cui è già finita, o può andare a finire, non potrebbe riscattare questo aspetto mediocremente grottesco. In particolare questo significa oggi che il mio continuare a insistere su fatti e circostanze che riguardano la mia accusa e la condanna appare agli altri, compresa una parte di quelli che mi vogliono bene, come una specie di strana mania" .
Per il troppo tempo passato? "Se quando io fui arrestato nel luglio '88 fosse emerso che Marino e i carabinieri si erano intrattenuti occultamente per venti notti, lo scandalo sarebbe stato enorme. Emerse quasi due anni dopo, e fu soffocato. Se fosse emerso quel che il parroco di Bocca di Magra ha raccontato pochi giorni orsono, sui carabinieri avvertiti delle millanterie di Marino che gli stavano dietro da mesi, il castello dell'accusa si sarebbe afflosciato. Se i dirigenti del Pci avessero dichiarato che era del tutto plausibile che il senatore Bertone avesse avvisato il partito, e che il partito si fosse rivolto ai carabinieri competenti, nessuna sentenza avrebbe potuto santificare la spontaneità della confessione di Marino. E gli italiani che si sono occupati di questa vicenda non avrebbero impiegato tempo e intelligenza a rispondere alla domanda "perché Marino si è consegnato spontaneamente?". Se le cose dette ora, all'indomani del processo di revisione, fossero state dette durante, quei tre giudici ammodo, ammettendo pure che fossero malintenzionati, avrebbero avuto una bruttissima gatta da pelare".
E invece? "E invece tutto ciò avviene con una specie di prescrizione alla rovescia, una prescrizione della verità e non del reato. Mettiamo che io esca nel 2017, che vada fuori e incontri delle persone per strada. Un po' contente e un po' imbarazzate si rallegreranno con me, e mi diranno pioveva, eh, quel giorno a Pisa? Così, per farmi contento" .
fra i militanti radicali coloro che considerano Sofri colpevole dell' uccisione di Calabresi sono in netta maggioranza. Inutile starsela a menare. E' così.
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Mario, non so se sia così o no. Ma, per la politica radicale che mi interessa, 'non importa' e 'non deve importare'.
Pannella e Sofri ci tengono NON una battaglia radicale "per la grazia a Sofri" (in quanto innocente, in quanto la colpevolezza è in dubbio, in quanto 'è un'altra persona'), ma per la liberazione di un'istituzione e di un suo potere.
Ciò non toglie, bensì aggiunge, che ciascuno farà quello che può e sa perché sia fatta chiarezza sulla morte di Pinelli. E su quella di Calabresi.
Per quanto mi riguarda LA battaglia resta quella per la Riforma complessiva di questo sistema giustizia e il resto.
E pur vero che fra i militanti radicali coloro che considerano Sofri colpevole dell' uccisione di Calabresi sono in netta maggioranza. Inutile starsela a menare. E' così.
E io, anche e se Sofri uscirà un giorno dal carcere,mi batterò, nel mio piccolo, affinchè prima o poi la verità venga a galla. Su di lui e su coloro che ammazzarono Pinelli. E credo che anche e soprattutto questa sia "giustizia", più ancora che continuare a credere nel rispetto della "legalità". Battaglia anche questa importante, sicuramente.
Ma è proprio questa parola, "legalità", che in questo nostro Paese io vedo sempre più come miraggio, qualcosa che continua ad allontanarsi, ogni giorno di più, come una zattera alla deriva...
Sono cosciente di argomentare, in questo momento, in modo assai poco "radicale".
Consideralo un mio limite, Antonio.
Ciao e buon anno
In tutta Italia nascono comitati a favore dei tre ex-leader di Lc in carcere a Pisa
Giuseppe D'Avanzo, Repubblica 10 aprile 1997
ROMA (g.d'a.) - Da Trento a Caltanissetta. Da Trapani a Ivrea. Da Ravenna a Poggibonsi. Sono centinaia i comitati Liberi Liberi per Sofri, Bompressi e Pietrostefani, condannati a ventidue anni di carcere per l'omicidio Calabresi nel gennaio scorso dalla Corte di Cassazione, dopo sette processi dalle alterne sentenze. La nascita e diffusione dei comitati è un particolarissimo caso italiano. Nascono dal nulla e spontaneamente dalla volontà di un gruppo di amici che non credono nella colpevolezza dei tre e spesso non si tratta né di amici di Sofri né di ex-Lc.
E' gente che ha letto solo le cronache giornalistiche del processo o i libri e i reportage (dalla Bosnia, dalla Cecenia, dalla Patagonia) di Adriano Sofri, sufficienti - evidentemente - per "sentire", per "sapere" che quell'uomo non può essersi macchiato di un delitto, non può aver ordinato la morte di un altro uomo. Spesso sono sufficienti una decina di telefonate per far accorrere in un teatro - è accaduto a Firenze, a Palermo, a Sarajevo, accade ogni lunedì a Roma al Teatro degli Artisti in S. Francesco di Sales - centinaia di persone. Tutti dicono "Non può finire così". E "Non può finire così" ripetono Fiamma e Francesca nella stanzuccia che il partito radicale ha concesso a Liberi Liberi, in via di Torre Argentina a Roma. "Non può finire così". Fiamma, 70 anni, ex-funzionaria della Camera dei deputati, e Francesca, 26 anni, studente di Antropologia, usano la stessa espressione, le stesse parole per spiegare perché da un paio di mesi dedicano tutto il loro tempo libero a raccogliere le firme per un appello al capo dello Stato a favore di Sofri, Bompressi e Pietrostefani.
"Molti di noi - si legge nell'appello che ha già ottenuto sessantamila firme - per ragioni di diversa scelta politica, di estrazione sociale e culturale non hanno condiviso il percorso politico di Sofri, Bompressi e Pietrostefani. Riteniamo però che la loro vicenda giudiziaria sia un problema grave, che ci interpella come cittadini democratici e chiama in causa la credibilità della giustizia italiana". Anche Fiamma e Francesca non hanno mai conosciuto Adriano Sofri né Lotta Continua. "La mia - dice Fiamma - è stata una reazione istintiva. La sentenza non mi ha convinto. Anch'io come il pm Pomarici (l'accusatore di Sofri, n.d.r.) avevo una sensazione di pelle, e la mia "pelle" mi diceva che Sofri è innocente. Ho poi letto le carte. La mia convinzione ne è uscita rafforzata. E ora qui, do una mano al comitato, vado in giro come posso, per chiedere una firma".
"Quelli che fra noi hanno potuto conoscere i punti salienti di questa vicenda - spiega l'appello a Scalfaro - hanno maturato la convinzione dell'innocenza di Sofri, Bompressi e Pietrostefani. Ma anche quelli fra noi che non sono in grado di condividere documentalmente questa affermazione d'innocenza, sono profondamente turbati dall'esito opposto delle diverse pronunzie giudiziarie, che hanno fatto emergere ben più che un ragionevole dubbio su una giustizia così labile e contraddittoria, ma anche così spietata nella sua tardiva definitività". "Nella mia generazione - dice Francesca - c'è disinformazione su quegli anni e, quindi, molta indifferenza o ideologia nel giudicare. Molti dicono quello lì, Sofri, è un privilegiato perché ha attorno a sé molta solidarietà. E allora, dico io, è una colpa? Ma chi si occupa degli altri, chi farà comitati per gli altri?, mi chiedono. E io dico fatelo una comitato, facciamolo, ma non lasciamo all'oblio della galera chi vi è entrato con un ragionevole dubbio di innocenza".
"Siamo ben consapevoli - continua l'appello al capo dello Stato - che la vicenda giudiziaria di Sofri, Bompressi e Pietrostefani ha una sua unicità, ma è anche il sintomo di un ben più ampio malessere della giusti zia, che spesso colpisce persone anonime e sconosciute". "Noi - conclude l'appello - a questo non sappiamo rassegnarci e ci rivolgiamo a Lei per manifestare la nostra fiducia nella sua umana sensibilità nella sua esperienza di magistrato, nel suo ruolo di supremo garante della Costituzone". I comitati Liberi Liberi consegnaranno le firme al Quirinale entro la fine del mese.
Mille ragionevoli dubbi. Sulla certezza del diritto
Valeria Gandus intervista Ettore Gallo
da Panorama, 3 febbraio 2000
Ex presidente della Corte costituzionale e giurista di chiara fama, il professor Ettore Gallo segue da anni, con l'interesse dello studioso e l'impegno di chi crede nel primato della giustizia, la vicenda processuale di Adriano Sofri, Giorgio Pietrostefani e Ovidio Bompressi. Pur definendosi "strenuo difensore della magistratura", Gallo contesta aspramente il verdetto della Corte d'appello di Venezia che ha confermato la condanna a 22 anni per Sofri e i suoi compagni.
Cosa pensa di quest'ultima sentenza?
Premesso che occorre leggere le motivazioni, credo che i giudici veneziani non abbiano avuto la voglia e il coraggio di rovesciare il giudizio dei tanti colleghi che li hanno preceduti.
Coraggio?
Sì, perché più i processi sono lunghi, i pronunciamenti numerosi, la storia processuale complicata, più faticoso è rimettere ordine e più difficile emettere una sentenza che dica "Cari colleghi, avete sbagliato tutti quanti".
I giudizi non sono stati sempre unanimi la Cassazione ha annullato più volte le condanne, mentre al secondo processo d'appello gli imputati sono stati assolti.
Furono assolti, in quell'occasione, grazie ai giudici popolari e a dispetto di quelli togati al punto che il giudice a latere scrisse una cosiddetta "sentenza suicida" che, contrastando totalmente con il verdetto di innocenza, costrinse la Cassazione ad annullare il processo. E a proposito di giudici popolari, nel processo di revisione se n'è sentita la mancanza purtroppo il nuovo codice di procedura penale li ha aboliti lasciando a tre giudici togati la responsabilità del giudizio. Dal punto di vista del garantismo, è un passo indietro.
Ora tutto torna alla Suprema corte, che si è dimostrata più garantista.
Ma il tempo passa e pesa per tutti, anche per i giudici della Suprema corte bisogna vedere se avranno il coraggio di ribaltare il giudizio.
Coraggio è una dote così importante per un magistrato? Non basterebbe l'onestà, l'autonomia, la competenza?
Serve eccome, il coraggio, per annullare nuovamente la sentenza e ordinare un ennesimo processo che chiuda definitivamente questa storia.
Chiudere perché, come dice qualcuno, "di Sofri non se ne può più"?
No, per fare giustizia, per non lasciare più adito ad altre persecuzioni.
Persecuzione è una parola grossa.
E massima è stata l'iniquità di questi processi a cominciare dal mancato rispetto delle indicazioni delle sezioni unite della Corte di cassazione che avevano invitato i giudici di merito ad avvalorare con adeguati riscontri il racconto di Marino. O a ignorarlo. Quei riscontri non sono mai arrivati e le parole di Marino hanno continuato a valere come oro colato.
Lei crede che i giudici di Cassazione lo troveranno, quel coraggio?
Non lo so. Ma so a quale impopolarità andrebbero incontro rimandando a un ennesimo processo. Ha idea della reazione dell'opinione pubblica?
Ma i giudici non dovrebbero essere insensibili agli umori della piazza?
E in genere lo sono. Non partirò certo da questo caso particolare per accodarmi a chi accusa l'intera categoria. Sono uno strenuo sostenitore dei magistrati e continuerò a difenderli da ogni attacco strumentale.
Quello di Sofri e compagni sarebbe dunque un caso isolato?
Non ricordo altri processi costruiti sulle parole di un solo dichiarante.
Marino è stato creduto nonostante lacune e contraddizioni.
La sua è stata una confessione inaffidabile e infida. Altro che "spontaneità" ha passato 19 giorni in compagnia dei carabinieri e almeno due mesi a confidarsi con la moglie, con il parroco, con un avvocato prima di liberarsi dell'"insopportabile fardello". Dice che con la "confessione" aveva tutto da perdere. Non mi pare fino al giorno prima era un poveraccio che viveva di prestiti e rapine, dopo il "pentimento" ha speso centinaia di milioni in case e furgoni per le sue crêpe.
Si era "fatto un nome", come ha detto con orgoglio al processo.
E che dire della "coerenza interna" della confessione o dei "riscontri esterni" al suo racconto? Dalle prime verbalizzazioni alle ultime dichiarazioni Marino non ha fatto che modificare la sua versione dei fatti con aggiustamenti progressivi a seconda delle contestazioni che gli venivano mosse. Dal colore della macchina usata per l'attentato (era beige; no era blu) alla presenza di Pietrostefani a Pisa (c'era; non sono sicuro; non ne ho memoria), all'affermazione di aver maturato in solitudine la decisione di confessare (la sua compagna, Antonia, non sapeva nulla; sì, sapeva, che c'è di strano?).
Antonia Bistolfi è sempre stata considerata l'unico riscontro testimoniale esterno alle dichiarazioni di Marino proprio in virtù del fatto che non sapesse nulla. Ma nel processo di revisione si è chiarito che invece sapeva.
E per non peggiorare la situazione si è rifiutata di deporre al dibattimento.
La sua testimonianza, insomma, non dovrebbe avere più valore.
Non solo a questo punto la confessione di Marino diventa una "vox clamans in deserto", una dichiarazione accusatoria senza riscontri, senza valore. Aspetto con ansia le motivazioni per vedere come i giudici della revisione risolveranno questo problema. Non affrontarlo darebbe adito alla Cassazione di censurare la sentenza. Ma gli interrogativi cui dovranno rispondere nelle motivazioni sono molteplici perché, per esempio, non hanno preso in considerazione la testimonianza del vigile che forniva a Bompressi la cosiddetta "prova d'alibi" giurando che il giorno del delitto, all'ora dell'aperitivo, il presunto killer brindava con gli amici alla morte del commissario in un bar di Massa? Nessuno, a quell'epoca, poteva impiegare tre ore da Milano a Massa. Che cosa scriveranno? Che il vigile ha mentito? E perché, visto che non era un amico di Bompressi?
Insomma, non serve nemmeno un alibi di ferro...
Non esageriamo, questo è un caso limite. Però quando si capita negli ingranaggi della giustizia non c'è mai da stare tranquilli. Diceva un mio maestro, grande giurista "Se mi accusano di aver rubato la Torre di Pisa, per prima cosa scappo".
Difficile avere fiducia nella giustizia.
Io ce l'ho prima di approfondire i miei studi giuridici, sono stato magistrato per dieci anni e so che la grande maggioranza dei giudici onora il suo mandato. Non nego però che episodi come questo possano minare profondamente il rapporto di fiducia con i cittadini.
Forse, quel che più colpisce la gente comune è l'enorme facoltà discrezionale del giudice, il suo potere di decidere della vita degli altri.
Il libero convincimento è un caposaldo dell'autonomia del giudice, ma deve sempre essere motivato e motivabile con un ragionamento congruo che difenda la razionalità del giudizio. In caso contrario è un abuso.
Con questa sentenza, l'antica norma alla base del diritto romano, "In dubio, pro reo", sembra essersi rovesciata "In dubio, pro reitate"...
Questo non può e non deve accadere. Il nostro codice prevede l'assoluzione in mancanza di prove o anche solo in presenza di prove dubbie. Il diritto anglosassone, poi, è ancora più rigoroso la condanna può essere pronunciata solo in assenza di ogni ragionevole dubbio. Qui i dubbi sono troppi anche per il diritto romano. Se nelle loro motivazioni i giudici scriveranno il contrario, sarà dovere della Cassazione cogliere questa ulteriore violazione.
Documento sonoro completo del dibattito sul tema <>, per discutere sulla vicenda storica e processuale di Adriano Sofri e per commentare il film di Pier Paolo Pasolini "12 dicembre"
Il sole appena pallido non riesce a riscaldare il freddo di tramontana, in questo giorno di metà gennaio a Pisa, ma fa risplendere i colori delle semplice case che proteggono le strade del centro storico. La città sembra esibire un'aria dimessa, come a voler nascondere prudentemente i suoi tesori, ben consapevole di quanto poi paga chi ha mostrato al mondo una potenza superiore ai suoi mezzi.
Quando mi avvio verso il carcere, che rinchiude innocente Adriano Sofri ormai da quattro anni, il cielo è coperto di nuvole. Già da lontano scorgo la torre famosa incombere minacciosa sul vecchio edificio, trattenuta da mille cavi solidali decisi a contrastare il suo destino.
Ho cercato tra le pareti spesse una breccia che mi consentisse di entrare.
Mi sono subito imbattuto in un primo muro, il muro delle buone intenzioni. Ecco, il carcere come luogo di espiazione dei corpi e di redenzione delle menti. Mente e corpo, considerati anche da una certa psichiatria come parti separate dell'essere umano. Si capisce allora perché a Sofri è concessa la libertà di far quotidianamente evadere pensieri (alcuni suoi pensieri) che vengono ospitati da alcuni giornali in Italia e all'estero. Ma il suo corpo no deve restare ben richiuso, assieme a quello di migliaia di altre comparse mutilate dei sensi, a beneficio del palcoscenico elettorale su cui va in scena la farsa quotidiana della "fermezza". Per carità, che non si parli più di amnistie e indulti ora che è finalmente passato il Giubileo e si possono dimenticare i ripetuti appelli del Papa.
Copre un lato intero l'imponente muro della vendetta. Cosa pretende quest'uomo, a capo di una rivolta incompiuta che ha cambiato l'Italia nella stagione delle grandi utopie? E come si è permesso di lasciare l'esilio volontario per presentarsi, con la cricca socialista e quel tale Leonardo Sciascia, il vigliacco, a mettere in dubbio la capacità e la volontà dello Stato di salvare l'Aldo Moro condannato a morte dalle brigate rosse?
Si innalza sul lato Sud del carcere il muro della verosimiglianza. A venti o trent'anni di distanza. il tragico omicidio del commissario Calabresi può ben diventare un pilastro simbolico per condannare, con Sofri, Pietrostefani e Bombressi, un'intera generazione che si affacciava sul mercato dei mestieri ereditari. Sembrava una peculiarità tutta italiana questa vicenda, fino a quando, dentro il riposizionamento fazioso della CDU malata di astinenza al potere, non è cominciata la criminalizzazione in Germania del ministro degli esteri Joschka Fischer.
A nulla è servita la tenacia con cui Adriano Sofri ha cercato dal primo giorno di riportare i numerosi processi nei limiti del fatto imputato, per evitare che fossero le parole dette e scritte in quel lontano contesto, a diventare di fatto la prova decisiva a suo carico. Ed invece l'uccisione del commissario Calabresi è stata attribuita a Sofri, con la complicità di un interessato pentito, solo perché Lotta Continua usava allora parole plausibilmente all'altezza di quel omicidio.
L'ha costruito da sè il quarto lato della sua prigione, Adriano Sofri. E' il muro della responsabilità. C'è stato un periodo, della nostra storia generazionale, in cui le parole erano state ridotte a puro strumento di lotta politica. Pensavamo di essere insieme l'operaio oppresso nelle fabbriche, il Davide vietnamita contro il Golia americano, il contadino calabrese espulso dalla sua terra. E nel nome di troppo grandi ingiustizie ci sembrava poca cosa mettere in gioco la nostra e l'altrui vita. Adriano Sofri ci ha presto insegnato che la "parola" è di per sé l'essenza del vivere. Già dalla fine degli anni '80, ben prima quindi dell'inizio della persecuzione giudiziaria, aveva deciso di farsi per questo carico della responsabilità di tutte le parole dette e delle azioni che ne potevano essere scaturite; delle parole sue e dei molti ai quali si vorrebbe perfino negare la nobiltà di essere stati e di essere rimasti amici.
Così è stata ieri per me impenetrabile la prigione in cui vive Adriano Sofri. Non so se in quell'ammasso di ferro e di mattoni, sormontati da una torre sempre più pendente, riesce a sopravvivere qualche fiore. Ho pensato allora di spedirgli una "Rosa di Gerico", quel piccolo rovo rinsecchito che si aggira nel deserto in balia del vento e fiorisce miracolosamente ogni volta che ha la fortuna di trovare una pozza d'acqua su cui posarsi e da cui riprendere vita.
L'accusatore di Fo così i servizi mi ricattavano
di GIOVANNI MARIA BELLU
"Sì, sono io quello che hanno fatto diventare "Anna Bolena",l'informatore della polizia". Enrico Rovelli, 53 anni, manager musicale di successo, è un uomo distrutto. Dieci giorni fa il più illustre dei suoi clienti, Vasco Rossi, l'ha lasciato. Non intendeva più lavorare con un personaggio sospettato d'essere stato una spia del Viminale negli anni delle stragi.
Una storia antica, rimasta segreta fino alla scoperta dell'archivio occulto dell'Ufficio affari riservati in un garage della via Appia, a Roma. Le informative di "Anna Bolena" erano là e non fu difficile scoprire la vera identità del prolifico informatore. Repubblica la rivelò nel maggio scorso. Rovelli non reagì. E forse avrebbe continuato a tacere se Vasco Rossi non gli avesse chiesto di rispondere.
[...] sono stato usato. Mi hanno messo in bocca cose che non avevo mai detto, come le accuse contro i miei compagni e quelle, assurde, contro Dario Fo capo delle Br. Voglio denunciare i responsabili di questa strumentalizzazione".
Come cominciò?
"Avevo venticinque anni. Avevo costruito a Bollate, vicino a Milano, una discoteca, "La carta vetrata". Ci voleva la licenza. E allora le licenze le dava la questura. Così andai là, e trovai il commissario Luigi Calabresi".
Lo conosceva già?
"Da anni. Capitava di incontrarlo per comunicare iniziative politiche, manifestazioni. Era un rapporto normale. Lo stesso Pinelli ce l'aveva".
Ma quel giorno non parlaste di manifestazioni.
"No. Calabresi mi disse che non era facile ottenere le licenze, ma lui avrebbe potuto darmi una mano. A una condizione, che rese esplicita poi".
Quale?
"Che gli dessi qualche notiziola sugli anarchici..."
Quando glielo chiese?
"Fu nel 1970 di certo dopo la strage di piazza Fontana".
Lei era amico di Pinelli?
"Sì. Era un uomo straordinario semplice e generoso".
Calabresi era sospettato di averne causato la morte.
"E io respinsi la sua proposta. Lo mandai al diavolo".
Poi, invece...
"La licenza non arrivava. Avevo investito tutto in quella discoteca. Sollecitavo, chiedevo niente. Finalmente la licenza arrivò, ma per un solo mese. In questura trovai ancora una volta Calabresi. Mi disse che era stato lui a farmela avere".
E cominciarono gli incontri.
"Sì. Qualche volta venivano in discoteca. Altre volte incontravo Calabresi in questura, quando andavo per la licenza. I rinnovi erano sempre di un mese. Capisce? Mi ricattavano".
Ma lei cedette.
"Non direi davo informazioni generiche. Non accusavo".
Ne è certo?
"Solo una volta, messo alle strette, feci il nome di un compagno. Ma subito, attraverso il mio avvocato, denunciai il comportamento della polizia. E per fortuna a quella persona non accadde nulla. Fu prosciolta".
Ecco, questa è la parte della relazione sull'archivio della via Appia che la riguarda.
Rovelli legge per una decina di minuti. Aldo Giannuli, il perito nominato dal giudice istruttore Guido Salvini, descrive 'Anna Bolena' come un informatore di primo piano.
"Sono cose assurde evidentemente avevano qualcun altro".
Lei cioè sostiene che "Anna Bolena" divenne un "contenitore" di più informatori?
"Evidentemente".
Ma Anna Bolena era lei.
"Sì. Ma io queste cose non le ho mai dette".
Come procedette il suo rapporto di collaborazione?
"Dopo circa un anno si presentò una persona e mi disse che a Roma erano interessati a me".
Questa perso na era per caso il maresciallo Alduzzi?
"Sì, era lui. Mi fissò un appuntamento in un bar di piazzale Loreto con uno che veniva da quell' ufficio di Roma. Alduzzi mi disse che era il suo capo. Lui lo chiamava "il professore". Aveva i baffi, la voce rauca, i modi affabili".
Bene. E cosa le disse il questore Silvano Russomanno,
numero due dell'Ufficio affari riservati?
"Sì, era Russomanno. Ma io lo capii parecchi anni dopo, quando anche lui finì nei guai e vidi le sue foto sul giornale. Allora per me era "il professore"".
Cosa le disse?
"Con un tono distaccato e cordiale mi disse che avrebbero gradito se avessi collaborato, ma che non dovevo sentirmi obbligato. Mi disse che sarebbe venuto a farmi visita, di tanto in tanto, il maresciallo Alduzzi".
E lei?
"Davo informazioni generiche".
Quanti incontri ha avuto?
"Con Calabresi ne avrò avuti una ventina. Con Alduzzi una quarantina. Con Russomanno solo un altro, nel quale mi ripetè i concetti della prima volta"[...]
(la Repubblica 7 marzo 1998)
“[...] avevate un'idea di chi poteva avere messo la bomba di Piazza Fontana?
«No, però Valpreda aveva un sosia, che cercava sempre di frequentare il circolo, Nino Sottosanti, detto Nino il fascista. Questa pista non venne mai presa in considerazione dagli inquirenti».
Lei parla del «compagno» che Calabresi la costrinse a denunciare. Quello della foto su un passaporto. Era per caso Gianfranco Bertoli, colui che lanciò la bomba nel 1973 in via Fatebenefratelli, che da sempre i magistrati considerano un infiltrato dei servizi segreti?
«No, io misi nei guai un compagno del circolo che molto tempo dopo fu prosciolto. Io non potevo sapere che quella foto era di Bertoli, strano personaggio che non ho mai conosciuto. La verità emerse quando Calabresi era già morto»[... ]
Rimorsi? Rimpianti?
«Col senno di poi dico che avrei dovuto rinunciare al locale e continuare a dipingere o vendere saponette. Ma ho la coscienza tranquilla, non ho fatto male a nessuno»
di Erasmo d'Angelis da Il Manifesto, 6 febbraio 1997
Luciano Della Mea oggi ha 73 anni e vive a Torre Alta, una frazioncina di Lucca; rappresenta una bella pagina della sinistra italiana guerra in Montenegro, Resistenza, poi l'inizio dell'attività giornalistica a Milano all'Avanti! e quindi la militanza che lo portò a fondare nel '67 con Adriano Sofri il Potere operaio pisano, la rivista di cui divenne direttore e intorno a cui nacque poi il gruppo del Potere operaio.
"Sofri - racconta - l'ho conosciuto nel '64 quando era studente a Pisa e conobbi allora anche Bompressi e Pietrostefani. Mi considero il loro fratello maggiore. L'altro giorno, quando ci siamo rivisti con i vecchi amici davanti al carcere di Pisa per salutare Pietrostafani, ho scoperto che il più anziano del gruppo sono io".
Della Mea restò con Sofri fino al '69 quando Adriano ruppe e decise di fondare Lotta continua. "Anche se all'inizio non mi convinceva - ricorda - restai vicino a Lc fino al marzo 1972, quando Sofri e Lanfranco Bolis misero a punto le Tesi. A quel punto rompemmo, perché le consideravo caratterizzate da estremismo infantile. Loro adombravano un colpo di stato imminente, davano per spacciata la sinistra, io le discussi una per una e l'editore Bertani pubblicò le mie considerazioni nel libro "Proletari senza comunismo"".
Dunque c'eri anche tu a Pisa quel 13 maggio 1972, quattro giorni prima dell'assassinio di Calabresi, quando Lotta Continua organizzò il comizio per la morte dell'anarchico Serantini?
C'ero anch'io, e ricordo che fui contrario a quella manifestazione. Talmente contrario che presi l'iniziativa e telefonai a Cossutta, a Botteghe oscure, perché volevo spingere anche il Pci a ricordare Serantini. Così quello stesso giorno, accanto alla manifestazione di piazza San Silvestro con Sofri, c'era quella di piazza Carrara del Pci con Giancarlo Pajetta. Questo si è rivelato un particolare importante, perché i testimoni delle due manifestazioni, politicamente avversi, affermano che quel giorno pioveva a dirotto. Solo Leonardo Marino afferma che quel giorno non pioveva ed è stato creduto.
Del resto, basta scorrere le cronache dei giornali dell'epoca, dal "manifesto" a "Paese Sera", alla "Nazione", per leggere una serie di "pioggia battente", "pioggla insistente", "fuggi fuggi per la pioggia". Ma secondo Marino proprio al termine del comizio, in un bar della piazza, Sofri e Pietrostefani gli avrebbero impartito l'ordine di eseguire l'attentato...
Intanto, quel giorno Pietrostefani non era a Pisa. Mi pare poi che fosse un giorno di festa, e nei dintorni della piazza c'era solo un bar frequentato da sportivi, talmente pieno di gente e incasinato che difficilmente poteva essere quello il posto adatto per dare mandati. Mi domando perché molti testimoni non sono stati creduti, come Guelfo Guelfi, che stette sempre accanto a Sofri e dichiarò che Adriano non si allontanò mai da solo e ne tantomeno andò in un bar. Dopo il comizio Sofri andò con Guelfo a casa di Soriano Ceccanti e poi a casa sua...
Dove li raggiungesti anche tu...
Andai a casa di Sofri in via Pellizzi dove c'erano la moglie, Alessandra Peretti, con i figli Nicola e Luca. C'erano alcuni compagni che volevano salutare Sofri e c'era anche Marino, per cui non si capisce perché quel mandato Sofri doveva darlo al bar e non piuttosto a casa sua, dove avrebbero potuto appartarsi tranquillamente. La verità è che sono innocenti tutti e tre, io li conosco bene. Se Sofri avesse voluto la morte di Calahresi sarebbe andato lui di persona ad ammazzarlo, questa è la sua struttura morale. E' scandaloso giudicare attendibile una persona che presenta un racconto del tutto privo di riscontri. Ci sono testimoni che affermano che Bompressi era a Massa il giorno dell'omicidio Calabresi ma nessuno ha proceduto a riscontri. Mi ricordo che quando andai a testimoniare a Milano, al primo processo, il giudice mi ritenne inattendibile per partito preso e non c 'e stata nessuna accusa di falsa testimonianza.
Ti aspettavi questa sentenza ?
No, mi illudevo che non reggesse, un'accusa del genere. Ma non credo sia una vendetta politica, è piuttosto la dimostrazione di una logica perversa interna alle istituzioni, alla magistratura, alla sfera politica una volta presa una determinata direzione non tornano indietro anche se è sbagliata. Ma oggi abbiamo l'assoluta necessità della continuità nell'azione di denuncia, perché il rischio e che pian piano le cose cadano nel silenzio. Il comportamento di queste tre persone, che accettano la galera pur essendo innocenti, e un esempio di dignità rara. Bisogna fare di tutto per tirarli fuori.
Segretario Nazionale Associazione Nazionale Funzionari di Polizia
Qualora si potesse affermare, con sufficiente grado di certezza, che l'apparato probatorio è in grado di sostenere le pesanti accuse di omicidio mosse ai tre condannati e che la motivazione della sentenza che li ha condannati è in grado di resistere al vaglio della ragione, non avrei esitazione meriterebbero in pieno di trascorrere in carcere l'intero periodo della pena loro comminata dalla Corte d'Appello.
Nel caso di Sofri, Pietrostefani e Bompressi, però, le cose non sembrano andare così de plano. Vi sono, infatti, degli "indici" che dovrebbero indurre ad una riflessione. Ci si intende riferire non tanto alle raccolte di firme ed alle manifestazioni di solidarietà permanente (che pure, se si è ingiustamente incarcerati, immagino che possano risultare di grande aiuto morale), quanto alle critiche che, con grande puntualità, competenza e completezza, giungono da parte di persone di diversa estrazione politica, professionale e culturale, anche non propriamente vicine ai tre condannati.
Quando, ad esempio, nel corpo di un testo piuttosto sferzante nei confronti degli "ex rivoluzionari oggi gestori dei media", Giorgio Galli, commentando la sentenza di condanna, afferma che "l'omicidio Calabresi, a un quarto di secolo dai fatti, continua a rimanere un rebus irrisolto" (prefazione a La sentenza del processo Calabresi, 1997, pag. 8) è chiaro che non parla come uomo di parte.
Né si può pensare di sottrarsi all'obbligo morale di attivare il cervello nascondendosi dietro all'esile scusa dell'intangibilità del giudicato.
Tra ciò che è legittimo e ciò che è "giusto" può, a volte, esserci un grande divario, come insegnano i processi a Dreyfus, a Sacco e Vanzetti, a Enzo Tortora e molti altri analoghi.
Non sono in grado di esprimere un giudizio definitivo, ma devo ammettere che i dubbi sollevati da molti autorevoli commentatori appaiono meritevoli di particolare attenzione.
Il lavoro di riscontro esterno delle dichiarazioni del collaborante Marino mi è parso che, in più di una occasione, si dimostri vacillante. In alcuni casi, anzi, invertendo la metodologia del riscontro specifico, il giudice utilizza le difformi dichiarazioni di Marino (rilasciate oltre sedici anni dopo l'accaduto) per smontare l'attendibilità degli altri imputati, dei testimoni oculari e, addirittura, per correggere gli stessi risultati delle investigazioni e dei rilievi compiuti, sul luogo e nell'immediatezza del fatto, dalla Polizia giudiziaria. E' sulla base di questo fondamentale dubbio metodologico, peraltro, che le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con sentenza del 23 ottobre 1992, hanno annullato la precedente condanna dei tre, riconoscendo l'illogicità della motivazione.
Le perplessità, tuttavia, si moltiplicano se si passa a considerare il metodo con il quale, in dibattimento, sono state raccolte, sollecitate e valutate le testimonianze in generale.
Spesso, a mio modo di vedere, è mancata quella sensibilità investigativa che si informa ai più elementari principi di psicologia della testimonianza. Nel condurre un interrogatorio, infatti, bisogna tener conto che il testimone reagisce a precisi stimoli esterni che gli provengono sia dall'interrogante come da altre fonti e che le condizioni di tensione possono influire grandemente sulla fedeltà e completezza delle dichiarazioni, inducendo il soggetto a rispondere in un modo piuttosto che in altro. La massima cautela, ad esempio, deve essere posta nel rivolgere domande suggestive, che, di solito, si pongono con l'intento di "forzare" la memoria del testimone e di ottenere particolari che da una deposizione spontanea non sarebbero mai emersi. Attraverso le domande di maggiore suggestività non solo si può alterare in misura notevole l'esito di un esame ma si è constatato che il tasso di fedeltà della deposizione tende a scendere nettamente. E' questo il motivo per il quale è sempre buona norma riportare nei verbali il testo della domanda che si pone all'interrogato (v. C. Musatti, Elementi di psicologia della Testimonianza, 1991, pag. 216 e ss.).
E' probabile, inoltre, che il giudizio di scarsa attendibilità che ha colpito le dichiarazioni di alcuni dei testimoni presenti sulla scena del delitto (in particolare quelli che, nell'immediatezza, hanno riferito della presenza, tra gli attentatori, di una donna della quale, invece, Leonardo Marino non ha parlato) avrebbe forse potuto essere diverso. Col passare del tempo, infatti, si verificano comunque delle deformazioni mnestiche che modificano il ricordo fino a provocarne l'oblio. In un caso tanto grave come quello dell'omicidio Calabresi, inoltre, è probabile che sul processo di oblio di determinati ricordi possa aver influito il fattore emotivo ed, in particolare, quel fenomeno che si definisce di ottimismo mnestico. E' noto che la mente tende a rimuovere i ricordi spiacevoli mantenendo quelli positivi.
Sollecitando in modo adeguato dei testimoni che, invece, sono stati tout court bollati come inattendibili, si sarebbe forse potuta accertare meglio la verità processuale e riscontrare con maggiore efficacia gli assunti di Marino.
Nel corso del dibattimento e dopo circa due anni dalle prime dichiarazioni di Marino, è poi emerso che i primi contatti "investigativi" fra il "pentito" e gli uomini dell'Arma erano informalmente iniziati diciassette giorni prima rispetto alla data risultante dagli atti.
Di quanto accaduto in questo considerevole "buco nero" non è rimasta traccia alcuna. Non voglio certo, a questo punto, lasciare spazio ad ingiuste insinuazioni sull'operato dei Carabinieri. Non posso, tuttavia, far a meno di notare che, anche durante la vigenza del vecchio codice di procedura penale, è sempre esistito l'obbligo di documentare tutte le attività di polizia giudiziaria e di rapportare compiutamente all'Ufficio del P.M.. Ogni comportamento anche solo apparentemente difforme è naturale che possa dar adito ad illazioni e domande alle quali, poi, si deve dare adeguata risposta.
Questi dubbi (che, in realtà, non sono i soli che la vicenda desta - v. C. Ginzburg, Il Giudice e lo storico, 1991), scaturendo dalla lettura della parte motiva di una sentenza passata in giudicato, non possono, però, di per sé soli essere posti a fondamento della revisione a favore dei tre condannati. Per la riapertura del procedimento penale occorrono nuovi elementi che, salve le possibilità di una più approfondita rilettura tecnica delle singole prove già acquisite, non sarà molto agevole produrre.
Dopo il messaggio alle Camere, con il quale il Presidente Oscar Luigi Scalfaro ha escluso di poter concedere la grazia ai tre condannati, però, la revisione del processo sembra essere l'unica strada accettabile ed istituzionalmente corretta per verificare criticamente, alla luce delle nuove emergenze probatorie, l'effettiva tenuta logica del complesso delle dichiarazioni di Leonardo Marino.
Non si desidera, certo, che la possibile revisione del processo per l'uccisione del Collega Calabresi si trasformi in un attacco alla magistratura, in un pericolo di delegittimazione del ruolo essenziale svolto dai "pentiti" nella lotta al crimine organizzato (e, per questo, ci preoccupano non poco certe proposte di modifica dell'art. 192 del codice di procedura penale) o debba risolversi in un mero espediente per garantire un'assoluzione "forzata" a persone che, nonostante stiano in carcere, qualcuno continua a considerare privilegiate.
Dalla vicenda di Sofri, Pietrostefani e Bompressi, invece, a prescindere dall'esito delle prossime iniziative giudiziarie della difesa e superata qualsiasi strumentalizzazione politica di parte, dovrebbe poter scaturire un forte movimento di opinione. Sono ancora troppe le persone condannate o sottoposte ad interminabili processi sulla base di elementi insussistenti, di dichiarazioni prive di attendibilità, di riscontri insufficienti e di assurdi teoremi. Costoro, nella maggioranza dei casi, non ricevono manifestazioni di solidarietà e segni tangibili di sostegno morale.
E' proprio a favore dei più deboli (fra i quali, paradossalmente, si annoverano anche diversi funzionari di Polizia) che, quindi, è indispensabile affermare il diritto ad un processo penale, fin dai primi atti, più garantito, tenendo conto che imparzialità e correttezza possono essere realmente assicurate solo se magistratura e polizia giudiziaria continueranno a mantenere un elevato livello culturale e professionale.
Roma, 6 novembre 1997
dott. Giovanni Aliquò
Segretario Nazionale Associazione Nazionale Funzionari di Polizia
Lerner «Perché mi considero complice.Sfido chiunque a condannare la fuga»
Il giornalista, ex militante di Lc «Adriano paga perché ha difeso l'onore collettivo della nostra storia»
dal Corriere della Sera, 26 gennaio 2000
MILANO - Dedicato a quelli che stanno scappando
«In questi anni ho visto Giorgio e Ovidio spoliticizzarsi sempre più. Il peso delle loro catastrofi esistenziali ha preso il sopravvento. Persa anche l'ultima speranza, hanno fatto una scelta individuale. Sfido chiunque a condannarli» .
Anche Gad Lerner ha fatto una scelta. Che non si limita all'umana adesione alla fuga di Ovidio Bompressi e Giorgio Pietrostefani, ma va oltre. Lo ha scritto in un editoriale pubblicato sul sito Internet de la Repubblica
«Sappiatevi regolare, quando leggete i miei articoli sono opera di un complice degli assassini del commissario Luigi Calabresi» .
Lerner, perché si ritiene complice? Lei nel 1972 era soltanto un liceale.
«Tutti noi ex militanti di Lotta continua potremmo cavarcela individualmente. Vero, ai tempi del delitto Calabresi io avevo 17 anni, ero uno studente del Berchet. Entrai in Lc l'anno dopo. Ma rifugiarsi in questi argomenti sarebbe indecente»[(i]
E dunque?
[i]«Rivendico l'amicizia verso Sofri, Bompressi e Pietrostefani, e rivendico la nostra corresponsabilità, nel bene e nel male. Adriano poi si è fatto carico di una identità collettiva. Dell'onore di tutti noi ex di Lc. Dunque, il disonore di Sofri mandante dell'omicidio Calabresi è anche il mio. È questo che ho voluto dire a chi mi segue» .
Cosa intende quando parla di corresponsabilità?
«Rivendico in pieno una esperienza giovanile nella quale certamente ci sono stati errori ma non ignominie. Noi che siamo stati in Lc non abbiamo di che vergognarci. Quando si è trattato di misurarsi con problemi drammatici, come quello della lotta armata, abbiamo scelto posizioni impopolari e difficili».
Si sente in debito con Lotta continua?
«Se ho una qualche forma di credibilità pubblica, nasce da quella esperienza. Lotta continua mi ha dato molto più di quello che mi ha preso».
Lei vive la sentenza di Venezia come una sconfitta personale?
«Non solo. Vedo nella sentenza di Venezia la speciale e cocente sconfitta del '68 italiano. In un altro Paese, Sofri oggi potrebbe essere un uomo di governo, com'è per Daniel Cohn Bendit in Francia o Joska Fischer in Germania. Invece è un simbolo del paradosso nazionale un intellettuale che firma in prima pagina per alcuni tra i più autorevoli giornali, e al tempo stesso un uomo destinato a spegnersi in carcere»
Quali sono le ragioni di questa sconfitta?
«La giustizia italiana non è abbastanza forte da saper riconoscere i propri errori».
È convinto che vi sia accanimento contro Sofri?
«Adriano è antipatico a tanti. Perché è molto poco italiano nel rivendicare l'onore collettivo della sua storia, che, lo ribadisco, è anche la mia. La sua è un'assoluta indisponibilità ad accettare il fatto che Lc potesse ammettere l'omicidio politico. Per questo ha pestato molti piedi, per questo è stato punito. E questo è il segno della sconfitta del '68 e del suo isolamento».
La fuga di Bompressi e Pietrostefani avrà ripercussioni anche sulla posizione di Sofri?
«Credo di no. Bompressi e Pietrostefani in questi anni hanno onorato fino in fondo la fiducia nelle istituzioni. Lo Stato ha fatto di tutto per una soluzione all'italiana, alla chetichella. Un esempio prima dell'esecuzione dell'arresto sono stati fatte passare settimane, quasi un invito alla fuga. Ma loro non lo hanno accettato. Non hanno fatto altro che battersi nel rispetto delle procedure. Fino a quando è stato possibile» .
Adriano Sofri forse ci ha messo qualcosa di più.
«In Adriano l'orgoglio è proseguito. Per tutti questi anni ha continuato ad essere il militante che era. Insieme ad Alexander Langer, del quale era davvero il gemello, e con il quale ha vissuto la riflessione sui Balcani, Sofri ha proseguito il meglio dell'esperienza di Lotta continua»
Scusi la brutalità Langer ha scelto di andarsene, Sofri è in carcere.
«Già. "Continuate in ciò che è giusto", se lo ricorda? Era la frase che trovarono scritta su un biglietto in tasca ad Alex il giorno in cui ci lasciò per sempre. Ed è ben triste che mentre Walter Veltroni sceglie di chiudere il congresso Ds proprio con questa citazione, il fratello gemello di Langer sia destinato a morire in galera».
Abbiamo bisogno tutti della verità, anche i colpevoli
Marco Pannella
(Notizie Radicali n 180 del 25 agosto 1988)
SOMMARIO Marco Pannella prende posizione sull'arresto di Adriano Sofri, ex dirigente di Lotta Continua, accusato dalla magistratura di essere il mandante dell'assassinio del Commissario Calabresi nel 1969, ribadendogli la propria fiducia e amicizia. Avanza una proposta cercare, tutti insieme, di far luce sull'assassinio di Calabresi. Intervengono, su quest'ultima proposta, Enrico Deaglio, Michele Serra, Alexander Langer, Luciano Violante, Giacomo Mancini, Alfredo Biondi, Giovanni Russo Spena e Grazia Cherchi.
«Molto di recente mi è stato rimproverato di non essermi mosso tra i primi in difesa di Enzo Tortora. E' inoltre noto che non mi sono mosso tra i primi nemmeno nella difesa degli imputati del 7 aprile. Il Partito radicale, io stesso, saremmo dunque lenti; anzi arriviamo spesso "ultimi". Non è legittimo, però, il dubbio che si arrivi "ultimi" perché -grazie alla serietà del nostro procedere- riusciamo poi ad essere efficaci e risolutivi?
Ciò detto passiamo al "caso Sofri" e all'assassinio del commissario Calabresi. Pochi attimi dopo aver appreso la notizia dell'arresto dei quattro esponenti e militanti di Lotta continua dichiarai pubblicamente la mia fiducia, la mia amicizia profonda per Adriano Sofri ed espressi i dubbi che potevano essere sollevati nei confronti della decisione dei magistrati ai quali esprimevo fiducia sincera, se non identica, non conoscendoli personalmente.
A distanza di due settimane ribadisco con maggior forza la mia grande amicizia e la decisione di fiducia in Adriano Sofri, così come i miei dubbi sull'opera, pur sempre legittima a quel che mi sembra, dei magistrati.
In particolare sta nascendo e rafforzandosi in me il timore che nei due giudici milanesi rischi di prevalere un uso strumentale della carcerazione e delle sue condizioni, specie nei confronti di Bompressi. Non vorrei che si usasse la carcerazione come "strumento" per far "crollare" un detenuto; non vorrei che dall'amore della verità, dal dovere e dal compito di ricercarla, si stesse una volta di più passando alla passione dell'indagine, alla difesa a qualsiasi costo di quel che si è fatto o pensato di dover o poter fare.
Ciò detto, ho una proposta da avanzare, questa e se, insieme, tutti, non solamente gli "ex" di Lotta continua oggi chiamati in causa, cercassimo di far luce sull'assassinio di Calabresi? Se anche le controinchieste le facessimo in questa ottica? Il modo migliore per difendere degli innocenti ingiustamente sospettati, mi sembra, è quello di cercare e, se possibile, trovare i colpevoli.
Certo, a distanza di sedici anni questo è difficile. Ma per l'oggi e per i prossimi sedici anni abbiamo più che mai necessità della verità, tutti; sia i colpevoli di allora, probabilmente essi per primi; sia noi radicali che saremmo loro compagni senza riserve, con riconoscenza, con tutta la nostra forza in questa opera difficile, drammatica e bella. Per un oggi e un domani (se lo volessero) comuni».
Michele Serra
giornalista de L'Unità
...Ieri sul «Corriere della sera» appare un articolo di Marco Pannella, l'hai letto?
Sì, l'ho letto
Ecco che impressione te ne sei fatto?
Ma non lo so, l'ho trovato abbastanza interessante e fantasioso come sono spesso le prese di posizione di Pannella, ho dei dubbi sull'utilità effettiva di questo appello, nel senso che io penso che a modo suo ognuno già adesso dei dirigenti di Lotta continua stia provando a capire cosa è accaduto veramente, la verità, ecco... Devo dire che una lettura maliziosa dell'articolo di Pannella potrebbe fare pensare, e sicuramente qualcuno l'ha fatto, che Pannella invita semplicemente qualcuno a confessare, magari poi offrendogli la tutela di una candidatura in Parlamento.
Alexander Langer
consigliere regionale verde
Devo dire che questa volta, contrariamente al solito, mi trovo in disaccordo con Pannella la sua mi sembra una proposta pericolosa, se sta a significare che uno può difendere la propria innocenza o l'innocenza dei propri amici, solo se riesce a trovare i colpevoli. Lotta continua non esiste più come soggetto politico, sarebbe assurdo ricostruirla in qualche modo, nell'intento di inquisire sui fatti di quegli anni; piuttosto potrebbe essere un soggetto attivo oggi, come il Partito radicale o lo stesso Pannella con il suo alto senso del diritto a promuovere un comitato, una commissione per far luce sull'omicidio Calabresi, ma anche su quello Pinelli; in questo caso, se sapessi qualcosa, darei la massima collaborazione.
C'è una parte dell'articolo che condivido perfettamente e che trovo molto nobile, cioè l'appello morale, quasi evangelico, che Pannella lancia e che è quello che la verità vi renderà liberi rivolgendosi ai possibili colpevoli. Questo incoraggiamento di Pannella, già contenuto in fondo nel suo primo intervento, è importantissimo, soprattutto per chi la verità la professa costantemente; purtroppo credo che la conseguenza peggiore del pentitismo sia quella di aver cancellato la consistenza e la moralità del pentimento, quella di chi dice ho fatto questo, oggi sono cambiato. Io mi sono arrovellato in questi giorni per capire che cosa farei se sapessi chi ha ucciso Calabresi e credo che in definitiva andrei da queste persone e gli direi che forse oggi è il momento per parlare di quello che hanno fatto senza vergognarsi, pagare la giusta pena e pretendere che la società riconosca che può essere cambiato. Gli direi che oggi il clima politico e morale consente questo. Per fortuna non ho da dover sopportare questo onere, posso dire di esser scampato da ciò.
Luciano Violante
deputato comunista
Ho letto con molto piacere questo intervento di Pannella perché è finalmente un'impostazione seria sia nel punto in cui dice che la carcerazione non deve essere uno strumento per convincere a confessare, sia dove poi lancia una proposta costruttiva quella di lavorare perché si trovino gli autori dell'assassinio del commissario Calabresi, ecco questo è un modo molto serio, che fa da contraltare ad atteggiamenti non seri presi sulla stessa questione. L'ombra della vicenda Tortora è ancora dietro la porta, è comunque bene sollecitare la vigilanza di tutti.
Giacomo Mancini
deputato socialista
«Mi fa sempre molto piacere leggere Marco Pannella, seguire i suoi interventi e, anche in questo caso, credo che la sua sollecitudine debba considerarsi valida.
Però non credo che i comuni cittadini debbano impegnarsi in inchieste e controinchieste. I cittadini devono essere messi nelle condizioni di avere fiducia nella giustizia e nei giudici del proprio paese. I cittadini non devono sobbarcarsi l'immane fatica di concorrere a trovare verità che spetta ad altri trovare, o battere piste che è compito di altri seguire. Questo in teoria. Purtroppo in Italia le cose non stanno così, e sembra che lo slogan che abbiamo trovato nella campagna referendaria, quello della "giustizia giusta", sia ancora un'utopia.»
Alfredo Biondi
vicepresidente della Camera
«L'invito di Pannella ha due pregi prima di tutto quello di essere un appello alla coscienza, e poi un appello ad una sopravvenuta ragionevolezza in chi ha vissuto gli avvenimenti di allora con uno spirito ed in una realtà molto diversi da quello di oggi. Lui dice "io credo nell'innocenza di Sofri" forse intende dire che ci crede con l'ottimismo della volontà, con l'affidabilità dei sentimenti, che però non sono sufficienti in questo caso. Io dico che ci spero.»
Giovanni Russo Spena
segretario nazionale di Dp
Mi sembra innanzitutto importante notare come in questa occasione, forze come il Partito radicale e Democrazia proletaria si siano trovate unite e coinvolte nel controllo garantista e democratico dell'inchiesta sull'omicidio Calabresi.
Per quanto riguarda la proposta che Marco Pannella avanza nel suo articolo, ho cercato Marco per parlargli, poiché non credo lui intenda mettere su una vera e propria inchiesta inquisitoria non ne avremmo né il tempo né i poteri. La sua proposta è giusta perché ribalta il senso in cui ci si è mossi finora. C'è un dato di fatto, e cioè l'omicidio Calabresi, dobbiamo partire da questo e scavare fino a quando non troviamo la possibile verità, non invece fare del tutto per dimostrare la colpevolezza degli arrestati.
Grazia Cherchi
scrittrice
«Ho trovato molto allarmante il fatto che di fronte all'esplodere di questo caso angosciosissimo, che bisognerebbe chiamare "caso Marino", molti dei protagonisti di quel periodo tendono a rimuoverlo, decidendo che è meglio dimenticare.
Non posso non approvare quello che ha scritto Marco Pannella, però ritengo disperata l'impresa che lui suggerisce. Intanto perché sono passati sedici anni, e la ricerca dei colpevoli alla distanza di sedici anni, con le forze quasi inesistenti che abbiamo (sebbene io, come ho scritto sul Manifesto, non sia un'apocalittica) mi sembra difficilissimo. Ho detto di non essere "apocalittica" perché credo che ancora, forse per poco, l'Italia sia tra gli altri paesi europei quello che offre delle "sacche" culturali di diversità, di vitalità e vivacità, delle sacche di emarginati, certo, come Pannella o come, nel mio piccolo, io. E' necessario che, come dice Pannella, tutti si scuotano, parlino, scrivano, prendano posizione, non solo gli ex di Lotta continua, ma tutta quella "minoranza morale" che pure esiste nel nostro paese, per dare addosso a quello che sta succedendo, non solo sul caso Sofri, ma sui tanti gravissimi casi che in Italia sono successi, stanno succedendo o succederanno.
E' necessaria la verità, come dice Pannella, verità su Calabresi ma anche su Pinelli, su piazza Fontana, sulle stragi. Che luce sia fatta, ma sia fatta su tutto».
Enrico Deaglio
giornalista
L'articolo di Pannella si può dividere in due parti da un parte la preoccupazione nei confronti dell'operato della magistratura milanese, accompagnata da un sostanziale riconoscimento di correttezza; poi c'è una parte in cui si avanzano dei dubbi sul modo in cui si sta svolgendo l'inchiesta e in particolare sulla strumentalizzazione dell'uso della carcerazione. L'ultima parte è poi una proposta su questo vorrei dire che Lotta continua si è sempre preoccupata di cercare la verità su quanto è successo quel 17 maggio 1972, fin da quando due suoi militanti vennero incarcerati perché scambiati per gli identikit degli assassini. Tanto più oggi, quindi, nella situazione in cui ci troviamo, siamo interessati a trovare la verità. Io non ho nessuna difficoltà ad accogliere l'appello di Pannella, quello che stiamo facendo infatti non è tanto un'inchiesta tesa a difendere gli amici in galera, ma a far luce su quanto successe a quel tempo. Però vorrei aggiungere una cosa, che Pannella sa benissimo, e cioè che tutti i peggiori delitti, le peggiori stragi, tutto quello che di più terribile è accaduto in Italia negli ultimi trent'anni, è tutto rimasto insoluto, tutto ancora avvolto nel mistero. Abbiamo sì bisogno di verità, ma non solo per l'omicidio Calabresi. Sono sicuro che con Marco potremo fare delle cose insieme su tutta questa storia.
Oggi che finalmente la protesta per il caso Sofri scuote le coscienze di mezza Italia e che nonostante le bizze dei ministro Castelli appare sempre più difficile continuare a fare come se nulla fosse, è forse arrivato il momento di dire sul serio se gli si crede oppure no. Ebbene, io gli credo, e questa mia fiducia non può che essere, a fronte di una condanna definitiva, che un atto assolutamente personale impegno me stessa, e cercherò di spiegare brevemente le ragioni di questa mia posizione. Altri possono schierarsi per la sua liberazione con motivazioni diverse è un altro, è molto diverso da colui che guidava Lotta Continua in quegli anni, oggi è un buon maestro, serve un atto di pacificazione rispetto ad allora...e cosi via.
Io parto e scrivo da cronista, ero giovane e alle prime armi quando mi trovai coi taccuino in mano curva sul sangue dei commissario Calabresi e la sera stessa ascoltai le frasi scellerate di soddisfazione espresse da alcuni dei movimenti extraparlamentari. Ero giovane quando seguii le prime indagini milanesi, confuse, incredibilmente rozze, altalenanti tra la voglia di ìncastrare Camilla Cederna e la ricerca dei mandanti ed esecutori tra i ragazzi fascisti di San Babila. C'era come una scelta di girare attorno, di non voler scavare, di non affrontare di petto la situazione. Cera già la paura di trovarsi sul cammino la solita storia italiana, di deviazioni e complotti.
E' passata quasi una vita, da allora, fino al momento in cui per Sofri si chiusero i cancelli dei Don Bosco di Pisa, e decidemmo, col giornale che in qualche modo gli era il più vicino, se non altro dal punto di vista redazionale, Il Tirreno, di ricominciare da capo, di seguire la storia fin dall'inizio, dal momento cioè in cui era esplosa la confessione di Leonardo Marino, altro personaggio 'locale", nel senso che lavora e vive ai confini tra Toscana e Liguria.
C'era e c'è, nella vicenda che ancora oggi tiene Sofri in galera, una forte dose di Toscana tutto cominciò, hanno detto i tribunali, proprio a Pisa, un giorno dei 1972 ... Lui, Adriano, che oggi tutti conoscono ed apprezzano per le cose che scrive e pensa, non ci ha mai aiutato un gran che, nella fatica di far tornare al loro posto i tasselli mancanti. Nei lunghi colloqui che ho avuto con lui in questi anni non è mai andato oltre una generica ammissione è possìbile che il delitto sia nato all'interno della estrema sinistra; e un altrettanto generico rammarico nei confronti dei Pci, reo di aver cavalcato le confessioni di Marino che venivano a confermare antichi sospetti ed accuse.
Io non credo alla confessione di Marino c'è troppa oscurità nella vicenda che riguarda il suo rapporto con i carabinieri, l'inizio e la molla dei suo pentimento, lo scambio reciproco di interessi, l'ambiente ìn cui lavorava e viveva l'ex compagno di Lc, la convivente maga che appuntava su un suo quaderno frasi misteriose sulla situazione (ma non fu riascoltata in tribunale sulle molte incongruenze), il religioso e i politici che furono vicini a Marino. Non è la storia di una limpida confessione, non c'è un pentito che abbia rìschiato qualcosa. Ci ha guadagnato, oh, si, e nemmeno un giorno dì galera per lo stesso reato per cui un altro è ancora dentro. Insomma la base sulla quale si fonda l'accusa che ha fatto condannare Sofri a 22 anni dì carcere è una base fragilissima, forse addirittura marcia, ancora da scandagliare fino in fondo. Qualcuno, si è detto a un certo momento, sarebbe stato pronto ad ammettere che ci poteva essere stato un "equivoco", all'inízio di tutto. Forse non era stato proprio un ordine, quello di Sofri; forse non era stato proprio Sofri ... Un equivoco? Ma in che punto della storia? Allora, nel 1972, o più tardi (ma quando esattamente?) quando Marino offri le sue rivelazioni che tanti soprattutto a sinistra ritennero assolutamente verosimili?
Allora, siccome c'è troppo buio nella vicenda che ha segnato l'inchiesta sull'uccisione dei commissario e siccome non ci sono elementi o prove oltre alle cose orrende che scrivevano quelli di Lc e alle parole di un solo pentito, e siccome sull'altro piatto della bilancia c'è chi non chiede la grazia e soffre anni e giorni e ore di carcere per ribadire la propria innocenza, io credo che il caso Sofri sia un grave errore giudiziario, di quelli che resteranno nella storia. La magistratura, gli inquirenti possono aver sbagliato non credo affatto che ci sia stata malafede, certo non era facile valutare materiale investigativo raccolto tanti anni dopo e formatosi all'interno di quel mondo di intrighi, vendette personali e politiche e sortilegi.
Non esistono motivi oggi per non dare la grazia a Adriano Sofri se è innocente deve essere liberato perché è innocente; se non lo è vale tutto quello che da tanti si è detto su ciò che è diventato e per ciò che rappresenta. Non un "raffinato intellettuale", ma un uomo di seria e sofferta meditazione. Un solitario, scomodo, un tantino arrogante e non a tutti simpatico ma vero. Esclusa dunque ogni buona ragione, solo ottusi pregiudizi o meschini e inconfessabili calcoli possono ritardare l'iter che permetta al Capo dello Stato di esercitare quel diritto di grazia che a norma della Costituzione appartiene esclusivamente e senza condizioni a lui.
L'Unità mi aveva telefonato venerdì scorso per chiedermi, preventivamente, un commento alla sentenza per il processo Calabresi prevista per sabato mattina, 11 novembre 1995. Avevo risposto che l'avrei scritto, e anche lungo, se li avessero assolti, ma non l'avrei scritto se li avessero condannati. Pensavo però che li avrebbero assolti e che quindi avrei scritto. Sabato alle 11,05 ho saputo che avevano condannato Sofri, Bompressi e Pietrostefani a 22 anni di carcere. Sono rimasto molto colpito - "turbato", "annichilito" sono dei possibili sinonimi - e non ho scritto.
Dopo un dibattimento assolutamente anonimo, disertato dai cronisti e dal pubblico, la Corte si era ritirata in camera di consiglio, a Como, lunedì 6 novembre alle 14 ed aveva discusso del caso fino a venerdì notte. L'ultimo atto del processo (il terzo processo di appello in sette anni) era stato una vibrata dichiarazione di innocenza di Adriano Sofri. Aveva parlato per un'ora e quaranta minuti, appassionato come al solito, ma questa volta anche con un filo evidente di esasperazione nella voce. L'accusa contro di lui, da sette anni, è sempre stata una sola aver dato a Leonardo Marino il mandato di uccidere il commissario Luigi Calabresi, in una manciata di minuti, ai margini di un comizio a Pisa il 13 maggio 1972, giorno in cui migliaia di persone protestavano contro l'uccisione dell'anarchico Franco Serantini.
Questi nomi e queste circostanze probabilmente non fanno scattare nei più giovani alcun ricordo. Il mio invece è vivido pochi giorni prima Franco Serantini era stato fermato, durante scontri di piazza a Pisa tra manifestanti e polizia. Era riemerso dai locali del carcere di Don Bosco, cadavere, con un referto di "morte per insufficienza cardio respiratoria". (Allora si diceva così "Gli si è fermato il cuore").
Franco Serantini era un orfano e nessuno poteva chiedere indagini in nome suo. Però, in base ad una vecchia legge, un comitato cittadino ebbe il permesso di far partecipare un perito di parte all'autopsia. Quel perito fu il professor Durante, dell'Università di Roma. Quando lo incontrai, molti anni dopo, e gli chiesi che cosa aveva visto sul corpo di Serantini, mi disse "In tutta la mia carriera, io non ho mai visto un cadavere così intriso di sangue, con ecchimosi così vaste e diffuse". Franco Serantini era stato picchiato nella questura di Pisa, poi trasportato in carcere senza cure e lì era stato lasciato morire.
Il 13 maggio 1972 a Pisa si parlava di questo, dolorosamente. Le manifestazioni erano due una del Pci, con un comizio di Giancarlo Pajetta, una di Lotta Continua e degli anarchici, con comizio di Adriano Sofri. Pajetta aveva allora 61 anni; Franco Serantini 18; Adriano Sofri, 29 anni. Quel giomo piovve insistentemente e fortemente per tutto il tempo delle manifestazioni, cosa che tutti ancora oggi ricordano, ma che stranamente Marino non ha mai ricordato.
Quattro giomi dopo, alle 9,15 di mattina, a Milano, uno sconosciuto uccise per strada il commissario di polizia Luigi Calabresi. La vittima era nota da tre anni al grande pubblico aveva condotto le indagini per la bomba di piazza Fontana indirizzandole contro gli anarchici, non si sa ancora oggi se per suo errore personale o per ordini dall'alto. Nel pomeriggio del 12 dicembre era andato a prelevare uno degli esponenti anarchici più noti a Milano, il ferroviere Giuseppe Pinelli, e l'aveva portato in questura. Lì l'avevano tenuto per settantasei ore senza dormire e con poco mangiare, accusandolo di aver messo la bomba alla banca. Il 16 dicembre, a mezzanotte, venne comunicato dal questore Guida e dal commissario Calabresi, che un certo Pinelli - fortemente indiziato - si era lanciato dalla finestra del quarto piano della questura di Milano, gridando "è la fine dell'anarchia". Non era vero. Negli stessi giorni la questura confezionava un colpevole per la bomba, l'anarchico Pietro Valpreda. Il movimento Lotta Continua, allora appena nato, fu il più attivo (anche temerario, data la codardia della stampa di allora) nel condurre una battaglia di informazione contro quella che definimmo allora "strage di Stato". Sembra proprio - anche dalle notizie di oggi - che avevamo ragione. Chi vuole trovare, per esempio, negli articoli di allora, il nome Delfo Zorzi, oggi sulle prime pagine, lo trova. Il giornale Lotta Continua pubblicò - spesso con linguaggio truce e inaccettabile, vignette e articoli contro il commissario Calabresi, sfidandolo alla denuncia per diffamazione, che alla fine gli fu imposta dai suoi superiori. Si andò al processo e l'avvocato Lehner, difensore del commissario Calabresi, ricusò il giudice Biotti sostenendo che aveva già comunicato ad altri la sua convinzione colpevolezza per Calabresi nella morte di Pinelli. La sentenza finale di quel processo venne solo tre anni dopo l'omicidio del commissario, nel 1975, a firma D'Ambrosio vi si legge che Pinelli morì per "malore attivo" (definizione che non compare nei testi di medicina) dopo tre giorni di maltrattamenti, che Luigi Calabresi era innocente e che contro il questore Allegra non si procedeva solo per sopraggiunta amnistia.
Il 6 novembre 1995, nella sua dichiarazione finale, Sofri aveva raccontato - per l'ennesima volta, ma questa volta con la voce rotta - tutte le colossali incongruenze del racconto di Marino e aveva chiesto alla Corte che cosa, umanamente, avrebbe dovuto fare di più per provare la sua innocenza. Aveva infine aggiunto "Non cercate una via di uscita concedendomi delle attenuanti; se mi volete condannare, fatelo apertamente. Ma quando scriverete le motivazioni, visto che non potrete dire di avere delle prove, per favore scrivete così di riffa o di raffa, Sofri è colpevole". I due giudici togati ascoltavano attenti, i giurati popolari prendevano appunti.
Io sono amico di Adriano Sofri da un quarto di secolo e quindi non chiedetemi se lo considero colpevole o innocente. E' innocente. Non è il mandante dell'omicidio Calabresi, non ha mai dato un mandato di uccidere a nessuno, lo so per certo. Se lo avesse fatto, allora, lo avrebbe detto. Il mio stupore per la sentenza di sabato scorso nasce anche da questo che, guardando le espressioni dei giurati, davvero mi sembrava che fossero anche loro convinti. Mi dicevo penseranno che è un arrogante perché prende di petto la Corte; penseranno che è esasperato dopo sette anni di processi, ma non possono non accorgersi che è sincero. Mi sono sbagliato nella fisiognomica, tutto qui.
Temo di sapere che cosa sarà scritto nella motivazione della sentenza. Ci sarà scritto che la seconda Corte d'Assise d'Appello di Milano è stata chiamata dalla Cassazione a riformulare la precedente sentenza perché illogica. La precedente sentenza aveva assolto tutti, l'accusatore Leonardo Marino compreso, ma aveva motivato quella decisione in maniera volutamente assurda per 125 pagine sostenendo che il pentito Marino era del tutto attendibile, nelle ultime cinque dicendo che però non si erano raggiunte prove della partecipazione di Marino all'omicidio Calabresi, visto che i testimoni oculari avevano raccontato tutt'altro svolgimento dei fatti. 125 pagine contro cinque, ha concluso la Corte di Cassazione, quindi l'illogicità sta nelle ultime cinque. Quella motivazione di sentenza, firmata dal giudice a latere Pincioni lasciò tutti di stuccco, non solo me. Il giudice Pincioni era stato in realtà messo in minoranza dal resto della Corte ma fu proprio lui a scrivere le motivazioni, stilando quella che in Sicilia è nota come "la sentenza suicida", quella che si scrive apposta perché non superi il vaglio di merito della Cassazione. Ora quindi il giudice De Ruggiero - conosciuto a Milano come intelligente, sensibile e garantista - incaricato della nuova motivazione, scriverà che, come ha autorevolmente dettato la Cassazione, Marino deve essere considerato credibile e quindi le prove devono essere considerate sufficienti. Tutto questo avverrà in nome del popolo italiano, che sul caso Calabresi è stato piuttosto ondivago. In Corte d'Assise e poi in Corte d'Appello ha volto il pollice in basso, condannando; poi le Sezioni unite della Cassazione hanno detto che un pentito come Marino vale, giuridicamente, meno di niente; nella successiva Corte d'Appello ha assolto (motivando - in nome del popolo italiano - come abbiamo visto); poi una nuova corte di Cassazione (inferiore per prestigio a quella delle Sezioni unite) ha detto che, no, il pentito è buono e una ulteriore Corte d'Appello ha appena detto che Sofri, Bompressi e Pietrostefani si devono fare 22 anni di galera. Da sette anni non c'è alcun atto nuovo in questo processo, accusatori e difensori ripetono gli stessi argomenti. Mi sembra di capire che esistono perlomeno due popoli italiani. E che vige il maggioritario, anche in giustizia. Una volta governi tu, una volta governo io. Peccato che quando assolvono Sofri, poi invalidino il risultato.
Leonardo Marino (ufficialmente prescritto e quindi ormai intoccabile) è riuscito in un'opera notevole ha fatto giurisprudenza. Lui, dichiarato inattendibile dalle Sezioni unite della Cassazione, è ora non solo attendibile, ma l'incarnazione della verità. D'ora in poi la sentenza di Milano potrà essere usata come precedente per avallare condanne sulla sola parola, sui ricordi dubbiosi, sulla personalità ambigua di una sola persona, peraltro ufficialmente non più perseguibile. Mi chiedo se negli annali della magistratura nell'Italia repubblicana esistano casi, nello stesso tempo così diabolici e loschi, come quello appena descritto. Se ci sono, non ci fanno certo onore. Oppure ditemi se, nell'attuale Italia giudiziaria - da Tangentopoli ai processi per mafia - esistono inchieste e processi in cui si viene condannati sulla base di un solo chiamante in correità, della fatta di Marino, per giunta.
Pur essendo un esperto, ho qualche domanda da fare un magistrato che stende una sentenza suicida, come viene considerato? Viene sanzionato o questo diventerà uno dei punti di merito della sua carriera? I giurati popolari che vedono stravolto il resoconto del dibattimento cui hanno partecipato, possono protestare? E se no, come possono fare sapere che cosa veramente è successo? Il Csm non dovrebbe esaminare tutto il caso? Non dovrebbe convocare i giurati popolari e ascoltarli? Ci sono forse, a proposito del processo Calabresi meccanismi di potere nel palazzo di giustizia di Milano che vincolano i collegi giudicanti all'impostazione originaria della Procura? Nel 1988, quando tutta questa storia cominciò, io sentii parlare dell' esistenza di una prova di accusa definitiva ma "non ostensibile". Ne ha sentito parlare qualcun altro? Se sì, perché non lo dice?
Adriano Sofri, nei sette anni di questo processo, è sempre stato sincero. Non gli è mai stata contestata una menzogna, mentre menzogne su di lui ne sono state dette tante. Ha ricostruito - spesso in solitudine e con sofferenza - clima dell'epoca, convinzioni personali poi mutate, andamento dei fatti. E' stato puntiglioso fino alla minuzia e non è mai stato smentito. Il suo accusatore, come tutti riconoscono, si è invece contraddetto e ha più volte ammesso di aver detto il falso. Qualcuno mi può quindi spiegare perché Sofri è stato condannato? Nella scorsa motivazione è stato scritto che non potevano esserci prove certe della presenza di Marino sul luogo dell'omicidio e che la sua versone era contraddetta dai testi oculari. Ora dovranno scrivere, senza nessun fatto nuovo emerso, che i testimoni oculari si sbagliarono. Coraggio, signor giudice relatore. Ma, ripeto, se qualcuno mi spiega bene che è giusto che sia così, me ne farò una ragione. Tempo due o tre giorni e tutta questa storia sparirà dai giomali. L'interesse per il caso è effimero, è passato molto tempo e nessuno si ricorda bene che cosa succedeva in Italia a quel tempo. A me piacerebbe, invece, che si ricordasse con precisione. Che si arrivasse alla verità sulla bomba, sul perché vennero pervicacemente perseguitati gli anarchici, sull'omicidio del commissario Luigi Calabresi una verità che non è quella di Leonardo Marino.
Ma sono piuttosto pessimista, perché, in questa Italia 1995, la verità su quegli anni è ormai autorizzato a dettarla proprio Leonardo Marino. Lui l'hanno prescritto, ma purtroppo lo stanno prescrivendo anche a me, come una medicina che dovrò prendere ogni giorno, come antidoto alla possibilità che i miei ricordi continuino a sbagliarsi.
Marco Pannella “Dietro lo sciopero della fame deve esserci speranza, non disperazione”
Fernando Proietti
dal Corriere della Sera, 31 ottobre 1997
ROMA – “Uno sciopero della fame non violento deve essere una scelta di speranza e non di disperazione”.
Marco Pannella parla con pacatezza e anche con sofferenza di Adriano Sofri, recluso insieme a Ovidio Bompressi e Giorgio Pietrostefani nel carcere di Pisa. Tutti e tre oggi sono in attesa di una grazia, forse impossibile, e di un indulto che sembra sempre più lontano nel tempo. E chi meglio di lui, il radicale che quasi per "una autentica pulsione intellettuale" volle adottare l'effigie del mahatma Ghandi per il suo partito (come scrive Massimo Teodori nel suo libro su Pannella "eretico liberale"), sembra autorizzato a dire la sua su forme di lotta politica, come lo sciopero della fame, inusuali nel nostro Paese. Una scelta nonviolenta impensabile per quella generazione che ha attraversato la stagione turbolenta e spesso anche violenta del Sessantotto. Quanto alla vicenda Sofri-Calabresi, Pannella sollecita un "bagno di verità" da parte di chi sa, e magari è stato pure testimone ("sono tantissimi", rileva Marco), sulle morti di Pinelli e Calabresi. E a giudizio di Pannella la via maestra per soddisfare questo “bisogno” di verita è solo una la revisione del processo.
Allora, Pannella, cosa ha da imparare Sofri dalla lunga serie di scioperi della fame e della sete, tra cui uno particolarmente drammatico nel '71, da lei messi in atto per rompere il muro del silenzio che circondava l'azione dei radicali?
"Adriano è forse l'unico politico e giornalista italiano che, almeno a partire dal '76, abbia riflettuto, scritto, e da par suo, sui nostri e sui miei scioperi della fame. Spesso ci è stato accanto, ci ha difeso. Per quel che riesco a comprendere, oggi la loro iniziativa nonviolenta è di straordinaria mitezza e forza".
Perché parla di iniziativa "mite"?
"Perché Sofri, apparentemente, non chiede nulla. O nulla di preciso. Chiede, semmai, che siano lo Stato e gli altri, in nome dei quali la sentenza è stata pronunciata, a trovare una soluzione precisa ai problemi posti da una vicenda violenta e condotta da istituzioni civili e giudiziarie altrettanto violente. Ecco, direi che Sofri si rivolge a tutti coloro che sanno, che conoscono, tutta o in parte, la verità storica di quegli anni. E chiede che questa verità storica diventi anche verità giudiziaria. Insomma tocca agli altri, anche allo Stato deviato, imporre la revisione del processo".
Ma cosa può suggerire Pannella a Sofri di fronte a una forma di protesta che alla fine potrebbe avere anche un esito tragico?
"Uno sciopero della fame deve essere una scelta di speranza e non di disperazione. Quindi si tratta di una scelta sicuramente intransigente e rigorosa ma, al tempo stesso, Sofri e i suoi amici debbono guardarsi bene dal pericolo di finire in quella che io definisco una sorta di accanimento psicologico, di voglia di solitudine a cui, e lo so bene, può portarti il digiuno. Per questo penso abbiano un grande valore gli atti di amicizia, di dialogo e di solidarietà nei confronti di chi effettua un digiuno nonviolento".
Ma Sofri e i suoi compagni come potranno evitare di entrare in quello che lei chiama una sorta di "accanimento psicologico" autodistruttivo?
"I consigli si danno, oppure no, soltanto se richiesti. Anche quelli tecnici di sopravvivenza. Io posso dire che amo Sofri e ho fiducia nella sua tenuta psicologica e in quella dei suoi compagni. Ad Adriano, inoltre, porto molta riconoscenza. Il consiglio a dire tutta la verità posso rivolgerlo, invece, agli altri. In primo luogo a quanti hanno operato nelle istituzioni della giustizia e della polizia. Penso, inoltre, alle decine di persone che sono state, necessariamente, testimoni dell'accanimento, se non dei reati, che poi sono risultati determinanti per trasformare il processo Sofri in una vera e propria esecuzione da parte di giustizieri violenti e, a volte, anche vili. Ma la verità va ricercata pure sulla morte per omicidio, preterintenzionale o premeditato, di Pino Pinelli. Abbiamo grande bisogno di verità contro l'Italia di ieri e di adesso".
Caro direttore, benché non avessi pronunciato una parola sulla sentenza che lo scorso 18 marzo rigettò la nostra richiesta di revisione del processo, la "Repubblica" del 21 marzo mi attribuì fra virgolette due aggettivi "arrogante e proterva". Ne fui infastidito più del normale. Potrei infatti quasi condividere la frase che ripetono tanti altri. I quali dicono "Le sentenze vanno rispettate". Io penso che gli aggettivi vadano rispettati. Meglio risparmiarli.
Dopo la sentenza, io ho ancora una volta un insieme di indizi per farmi un'idea dei suoi autori, cioè dei tre giudici di cui fino a quel giorno conoscevo poco più dei nomi. Dunque penso ora che quei tre giudici siano "arroganti e protervi"? Non lo penso, e del resto quel genere di definizione non avrebbe alcun interesse. Che cosa penso, piuttosto? Proverò a spiegarmelo, e prima riassumerò le minime notizie che avevo ricevuto prima del giudizio. Del presidente, Riccardi, che è un emiliano. Del consigliere Franciosi che è persona eccentrica, come mostrò nel suo momento di notorietà, quando escluse l'illecito nel comportamento del giudice Crivelli (quello che disse al pm Colombo la frase sull'impiego del "bastone e della carota", e poi decise comunque di astenersi dal presiedere il processo contro Berlusconi e la Finanza) Franciosi si divertì a deplorare il comportamento del collega, procurandosi un procedimento disciplinare da parte di Flick. Dimenticavo si dice anche di Franciosi che sia aderente alla massoneria, circostanza che, secondo una recentissima Cassazione, autorizza gli imputati a ricusare i giudici. A noi non era sembrato che ce ne fosse ragione.
Il terzo giudice, Budano, è un cattolico, preso a prestito per questa occasione dal Tribunale civile, cui appartiene, dopo aver fatto parte del Tribunale di sorveglianza, raccogliendo in quella funzione stima e apprezzamento. Questo è tutto.
Qualcosa di più, anzi, dettagli forse illuminanti, sono venuti poi dagli articoli di giornale successivi alla sentenza. Un po' come quando, finito lo spettacolo, gli attori appena struccati compaiono a prendere gli applausi e si mostrano nelle loro fisionomie ordinarie. Ma passiamo prima attraverso la sentenza.
Cominciamo dal passo che si è guadagnato le citazioni di tutti, incredule o costernate quello in cui si spiega la convinzione di un testimone oculare di aver visto una donna coi capelli lisci al volante dell'auto dell'attentato, con i folti baffi posseduti da Marino. "Neppure è assurdo ritenere che - in un flash-back - Pappini si sia fatto l'idea della particolare acconciatura del conducente dalla percezione visiva dei baffi di Marino". Che cosa penseremo della decisione dei giudici di scrivere una simile frase? Che fanno sul serio? Così sembrerebbe, dal momento che hanno voluto premettere quel "non è assurdo", che guasta la pienezza dell'assurdità; come chi, invece di dire "Un asino vola", ripiegasse su "Neppure è assurdo ritenere che un asino voli". D'altra parte è escluso che tre persone adulte e in buona salute sottoscrivano seriamente quella freddura. Dunque, per ora, dobbiamo concludere che si siano mescolate una vena di sciocchezza surreale con una di provocazione.
Ma vediamo come la sentenza risponde alla questione del giudice Lombardi e del capitano dei Ros Dell'Anna. Nel 1992 quest'ultimo aveva consegnato al pm di Trapani un rapporto in cui riferiva di aver conferito a Milano con Lombardi. Lombardi, già giudice istruttore nel nostro processo, gli avrebbe detto che Mauro Rostagno era stato ucciso per impedirgli di parlare contro i suoi compagni nell'indagine su Calabresi, che lui era certo della responsabilità nostra e che disponeva di una fonte confidenziale. Quando, nel 1996, quell'infame rapporto emerse dalle carte dell'istruttoria trapanese, Lombardi smentì con veemenza, affidandosi all'Ansa, tutto il resoconto dell'ufficiale dei carabinieri, accusandolo di averlo inventato di sana pianta. Io denunciai ambedue denuncia che non è avanzata di un millimetro, né a Trapani, né a Brescia - competente per il giudice. L'istanza di revisione sollevava l'enormità del caso. Se si fosse accertata vera la smentita di Lombardi, era provata la fabbricazione di un documento falso e calunnioso da parte di un alto ufficiale dell'Arma. Se si fosse accertato vero il racconto dell'ufficiale, era provato che il giudice istruttore Lombardi, negandolo pubblicamente, si era fatto guidare da un pregiudizio falso e gravissimo contro i suoi imputati, aveva accreditato fonti confidenziali "non ostensibili" e sottratte a ogni verifica processuale, e aveva infine mentito sconfessando il rapporto del capitano.
La gravità irrimediabile dell'episodio è evidente, almeno quanto quella del suo mancato seguito, da due anni a questa parte. Che cosa dicono i tre giudici della revisione? Che non c'è problema... "Sembra quasi che formulare ipotesi investigative costituisca un comportamento riprovevole (...). Se, nell'oscuro contesto dell'epoca (sic!) il dottor Lombardi ha ricollegato i delitti Rostagno e Calabresi, ha fatto uso nulla più che del suo potere/dovere (...). Perché, poi, il Lombardi abbia ritenuto di smentire il contenuto del colloquio col capitano Dell'Anna è fatto che riguarda lui solo e potrebbe essere stato determinato dalle più svariate ragioni di opportunità".
Così, dopo aver aspettato invano per due anni, vengo a sapere che i giudici della revisione smentiscono il giudice Lombardi che aveva smentito il capitano Dell' Anna, e che questi non sono fatti miei. Forse proterva (ma che importa), questa risposta mi sorprende a prima vista perché rinuncia a negare ciò che viene da noi denunciato, e, con una notevole disinvoltura, lo ammette, per aggiungere subito dopo e allora? Un giudice istruttore dà per sicure accuse gravissime e calunniose, evoca una fonte confidenziale, dice dettagliatamente il falso sul comportamento di Rostagno all'indomani del nostro arresto nel 1988 (e del suo coinvolgimento), e quattro anni dopo nega di aver mai detto niente al carabiniere e allora?
Vediamo subito che questo non è un caso singolo i tre giudici hanno seguito questo metodo, che chiamerò del "sì, e allora?", in altre e non lievi circostanze. Principale, quella che riguarda Antonia Bistolfi, compagna di Marino. Da dieci anni, io argomento le seguenti cose a) che la Bistolfi mente quando dice di aver appreso solo nel luglio 1988 che Marino si dichiarava coinvolto nell'omicidio Calabresi; b) che c'era un chiaro parallelismo fra le mosse di Marino e della Bistolfi che avevano preceduto e preparato la "confessione"; c) che i racconti della Bistolfi erano inficiati da una evidente esaltazione.
Per dieci anni i giudici favorevoli all'accusa hanno risposto a) che la Bistolfi diceva il vero quando si dichiarava ignara di ogni preteso coinvolgimento di Marino; b) che non c'era alcun "parallelismo" fra i due (nei colloqui rispettivi col senatore Bertone e con l'avvocato Zolezzi, nei rapporti coi carabinieri, ecc.); c) che la Bistolfi era del tutto affidabile e dunque che la Bistolfi era un'autentica fonte indipendente a riscontro di Marino, e non, come nelle mie "insinuazioni", compartecipe della costruzione della sua accusa.
Nell'istanza di revisione, abbiamo esibito un diario della Bistolfi risalente alla primavera del 1988, che consente di valutare con un'inedita abbondanza e certezza di documentazione tutti i punti citati. Risposta dei tre giudici della revisione a) "tutto è possibile, ma la Corte è propensa a credere che i due si fossero confidati e, addirittura, che la confessione sia maturata in ambito familiare"; b) "Vi è un indubbio parallelismo temporale tra il comportamento del Marino e quello della Bistolfi"; c) non si può diagnosticare l'equilibrio di una persona "sulla base dell'esame di scritti che riportano elucubrazioni poetiche (invero un po' esaltate)".
"Elucubrazioni poetiche" a parte (si tratta di un diario quotidiano di annotazioni astrologiche, erotiche, analitiche), su tutti i tre punti i giudici della revisione voltano tranquillamente una pagina lunga dieci anni e danno ragione a tutti i miei argomenti. "Un po'" di ragione. "E allora?". Farò solo un altro esempio, per ragioni di spazio, e perché delle questioni principali si occupa la nostra difesa. L'ultima sentenza di appello (1995, quella resa poi definitiva dalla Cassazione) aveva scritto che Marino non sarebbe venuto alla manifestazione di Pisa del 13 maggio 1972, quella per Serantini, se non per ricevere il mio mandato, dato che non risultavano altri militanti venuti da fuori regione; e questo era un riscontro a Marino. In verità questo era uno strafalcione dei giudici, che non si erano neanche accorti del fatto che, per venire a Pisa, Marino stesso aveva raccontato di aver preso un passaggio su un'auto di altri militanti di Torino. Così come figuravano nelle carte di polizia persone e gruppi venuti da altre zone d'Italia. I tre giudici della revisione dicono subito che la sentenza d'appello 1995 ha compiuto "una considerazione errata" ma per aggiungere che è irrilevante, dato che la sentenza di primo grado, cinque anni prima, aveva scritto esattamente il contrario "Quella manifestazinoe aveva un carattere nazionale...". Tanto, che Marino fosse venuto a Pisa, era dimostrato. Già ma il "riscontro" dichiarato dalla Corte d'appello pretendeva di riguardare le ragioni per cui Marino era venuto. In generale, c'è qui uno degli innumerevoli esempi in cui le sentenze, pur di condannare, hanno scritto tutto e il contrario di tutto (è successo platealmente per le ricostruzioni dei miei movimenti dopo il comizio pisano, in particolare).
Ora, quando i giudici della revisione spiegano, con un certo fastidio professionale, che la revisione non può riferirsi alla sentenza poi passata in giudicato, ma deve confrontarsi con ciò che è stato detto in tutte le sentenze, una conseguenza è chiara è stato detto tutto e il contrario di tutto. Socrate fu accusato, a torto, di far apparire forti le ragioni più deboli. Ora, questo può ancora essere ammesso per i discorsi delle parti dell'accusa, della difesa, mai dei giudici. Facciamo il caso ("nemmeno tanto assurdo") che dei testimoni oculari dell'omicidio Calabresi avessero visto al volante dell'auto degli attentatori un uomo coi capelli scuri e folti baffi neri, e che sedici anni dopo una donna bionda si fosse presentata a sostenere di essere la guidatrice di quell'auto - su mio ordine, naturalmente. I tre giudici della revisione avrebbero scritto "Neppure è assurdo ritenere che - in un flash-back - Pappini si sia fatto l'idea della particolare acconciatura della conducente, cioè dei capelli neri a cespuglio e dei folti baffi neri, dalla percezione visiva dei capelli biondi, lisci e svasati della rea confessa". Avrebbero potuto scriverlo? L'hanno scritto. Per completezza, ricordo che, nel tempo, una serie di donne sono state sospettate e indagate come l'autista dell'attentato, e una arrestata e a lungo incarcerata.
Dunque, che idea mi faccio di giudici che procedono in questo modo? Ancora non so rispondere. Essi mostrano di essere disposti a ricorrere agli argomenti opposti e perfino all'assurdità per giustificare una conclusione così perentoria come la dichiarazione di inammissibilità di una revisione processuale. È chiaro - per me è chiaro - che non si deve fare così. Ma che cosa li ispiri, è più difficile capire. Probabilmente, sono convinti che Marino dica la verità, e che noi siamo colpevoli. Però questo non giustifica il ricorso ad argomenti manipolatori o apertamente assurdi. Non lo giustifica in una sentenza dopo un processo, tanto meno in un esame preliminare di ammissibilità di una revisione processuale. Esistono per questo regole e criteri per i giudici, senza le quali la loro presunzione di colpevolezza, o di innocenza, per sincera che sia, può agire come il più irresistibile degli arbìtri e dei pregiudizi. Inoltre, è umano immaginare che i tre giudici sentano il peso di doversi pronunciare sull'operato di loro colleghi e superiori della porta accanto, e forse di loro amici. In particolare, nel nostro tortuoso caso, si sono impegnati nell'accusa contro di noi, in modo formale e compatto, sia la Procura che la Procura generale, alcuni giudici togati d'assise, e ben tre (cioè tutte) Corti d'assise d'appello per giunta con strascichi polemici e giudiziari durissimi, come a proposito della sentenza suicida, o del pregiudizio del presidente dell'ultima Corte d'appello, indagato a Brescia su mia denuncia. Che tutto questo contesto, questo "ambiente", non influenzi i tre giudici della revisione, è del tutto possibile, ma non del tutto probabile. Si può dire, che per accogliere la nostra istanza, i giudici avrebbero dovuto ricorrere a un di più di serenità e di indipendenza personale.
Ce l'avevano? Due giorni dopo il deposito della sentenza, "Il Giornale" - che aveva condotto una vera campagna contro l'eventualità della revisione - pubblica un articolo che nel sommario promette "il racconto dei magistrati che hanno bocciato la revisione". Il titolo è "Noi, assediati nel bunker della Corte d'appello". Il cronista, Stefano Zurlo, spiega che "rompere l'assedio era impossibile, ma almeno un tentativo per uscire dall'isolamento del bunker i giudici l'hanno fatto". Il 17 marzo, alla vigilia del deposito annunciato della sentenza, il presidente Giorgio Riccardi ha telefonato - è lui a raccontare - alla titolare dell'Associazione magistrati di Milano, Nunzia Ciaravolo. Le chiedeva di intervenire contro la trasmissione dello spettacolo di Fo, e di solidarizzare coi giudici della revisione, com'era avvenuto quando Gherardo Colombo si era trovato al centro delle critiche. "La Ciaravolo mi ha detto che non ritenevano opportuno un comunicato. E così siamo arrivati al gran finale". Sono stato molto colpito da questo articolo. Altro che sentenza "proterva, arrogante". I tre giudici di Milano si sentivano loro "assediati, circondati, isolati". Lo studio degli atti è stato per loro "un incubo". Stritolati dalle pressioni, e lasciati senza neanche un comunicato di solidarietà da parte della loro Associazione. Mi chiedo se si siano sentiti davvero così, e tendo a crederci.
La morsa che da dieci anni la mia lobby stringe attorno alla libertà dei miei giudici, e che mi ha portato fin qui, stava per sopraffare i giudici della revisione, che hanno avuto bisogno di un di più di coraggio e di indipendenza per respingere il nostro ricorso. Per saper vedere un baffo nero sotto i capelli di una donna bionda. Forse, in questa paradossale manifestazione di vittimismo, c'è la rivelazione di qualcosa che eccede il nostro povero caso, e riguarda più generalmente la situazione di buona parte della magistratura, milanese e non solo. Ancora in quell'articolo, si cita il giudice Franciosi (il terzo, Budano, non è menzionato) che "lascia la stanza, come uscisse da un rifugio antiaereo" "tenere in galera tre persone non fa piacere a nessuno". Su questo ho qualche dubbio in più sto leggendo il capitolo su Socrate di Gerusalemme e Atene di Leo Strauss, appena tradotto, e ho trovato questa frase "Perché ama condannare gli imputati".
Uno scritto su “Panorama” dell’ex leader di Lotta Continua.
E la replica del suo ex professore di filosofia al liceo.
da "A" rivista anarchica
febbraio 2004
Link
Le allucinazioni di Marino
Intervista a Luciano Della Mea
di Erasmo d'Angelis da Il Manifesto, 6 febbraio 1997
Luciano Della Mea oggi ha 73 anni e vive a Torre Alta, una frazioncina di Lucca; rappresenta una bella pagina della sinistra italiana guerra in Montenegro, Resistenza, poi l'inizio dell'attività giornalistica a Milano all'Avanti! e quindi la militanza che lo portò a fondare nel '67 con Adriano Sofri il Potere operaio pisano, la rivista di cui divenne direttore e intorno a cui nacque poi il gruppo del Potere operaio. "Sofri - racconta - l'ho conosciuto nel '64 quando era studente a Pisa e conobbi allora anche Bompressi e Pietrostefani. Mi considero il loro fratello maggiore. L'altro giorno, quando ci siamo rivisti con i vecchi amici davanti al carcere di Pisa per salutare Pietrostafani, ho scoperto che il più anziano del gruppo sono io".
Della Mea restò con Sofri fino al '69 quando Adriano ruppe e decise di fondare Lotta continua. "Anche se all'inizio non mi convinceva - ricorda - restai vicino a Lc fino al marzo 1972, quando Sofri e Lanfranco Bolis misero a punto le Tesi. A quel punto rompemmo, perché le consideravo caratterizzate da estremismo infantile. Loro adombravano un colpo di stato imminente, davano per spacciata la sinistra, io le discussi una per una e l'editore Bertani pubblicò le mie considerazioni nel libro "Proletari senza comunismo"".
Dunque c'eri anche tu a Pisa quel 13 maggio 1972, quattro giorni prima dell'assassinio di Calabresi, quando Lotta Continua organizzò il comizio per la morte dell'anarchico Serantini?
C'ero anch'io, e ricordo che fui contrario a quella manifestazione. Talmente contrario che presi l'iniziativa e telefonai a Cossutta, a Botteghe oscure, perché volevo spingere anche il Pci a ricordare Serantini. Così quello stesso giorno, accanto alla manifestazione di piazza San Silvestro con Sofri, c'era quella di piazza Carrara del Pci con Giancarlo Pajetta. Questo si è rivelato un particolare importante, perché i testimoni delle due manifestazioni, politicamente avversi, affermano che quel giorno pioveva a dirotto. Solo Leonardo Marino afferma che quel giorno non pioveva ed è stato creduto.
Del resto, basta scorrere le cronache dei giornali dell'epoca, dal "manifesto" a "Paese Sera", alla "Nazione", per leggere una serie di "pioggia battente", "pioggla insistente", "fuggi fuggi per la pioggia". Ma secondo Marino proprio al termine del comizio, in un bar della piazza, Sofri e Pietrostefani gli avrebbero impartito l'ordine di eseguire l'attentato...
Intanto, quel giorno Pietrostefani non era a Pisa. Mi pare poi che fosse un giorno di festa, e nei dintorni della piazza c'era solo un bar frequentato da sportivi, talmente pieno di gente e incasinato che difficilmente poteva essere quello il posto adatto per dare mandati. Mi domando perché molti testimoni non sono stati creduti, come Guelfo Guelfi, che stette sempre accanto a Sofri e dichiarò che Adriano non si allontanò mai da solo e ne tantomeno andò in un bar. Dopo il comizio Sofri andò con Guelfo a casa di Soriano Ceccanti e poi a casa sua...
Dove li raggiungesti anche tu...
Andai a casa di Sofri in via Pellizzi dove c'erano la moglie, Alessandra Peretti, con i figli Nicola e Luca. C'erano alcuni compagni che volevano salutare Sofri e c'era anche Marino, per cui non si capisce perché quel mandato Sofri doveva darlo al bar e non piuttosto a casa sua, dove avrebbero potuto appartarsi tranquillamente. La verità è che sono innocenti tutti e tre, io li conosco bene. Se Sofri avesse voluto la morte di Calabresi sarebbe andato lui di persona ad ammazzarlo, questa è la sua struttura morale. E' scandaloso giudicare attendibile una persona che presenta un racconto del tutto privo di riscontri. Ci sono testimoni che affermano che Bompressi era a Massa il giorno dell'omicidio Calabresi ma nessuno ha proceduto a riscontri. Mi ricordo che quando andai a testimoniare a Milano, al primo processo, il giudice mi ritenne inattendibile per partito preso e non c 'e stata nessuna accusa di falsa testimonianza.
Ti aspettavi questa sentenza?
No, mi illudevo che non reggesse, un'accusa del genere. Ma non credo sia una vendetta politica, è piuttosto la dimostrazione di una logica perversa interna alle istituzioni, alla magistratura, alla sfera politica una volta presa una determinata direzione non tornano indietro anche se è sbagliata. Ma oggi abbiamo l'assoluta necessità della continuità nell'azione di denuncia, perché il rischio e che pian piano le cose cadano nel silenzio. Il comportamento di queste tre persone, che accettano la galera pur essendo innocenti, e un esempio di dignità rara. Bisogna fare di tutto per tirarli fuori.
Quelle accuse contro Sofri
di Miriam Mafai, da Repubblica, 16 maggio 1991
Cosa significano i nomi di Pinelli, Annarumma, Calabresi, Valpreda per tutti coloro che hanno oggi trent'anni? Ecco un sondaggio che varrebbe la pena di promuovere e che probabilmente ci riserverebbe delle sorprese. La storia dei nostri ultimi venti o venticinque anni è stata cosi spietata e tumultuosa da tagliare in due la coscienza e la memoria di tutti noi e da lasciare una eredità assai controversa alla generazione successiva. Coloro che c'erano "allora" negli anni del mitico Sessantotto e poi negli anni successivi della violenza e del terrorismo non saranno mai, quale che fosse la posizione allora assunta, uguali alla generazione successiva. La maggioranza di coloro che hanno fatto il Sessantotto, i protagonisti delle vicende successive, quelli che non sono stati implicati in fatti eversivi e di sangue, vivono ormai una loro vita normale. Alcuni hanno già pagato un qualche loro conto con la giustizia, molti non hanno nemmeno voglia di ricordarli quegli anni. I superstiti di quell'epoca così carica di passioni e di infamie non esistono più come gruppo compatto di opinione.
Ed è bene che sia cosi. Ogni giudizio, ogni presa di posizione rispetto al processo Sofri che si va celebrando in appello da ieri a Milano, va sottratto a mio avviso alla passione politica. Non è ai superstiti di quell'epoca, amici o avversari di Lotta continua che va chiesto di leggere con attenzione la sentenza di primo grado e le motivazioni, che va chiesto di seguire il dibattito che da ieri si svolge al palazzo dl giustizia di Milano. Il processo Sofri-Bompressi-Pietrostefani-Marino va seguito e valutato come tutti gli altri processi dimenticando o mettendo in secondo piano la posizione politica degli imputati.
Personalmente credo di poterlo fare per almeno tre motivi. Perché per formazione culturale e politica mi sono sempre collocata su un versante lontano se non opposto a quello nel quale militavano gli accusati ti questo processo. Perché non ho nessuna propensione ideologica per le cosiddette teorie tel complotto. Perché infine non ho mai creduto e non credo ad una giustizia "borghese" o "proletaria" ma ad una giustizia senza aggettivi, solo preoccupata dell'accertamento della verità e amministrata in nome del popolo italiano. (E quinti disponibile anche al controllo del suo operato da parte della pubblica opinione).
Il commissario Luigi Calabresi, che Lotta continua aveva ripetutamente indicato come responsabile della morte dell'anarchico Pinelli, venne assassinato il 17 maggio del 1972, esattamente dunque diciannove anni fa, una mattina mentre usciva di casa. Per quasi due decenni la magistratura milanese indagò inutilmente su quell'omicidio. Di volta in volta sulla base di sospetti o vociferazioni, vennero fermati e interrogati giovani appartenenti a formazioni di estrema testra o di Lotta continua. Fino a quando nell'estate del 1988 un pentito, Leonardo Marino, non confessa di essere stato lui l'autista della macchina usata nell'attentato ed indica come esecutore materiale il Bompressi e come mandanti Pietrostefani e Sofri.
Esaminiamo dunque questo processo come un processo per omicidio e chiediamoci se la colpevolezza degli imputati è sufflcientemente dimostrata. Dopo la sentenza che li condannava a ventidue anni di reclusione (ridotti a undici per Marino) abbiamo voluto tenere sospeso il giudizio in attesa di leggerne le motivazioni. Poi queste motivazioni sono state pubblicate e non hanno fornito alcun elemento tale da modificare la nostra opinione che cioè, a parte la testimonianza di Marino non ci sono elementi di prova a carico degli imputati.
La stessa testimonianza di Marino è apparsa spesso lacunosa e contraddittoria, talvolta in modo grave e su elementi tutt'altro che secondari. All'inizio ad esempio Marino sostiene che a Pisa sono Sofri e Pietrostefani a dirgli che deve uccidere Calabresi. Ma Pietrostefani, si dimostrerà nel corso del processo, a Pisa quel giorno non c'era. Fa niente se non c'era Pietrostefani c'era però Sofri. E Marino va creduto in tutto e per tutto. Ma c'è di più. Sulla stessa meccanica dell'omicidio la ricostruzione di Marino è in palese contraddizione con tutte le testimonianze che vennero rese allora subito dopo quel 17 maggio del 1972 da alcuni cittadini che il caso aveva voluto presenti sul luogo del delitto. La lettura delle loro deposizioni oggi è impressionante ed è impressionante l'accanimento con il quale il presidente del tribunale si è adoperato per farli cadere in contraddizione o per farli ritrattare o per mettere in dubbio la loro memoria e la loro buona fede. Qui veramente c'è da restare turbati la loro versione dei fatti viene contestata, irrisa e alla fine rigettata solo perché non coincide con quella proposta da Marino. E dunque le loro testimonianze (rese, si badi, diciotto anni fa e oggi confermate) vengono praticamente espunte dal processo. Non parliamo poi delle testimonianze rese da quanti erano allora amici degli imputati, tutte liquidate come inattendibili o meglio sospette.
Marino e solo Marino è attendibile. Non ci sono prove. Non ci sono riscontri obiettivi a ciò che Marino dice. Il suo racconto è però verosimile, ci si risponde. Ma la verosimiglianza non è ancora la verità. "Marino non mente" ha detto il giudice Pomarici nella sua appassionata arringa. "Non mentiva certamente, quando singhiozzava davanti a me nessuno riusciva a fermarlo. Se commuoveva me e gli ufficiali dei carabinieri avrebbe certamente commosso anche voi". Ma le lacrime, il pianto, i singhiozzi di un pentito possono essere considerati una prova? Questo è il punto rilevante che interessa quanti, noi siamo tra quelli, credono in una giustizia amministrata con equità in nome del popolo italiano.
"Gli imputati dovevano essere assolti"
Paola Sacchi intervista Stefano Rodotà, da L'Unità, 12 novembre 1995
"La formula americana per cui la condanna arriva solo quando la colpevolezza dell'imputato è stata provata al di là di ogni ragionevole dubbio è la formula della civiltà giudiridica. Io credo che è quella implicita ormai anche nel nostro sistema. Ma, ora, di fronte a queste carte io non credo che nessuno possa dire che ogni ragionevole dubbio sia stato superato..." .
Stefano Rodotà commenta a caldo la sentenza che condanna a 22 anni Sofri, Bompressi e Pietrostefani. Una decisione che giudica "estremamente grave, sorprendente, ingiustificata".
Allora, la decisione della Corte d'Appello di Milano giunge dopo un lungo e frastomante carosello di condanne e assoluzioni. Che ne pensa professor Rodotà?
La mia reazione non può che essere di incredulità dopo una vicenda così lunga e dopo l'intensa discussione svoltasi sia all'interno dei diversi gradi di giurisdizione sia nell'opinione pubblica. Io credevo francamente che tutto ciò avesse chiarito i limiti dell'impianto accusatorio .
E, invece, pare che si ricominci da capo...
Sì, ora ci ritroviamo a partire da capo. Devo dire, certo, che in questi casi si usa sempre la clausola prudenziale in base alla quale si aspetta di leggere le motivazioni della sentenza. E però io sono tra quelli che hanno avuto occasione di vedere molte di queste carte, le sentenze precedenti, quindi mi sento non dico di sbilanciarmi, ma di esprimere il mio giudizio anche prima che queste motivazioni vengano. Ripeto, di fronte alla debolezza di quell'impianto accusatorio, mi sembrava del tutto naturale e corrispondente al direi elementare criterio di giustizia che si assolvessero gli imputati da un'accusa così grave e sostenuta da indizi così deboli, contraddittori. Un'accusa sostenuta da indagini che hanno manifestato non solo estrema approssimazione ma anche molti dubbi il rapporto di Marino con i carabinieri...
Un passato lontano sembra quindi tornare con tutti i suoi in quietanti dubbi, fantasmi ed aloni di mistero mai fugati.
Insisto, ci troviamo di fronte ad una fragilità di fondo dell'impianto accusatorio e anche a dubbi su come nasce questo impianto accusatorio. Una inconsistenza che viene fuori chiaramente leggendo tutti i pronunciamenti precedenti sia quelli di condanna sia quelli di assoluzione .
Ma qui siamo in presenza ad una condanna a 22 anni di reclusione, una decisione che i magistrati avranno ben ponderato...
Io lo giudico un fatto estremamente grave tenendo conto del particolarissimo caso che abbiamo di fronte, all'insistenza dei magistrati di voler ad ogni costo tirare da quelle premesse questa conclusione accusatoria. Ripeto, a me sembra che non ci fossero gli elementi...
Sono tempi in cui il tema della giustizia è al centro del dibattito. Nelle sue considerazioni si riferisce anche alla discussione generale di questi giorni?
No, assolutamente. Questa è una vicenda di straordinario rilievo e a mio giudizio anche di grande gravità, ma, per carità, non mettiamo tutto nel calderone, non diventi questo un altro elemento accusatorio della magistratura. E' un caso che va valutato per la vicenda particolare che esprime .
C'è una vicenda giudiziaria e c'è il lungo incubo umano dei suoi protagonisti diretti ed indiretti. A Sofri cosa si sente di dire in questo momento?
Mi sono occupato a lungo di questa vicenda, per collaborare con la giustizia ma anche per esprimere una testimonianza nei confronti di persone come Sofri tirate in questa storia da un impianto accusatorio che mi sembra inconsistente. La solidarietà personale mi pare che sia del tutto ovvia .
Frasi in grassetto per errore.
In corsivo solo l'introduzione
"Posto" qui, che non legge (quasi) nessuno, per non appesantire troppo il 3d di Sergio Giordano.
Sembra lungo ma si legge in 3 minuti (o 4)
Re Nudo - Marzo 2001
http://www.renudo.it
Gaber & Sofri
di Antonio Priolo
Parliamo di due persone la cui più alta aspirazione è avvicinare il più possibile le parole dette alla condotta della propria vita Giorgio Gaber e Adriano Sofri. L'atteggiamento tenuto da Adriano di fronte alla pazzesca vicenda giudiziaria che, ahilui!, lo riguarda ne è una dimostrazione. Il rifiuto di Giorgio di fare stritolare le sue idee dal sistema televisivo e dal mercato discografico ne è una testimonianza. Adriano Sofri ha sempre seguito Gaber e il suo lavoro. Giorgio Gaber aveva avuto all'epoca una certa simpatia per Lotta Continua e ha seguito con preoccupazione il calvario di Sofri. Ma non si erano mai incontrati. C'era stata un'occasione, in verità una delle presentazioni di "Re Nudo" a Sant'Arcangelo di Romagna, nel 1997, dove si presentò soltanto Adriano per un'indisposizione di Giorgio. Adriano ne rimase deluso, così, a distanza di qualche anno, Giorgio ha accettato l'invito di Re Nudo ad incontrare Adriano nel carcere di Pisa. Lo abbiamo accompagnato io e Majid Valcarenghi. Si è parlato molto e anche riso, e tentiamo qui di riportare in modo abbastanza fedele una cosa che non è un'intervista, per cui potrebbe talvolta essere di difficile lettura. Ma ne vale la pena .
Adriano Noi abbiamo in Occidente una popolazione vecchia, cui apparteniamo anche noi, ahimé, cioè è longeva, rincoglionita, visto il consumismo di cosi rapido riciclo, rincoglionita dal ritorno di superstizione, il più pacchiano, il più triviale e il più dilagante. Questa popolazione è spaventata dall'eventualità che tutto questo le sia minacciato, dal mondo giovane. A me sembra che la cosa sconfortante del mondo moderno sia esattamente questa specie di instupidimento di persone che la sanno molto più lunga, in teoria, per un verso, e per l'altro verso l'incattivimento preventivo, per cosi dire, di avarizia, di chiusura preventiva delle stesse persone. Dunque questo mi fa pensare che il mondo è brutto, e la discussione non so se ha senso se non a partire dal fatto che il mondo è spacciato…
Giorgio certo, su questo siamo d'accordo…
Adriano certo, e la differenza non è tra catastrofisti ed ottimisti, secondo me, ma fra chi, pensando che il mondo sia spacciato, continua a lavarsi la faccia, a tagliarsi le unghie, come si fa con i malati terminali quando ci si prende cura di loro, e chi invece molla e diventa barbone subito, accelera l'agonia. Noi stiamo parlando tra persone che sanno che il mondo è spacciato e si tagliano ancora le unghie. A me sembra molto triste il fatto che un territorio, per me, forse, a differenza che per te [rivolgendosi a Majid, ndr], come l'Europa, assolutamente privilegiato dal punto di vista culturale, civile e morale, sia attraversato da una cattiveria e da una paura che rischiano di travolgerla in Italia forse è ancora meno forte che in altri paesi, ma questa cosa avviene in Danimarca, visto il risultato del referendum, in Norvegia, che io conosco, conoscevo bene e amo molto, io ho una compagna norvegese; in Norvegia c'è l'affermazione di un partito apertamente fascista, come si può dire fascista di un paese scandinavo, il Partito Contadino, che ha preso il 30-35%. Cose di questo genere attraversano tutta l'Europa e tolgono l'unica specie di rassicurazione che fino ad oggi abbiamo avuto rispetto a questi anni lunghi d'incubazione di questo incattivimento, che era l'idea che l'unità europea, l'ingresso in Europa, avrebbero fatto argine agli estremismi e agli integralismi più fanatici. Ora il problema è che rischia di cedere, l'Europa, di fronte a tutto questo una volta che cede la Germania, per intenderci, siamo fritti, come sempre per altro. Ma ci sono molti segni, molti scricchiolii di questo genere. L'Europa centro-orientale che adesso deve entrare nell'Unione, ad esempio avrete visto le elezioni in Romania, che sono state poco commentate ma avrebbero meritato un'attenzione molto maggiore dal punto di vista esemplare. Nelle elezioni in Romania, che, come sapete, è un paese dove la miseria è veramente brutale ed abbrutente per le persone – come rivela il carattere dell'immigrazione che riceviamo dalla Romania, persone anche con un livello d'istruzione alto perché li funzionava l'istruzione pubblica, – i concorrenti elettorali erano un partito apertamente nazista, che dichiarava di voler fare i ghetti chiusi con i muri per gli zingari, gli ebrei, gli ungheresi della Voivodina, di concentrarli tutti in un ghetto, ma non metaforico, che era il principale concorrente della coalizione al potere, e poi c'era un partito capeggiato da un ex alto burocrate della nomenklatura di Ceausescu. Per fortuna hanno vinto gli ex comunisti dell'apparato, capisci? L'alternativa era tra la vittoria di un raggruppamento nazista e uno di ex stalinisti. E' stato visto come uno scampato pericolo, capite? Questi sono paesi che stanno giustamente per entrare nell'Unione Europea. Dunque questa cosa che abbiamo scoperto da tanto tempo, che non c'è progresso, che ci sono continui andate e ritorni, a me mi viene da pensare che, forse senza accorgercene, da un po' di anni siamo entrati in una di queste fasi di regressione che segnarono l'avvento dei fascismi, dei totalitarismi, l'altra volta. Non significa, questo, il ritorno di quei fascismi e di quei totalitarismi che non hanno nessuna possibilità.
Giorgio Forse sono stati i periodi più alti quelli delle socialdemocrazie, da un punto di vista della qualità dei rapporti, rivisti adesso da lontano.
Adriano Credo di si, e non soltanto gli anni della socialdemocrazia, ma anche della Democrazia Cristiana, perché in Germania e in Italia è questo.
Giorgio Io mi riferivo alle socialdemocrazie nordiche.
Adriano Sì, ma c'era anche una coincidenza collaterale quel periodo dalla ricostruzione alla prima costruzione europea, che noi vedevamo come loscamente mediocre, perciò lo odiavamo tanto, perché era mediocre, quando ci sembrava che le cose mediocri fossero le peggiori, e invece ce ne sono di molto peggiori che di mediocri. Comunque succedono cose nuove e così travolgenti che uno sa di non poterle maneggiare neanche mentalmente, come tutte le questioni scientifiche, genetiche, il genoma. Cose fantastiche, e al tempo quelle vecchie e peggiori non spariscono affatto ma si ringalluzziscono.
Majid Secondo me c'è un'appiattimento mortale; dicevo prima a Giorgio che come nei grandi media ci sono solo alcuni giullari, come Grillo o a "Striscia la notizia", che attraverso la battuta riescono a dire qualcosa, sulla stampa ci sono i vecchi saggi come Montanelli, Ceronetti, Bobbio, le sole persone che dicono qualcosa rompendo gli equilibri, i patti non scritti e conformi, tu li avrai seguiti…
Adriano Io seguo tutto perché sono in galera, ti posso dire tutto sull'ultimo fidanzato di Anna Falchi come sulla politica internazionale…
Giorgio A proposito, Montanelli come s'è espresso sul tuo caso?
Adriano Ciclicamente, cioè dicendo cose di volta in volta a favore o contro, impermalosendosi quando gli sembrava che io dicessi cose sgradevoli; sostanzialmente alla fine diceva che bisognava darmi la grazia, chiudere tutto questo, ma insomma con un andamento molto alterno. E' molto scandalizzato dalla mia arroganza, superbia, alterigia.
Giorgio Anche io sono molto incazzato per il fatto che tu abbia accettato bene o male questa giustizia italiana di merda. Avrei fatto il tifo che tu te ne fossi andato. Umanamente questo te lo devo dire.
Adriano Ma io non l'ho accettata questa giustizia …
Giorgio Mi hanno detto che su queste cose non transigi.
Adriano Ma no, transigo tra me e me ma fuori fingo di non transigere sennò non riuscirei più, avrei dei problemi all'anca insuperabili; pagherebbe il corpo.
Giorgio Io ho sentito questo tuo discorso molto interessante, ma in questo periodo m'è venuto in mente una cosa di Pasolini che tu certamente ricorderai, quando dice che non ci può essere progresso senza sviluppo, ma che ci può essere sviluppo senza progresso. E mi pare che siamo esattamente in questa condizione, cioè tutto si sviluppa ma l'uomo peggiora è la sensazione che io ho anche da un "Grande Fratello" europeo che non è più un fatto d'imbecillità generale, il sistema sta diventando imbecille. Questo mi porta a dire, e questa è la domanda che mi pongo anch'io per il mestiere che faccio, se c'è un abbandono totale del senso delle cose, e questo lo possiamo riferire anche a quella scienza che tu hai nominato, che va nel senso di cambiarti un braccio ma di non toglierti un raffreddore. È come se il senso volesse dire che c'è qualcosa che migliora la persona; ecco, non c'è più nulla che migliora la persona. Avrai seguito naturalmente alcuni avvenimenti, non so, due milioni e mezzo di giovani dal papa; io non sono credente, però sento che anche quel fenomeno è di consumo, non è di fede come fatto intimo o come fatto di crescita, che posso accettare, che non mi riguarda ma che posso accettare. L'ascolto di Padre Pio, l'ascolto del "Grande Fratello", per me sono fenomeni simili, e mi fanno capire che c'è una produzione consumistica che ormai ha perso completamente di vista qualsiasi senso dell'arricchimento dell'individuo; ecco questo mi rende sgomento di fronte a tutto e mi fa paura e mi fa vivere peggio perché la gente non mi piace, proprio la gente, faccio fatica! Adesso quando sono entrato in questo carcere e questi qui alla porta sono stati gentili, mi sono sorpreso, c'è ancora qualcuno che è gentile; la qualità delle persone mi sembra che stia scadendo sempre di più, nell'ottica del discorso di Pasolini, per cui c'è uno sviluppo ormai paradossale ed un progresso totalmente nullo. Questo è un altro punto di vista che non si discosta molto da quello che dicevi tu prima, ma a me che mi occupo più delle facce della gente che della politica, perché non ne avrei la competenza, mi fa star male, mi fa sentire inutile. Mi sembra quasi che questa mancanza di senso non sia neanche colpa di questo o di quell'altro, ma mi sembra che sia proprio incapacità di affrontare un mercato che si sta sviluppando da solo ormai e che va in una direzione e nessuno sa dare risposte; neanche quelli che vorrebbero opporsi ma neanche quelli che vorrebbero aiutarlo, perché anche loro sono vittime di un meccanismo che sta andando da solo, un meccanismo invincibile. Questa è la mia sensazione. In tutte le vicende a cui assistiamo, compresa la tua, s'intravvede dietro qualcosa di sporco, di oscuro, capisci poco; alla fine magari dico "Sofri è innocente e Marino è un testa di cazzo, basta guardarlo in faccia", e mi fermo lì perché se vado avanti e mi perdo in tutte le cose faccio ancora più fatica a capire. Ti devi fermare ad una impressione iniziale. Non sono andato a vedere lo spettacolo di Fo, mi ha dato fastidio, non mi piace, cerchiamo di emozionarci diversamente, poi non so se ti abbia fatto male o ti abbia fatto bene…
Adriano Non lo so nemmeno io però gli sono molto grato perché lui è anche una persona molto affettuosa e generosa, e questa cosa prevale in me su qualsiasi valutazione delle convenienze, criterio che ho ormai abbandonato da molto tempo in qualunque campo compresa la mia miserabile storia di cui adesso non vale la pena di parlare. Io sono sempre esitante rispetto a questi sentimenti che provo fortissimi sulla questione del progresso, che è ormai ben risolta, è chiaro che non c'è nessun progresso, è risolta da Leopardi, non c'era nemmeno bisogno di arrivare ai nostri giorni.
Giorgio E no, perché la razza a cui io mi sono affezionato, perché sono un po' più grande di voi… mi sono affezionato che voi eravate già una generazione successiva, e io sentivo questa voglia di senso, e non stiamo parlando di secoli fa…
Adriano Certo, è una cosa che si è consumata nel giro delle nostre vite.
Giorgio Devo dirti che, avendo ancora i teatri tutti esauriti quando ho la gamba a posto, forse un bisogno di senso c'è.
Adriano Sì, ma anche i due milioni di ragazzi che vanno dal papa hanno, insieme alle cose che dicevi tu, un fortissimo bisogno di senso e di trovarlo in comune, cosa che ogni generazione cerca con strumenti diversi; e anche i loro comportamenti erano contemporaneamente gregari e al tempo stesso indipendenti .
Giorgio Ecco, è su questa autonomia che io ho delle riserve. Ricordo una frase di Canetti che diceva che il palco del teatro distrugge la massa, cioè nel teatro ognuno è seduto ed è in qualche modo individuo di fronte a quello che sta succedendo, è per questo che ho scelto il teatro. La manifestazione di piazza crea la massa e annulla gli individui. Io ho sempre avuto paura di queste cose. Tuttora quando vedo, e le vedrai anche tu in televisione, queste adunate rispetto a certi gruppi musicali, o, che so, a Pavarotti, e vengono ripresi, e ti salutano, ho un restringimento di cuore, ho la sensazione che questi non siano individui ma siano inseriti in un processo di massa. Ecco perché il processo di massa anche della fede non mi suona come una prova di senso, ma mi suona come adesione acritica. Lo so che in qualche modo le masse una volta contavano…
Adriano In quella nostra mitizzazione delle masse, compresa la parola sulla quale ho poi recuperato una bella citazione di Leopardi che ho usato recentemente "Le masse, questa leggiadra paroletta moderna" diceva sarcasticamente Leopardi, quindi come vedi già allora, in noi (fatte salve tutte le cazzate che non vale la pena di deplorare più, anche quello è consumato) c'era una fortissima ispirazione individualista dentro quel culto della partecipazione comune, collettiva; quando noi abbiamo fatto fallimento e dichiarato fallimento, ci siamo sciolti, è perché questa specie di fusione, lungi dall'accrescere, dall'arricchire la personalità individuale e la libertà individuale, le stava alienando e impoverendo, questa è stata la vera ragione per cui siamo andati a casa, no?
Giorgio Settantasette?
Adriano Settantasei, ma io Lotta Continua l'avrei già voluta sciogliere nel Settantacinque.
Giorgio Io seguivo da lontano, c'era anche la questione femminile?
Adriano La questione femminile è stata cruciale per farci capire quelle cose lì perché le donne che si muovevano come un sol uomo con plotoni organizzati… Era però il principale modo di buttarci addosso questa specie di fallimento, questa specie di fondo toccato da una cosa che all'inizio era la più promettente e la più bella per noi giovani, compresi quelli che vanno dal papa, per questo io continuo ad avere una specie di paternalistica simpatia. Questa sorta di generosissimo mimetismo sociale che contraddistingueva la nostra militanza politica la scelta di fare politica non aveva nulla a che fare con la professione politica, l'idea che ciascuno potesse diventare ciascun altro, confondersi con gli altri e attraverso questo diventare più ricco personalmente; questo cosiddetto Sessantotto, che è successo in tutti altri anni, aveva una cosa molto bella, nella quale io ero un vero campione, una specie di caso clinico, un po' diversamente da me ma in modo forse ancora più magistrale, nel senso del talento circense, lo era Mauro Rostagno che era un suo intimo amico [rivolgendosi a Majid, ndr].
Giorgio Anch'io lo conoscevo.
Adriano … e cioè persone giovani, di quelle quindi che non hanno bisogno di stabilire una distanza fisica fra sé e gli altri, anzi si danno gomitate, si abbracciano, si stanno addosso perché sanno di non assomigliare agli altri, mentre noi vecchi temiamo… Io se non avessi una cella privata, ho un buggigattolo, la cella più brutta del carcere dove però sono solo, sarei un uomo finito, mi taglierei come i ragazzi arabi. Allora in quella nostra scelta questo mimetismo sociale, questo somigliare all'altro come una identificazione che ci metteva cinque minuti a compiersi, parlare con l'altro, diventare l'altro, era un'esperienza straordinaria rispetto alla rigidità dei ruoli che questa società attribuiva, non so "tu sei nato li e farai solo questo, l'universitario, il sottotenente di marina, la sposa fedele e madre", in questo mimetismo sociale di cui Lotta Continua era veramente la più alta espressione, che insegnava anche ai suoi adepti con l'esempio, al di là della linea politica e dei contenuti, c'era una fortissima ricchezza individuale, cioè s'imparavano le lingue, s'imparavano le facce, capite? Poi questa cosa decade e si tramuta esattamente nel contrario. Cioè alla fine non sai più chi sei, somigli a tutti e quindi più a nessuno, ti comporti in modo conformista, gregario; dunque quando arrivano le donne e ti sbattono in faccia questa realtà gergale, militante, manesca, tutte cose che caratterizzavano questa degenerazione quasi fisiologica di questa parabola, e soprattutto ti dicono che tu non puoi diventare donna, puoi diventare operaio, immigrato, tedesco, sardo, ma non puoi diventare donna, anche se qualcuno ci ha provato. E dunque perché non torni a chiederti chi sei? Questa è stata la cosa molto bella del femminismo, che io considero di tutte le esperienze della mia vita la più preziosa, quella a cui devo di più, umanamente, anche teoricamente, culturalmente.
Giorgio lo nel '76 facevo uno spettacolo che si chiamava "Libertà obbligatoria" che riecheggiava questi temi di cui stai parlando. A quel punto ebbi il coraggio, o per lo meno la spudoratezza, di usare la parola "noi", cosa che prima non ero riuscito a fare fisicamente. Ecco, nel Settantasei uso la parola "noi", nel Settantotto non ce la faccio più ad usarla, e parlo in prima persona. Quello è stato proprio un momento cruciale, io ho odiato il Settantasette…
Adriano Anch'io, il Settantasette è uno dei miei vanti; cioè io dissi nel Settantasette, e confermo, che era una di quelle circostanze in cui mi sarebbe piaciuto poter dire ai miei nipoti "io non c'ero". Questi sabato pomeriggio di Roma su Cossiga, i ragazzini con le pistole in tasca, erano giorni molto brutti, veramente.
Giorgio Io facevo il cantante ed ero già affermato…
Adriano E lo so bene, io le so le tue canzoni.
Giorgio Ombretta studiava russo e cinese alla Statale, russo e cinese guardacaso, alla Statale, ed io andavo a prenderla, però andavo a prenderla con la macchina che avevo, che era una macchina da cantante, che era una Jaguar 4200, e la sensazione che ebbi allora fu una sensazione di mio disagio; non gliene fregava niente a nessuno che io avessi la Jaguar perché ritenevano che i valori fossero degli altri, e questo mi mise un po' nella merda. Questo succedeva nel '69 all'Università. Quando poi invece ho visto scritto sui muri "liquori gratis" ho capito che volevano anche loro la fettina di merda e questo non mi è piaciuto più, perché culturalmente non erano diversi dagli altri.
Adriano io mi ricordo il lusso, i ragazzi del Settantasette inventarono il concetto di "abbiamo diritto al lusso", che era una bella idea se a dirla era un barbone, ma che in bocca a loro diventava una scempiaggine.
Giorgio "Il Grande Fratello" ha fatto 16 milioni di ascoltatori e questo lo hai visto tu non credi che i colpevoli, che sono Gori, gli inventori, gli autori, coinvolgano la gente a tirar fuori il loro peggio ma che un bisogno di senso la gente ce l'abbia ancora?
Adriano Ma guarda che io non ne dubito affatto, anzi sono convinto che quella che chiamiamo la "gente" sia come noi; questo che tu dici bisogno di senso, piacere nel trovare un senso alla propria vita e al rapporto con gli altri, sia la cosa che anima le persone, comprese le stronzate. Guarda, io che sono un moderato disfatto…
Giorgio Un moderato disfatto?
Adriano Sì, in via di disfacimento; che ci fossero delle cose che facessero simpatia anche nel "Grande Fratello", dei meccanismi che nonostante la formula, che era veramente tesa a far dare alle persone il peggio di sé, e questo lo si vede praticamente quando le persone escono e nelle orrende trasmissioni televisive cui partecipano sono già migliori di se stessi dentro la casa, Quello è il meccanismo della cosa, un esperimento sadico che altrove solo gli psicologi hanno fatto chiudendo le persone in laboratorio, e che ora diventa la cosa cui aspirano tutti i ragazzi. Per esempio in galera, che è un posto così abominevole che qualunque attenuazione del rifiuto di questo posto, del disprezzo assoluto, dell'odio assoluto per questo posto, qualunque uso metaforico della galera vanno combattuti. Io sono qui dentro da quattro anni, con una pausa di qualche mese durante il quale ho vissuto il processo che è ancora peggio che stare qui, perché aspettavo sempre una tappa invece adesso ho chiuso nei rapporti interni ad un posto come questo, tutti da quelli con i carcerieri, a quelli naturalmente con i carcerati, con questa popolazione che è una specie di deposito di feccia finale del bicchiere, i malati gravi, i ragazzi italiani tossicomani, i cosiddetti extracomunitari, giovani, poveri, senza nessuno, senza avvocati, c'è una specie di dimostrazione in negativo di che cosa potrebbe essere la vita delle persone in situazioni in cui la vita sembra pregiudicata, senza scampo. In tutti gli ultimi anni della mia vita ho fatto, un po' per scelta e un po' per costrizione, comunella con persone che si trovavano in questa situazione ho passato tre anni a Sarajevo, un lungo periodo in Cecenia, poi sono stato in posti meno tragici ma simili. Dunque con persone la cui vita era destituita di ogni dignità proprio dalle radici minime, materiali, alimentari, sanitarie, igieniche, la cui incolumità personale era messa a repentaglio momento dietro momento; anche qui dentro. E contemporaneamente persone nei cui comportamenti, nei cui pensieri e nella cui condizione c'è l'eventualità che la vita sia altra, che una specie di chiarezza maggiore su come potrebbe essere la vita emerge fortissima, che è la ragione per cui uno ci va volentieri, tranne la galera ovviamente. Il mio era un privilegio, io andavo in questi posti con un biglietto di ritorno in tasca, mentre qui c'è solo l'entrata.
Giorgio Per questa gente è normale che ci sia la ricerca di un senso, però anche quelli che hanno goduto al "Grande Fratello" hanno bisogno di dare un senso alle cose, e sentono che il "Grande Fratello" non ha senso.
Adriano Non so se lo sentono. Il mondo in cui noi siamo accontenta le persone persino imponendo dei desideri di cui poi si accontentano, desideri deviati, fessi, ottusi; però appena arriva una minaccia seria allora torna una specie di superstizione. Io a volte considero superstiziosi anche loro, questi nostri amici questa specie di combinazione squadernata delle ultime pagine della rivista "Re Nudo", questo mercatino di tutte le cose collegate tra loro per rappresentare una vita alternativa, delle abitudini alternative, una cultura alternativa; anche questa a volte mi sembra "superstiziosa". Certo la più benevola nei confronti del proprio prossimo, quindi la meno incriminabile. Gli animali umani sono sempre, come diceva il tragico greco, meravigliosi e orribili. La vera differenza sta nel fatto che noi ad un certo punto abbiamo pensato che si potesse scegliere un corno del dilemma e darsi da fare perché le cose fossero meravigliose, rifiutandone l'orribilità. Dopodiché, forse per ragioni di pura fisiologia, come sostiene qualcuno, forse per ragioni molto più ragionevoli, come io penso, purtroppo abbiamo dovuto accorgerci che bisogna scegliere aggettivi meno estremi, misure più premurose, più affabili, persino che limitassero il danno piuttosto che cercarne il massimo. Il punto mi pare è che quando si rinuncia alla rivoluzione, come io ho fatto avendovi molto investito e contando veramente di farla, avrei dato la vita, come si dice (e in un certo senso l'ho data ma con una scadenza sbagliata!)…
Giorgio Ma tu hai pensato veramente che si facesse la rivoluzione?
Adriano E' difficile dire; c'è una cosa che scrivevo l'altro giorno a Guido Viale. A quell'epoca noi non avremmo potuto discutere una domanda come quella che stai ponendo adesso tu, era una specie di tabù perché non l'avremmo discussa tra noi e noi, cioè avremmo represso dentro di noi il dubbio che non si dovesse fare la rivoluzione. Questa era la premessa, dopo di cui veniva il decalogo dei comandamenti. Ciascuno, ancora di più noi che eravamo i cosiddetti leader, io poi ero uno di una sicurezza straordinaria, ero l'incarnazione fisica e simbolica della rassicurazione data ad altri ma naturalmente dentro di me sentivo fortissimo questo peso ottundente della responsabilità e naturalmente del dubbio, cercava di essere all'altezza del ruolo, ma anche che la cosa fosse all'altezza di se stessa. Dicevo che Guido Viale mi ha mandato una cosa da leggere, lui è sempre molto intelligente, uno dei più bravi e poi gli voglio molto bene, una sorta di memoria di tutta la sua vita, bella mi è tornato in mente che una delle rarissime volte, ma anche con Mauro Rostagno una volta successe (erano poche le persone con cui poteva succedere allora), che una notte alla fine di chissà quale impegno di questi che ci tenevano a fare gli straordinari (la nostra vita era un'unico straordinario), eravamo rimasti, non so perché se per qualche macchina che ci aveva dimenticati o benzina che non c'era, seduti sul bordo di un marciapiede sfiniti, io e lui. Un po' prima dell'alba, in una città vuota, mi ricordo che, non so per iniziativa di chi, credo mia, quella volta esplicitamente noi ci siamo detti ma può succedere veramente questa cosa? Dopo non siamo andati molto avanti, però la cosa era stata detta, il seme della dissoluzione era stato non gettato ma era caduto li.
Giorgio lo ho sempre avuto un'idea diversa, io non ho mai pensato alla rivoluzione, ho sempre pensato ad una rivoluzione culturale, questo mi aveva affascinato di voi, essendo un po' più grande, io mi ero accostato e voi eravate già partiti. La cosa che più mi aveva affascinato era l'atteggiamento mentale diverso rispetto al resto e quindi pensavo che questo avrebbe cambiato le cose.
Majid Però scusa, questo c'è stato adesso è finito, però ha influenzato e modificato una generazione.
Adriano Sì, però modificato non vuol dire la rivoluzione; la rivoluzione a cui noi pensavamo era accontentarci, postumamente, dei cambiamenti che ci sono stati e che spesso sono avvenuti nonostante noi. Per esempio i cambiamenti nella vita sessuale, nelle libertà noi eravamo contemporaneamente molto più liberi della società in cui ci muovevamo, ma molto più pieni di pregiudizi di qualunque persona venuta da altre esperienze o arrivata dopo. Io sono contrario ad abbellire le cose, per esempio per quel che riguarda me, che ero pieno di pregiudizi, ma la cosa principale è che noi veramente pensavamo alla rivoluzione come ad una radicale conversione quando noi diciamo l'"Uomo Nuovo", come diceva peraltro mezzo socialismo internazionale usando un linguaggio tipicamente cristiano di rinascita, di rinnovamento, di conversione, cioè un mutamento radicale di sé, era una cosa in cui credevamo fortissimamente. Noi pensavamo davvero che il mondo, e noi stessi con lui, potessero essere rifatti da capo a fondo; e questa è una cosa tipica delle esperienze rivoluzionarie e di rinnovamento radicale che ciclicamente si sono presentate. Quando tu scopri che questa cosa non solo non succede ma rischia di provocare dei guai disastrosi, cioè che un'utopia così forte rischia di tramutarsi in una cosa violenta, totalitaria, in una sopraffazione, in una perdita di sé, il rischio è che tu tramuti in buon senso questa specie di ragionevolezza anti chirurgica che ti prende ad un certo punto, omeopatica, cauta, circospetta, perché sei un convalescente. Il rischio è che questa convalescenza, assolutamente salutare, necessaria, si tramuti a sua volta in un eccesso, in troppa grazia; e cioè che ci faccia accettare l'assurdità del mondo così com'è. Il mondo così com'è è assolutamente intollerabile, se tu ci pensi per due ore di seguito diventi matto, devi interrompere ogni cinque minuti, la fame nel mondo, i bambini, l'Africa, l'aids, le guerre puoi prenderne solo un pezzetto e amministrarlo nella tua vita normale in questa parte del mondo perché altrimenti puoi solo darti fuoco oppure correre nudo con la dinamite intorno alla pancia contro un sottosegretario. Io temo che in questa convalescenza molti abbiano lasciato le penne, in un certo senso anch'io forse in una certa misura.
Giorgio Siamo guariti insomma…
Adriano Siamo guariti a tal punto da diventare
rassegnati apologeti; io voglio bene anche a quelli di bocca buona e i più facili, quelli più amaramente rassegnati a questo, persone così spaventate della chirurgia da non accettare di operarsi nemmeno quando non riescono più a muoversi. Quando tu descrivi il mondo, come hai cominciato a fare quasi per scherzo adesso qui, e lo descrivi facendo due passi di lato e vedendo a quale punto di assurdità, di iniquità, di violenza, di sofferenza è arrivata la macchina che nessuno più guida (perché tu puoi dire le multinazionali, puoi dire Clinton, puoi dire Bush, ma non la guida nessuno), una macchina la cui inerzia è superiore a qualunque capacità non solo di controllo ma anche di comprensione, e contemporaneamente sai che se affronti questo problema, se dichiari in tutta la sua portata la malvagità e la perversione del mondo così come va, ti privi della possibilità di mettere un po' di riparo alle cose che hai di fronte. Cioè sei rimesso di fronte all'eventualità della rivoluzione avendo scoperto che non funziona, che non ce la fa, perché questa forza d'inerzia della macchina che fa si che altri allegramente trascinati verso l'abisso proprio ma soprattutto altrui, è una forza d'inerzia superiore alla tua stessa capacità di guidarla da un'altra parte. Dunque una generazione come la nostra, la generazione dei viventi di oggi in questa misura spropositata, superiore, dicono, all'esistenza di tutte le generazioni precedenti (quando si fa il giudizio universale i vivi sono più di tutti i morti che sono venuti prima) non può porsi nei confronti del destino della terra, di sé stessa, degli altri animali se non il fine della riparazione. Cioè non può immaginarsi né soluzioni dei problemi, né ricreazioni, né rivoluzioni, mentre questo mondo, questa macchina, nel suo percorso centrale ha trovato la propria parola d'ordine invincibile e trionfale nella "rottamazione". La rottamazione è esattamente il contrario, tu pigli e butti via, aumenti la discarica che si sta ingrandendo e mangiando quella parte che non è di discarica, a scapito della riparazione. Io sono uno, alla mia età, che ha memoria e immediatamente nostalgia per il calzolaio che risuola le scarpe, della vecchia automobile (io non ho mai avuto la patente) scassata e riparata con i pezzi di ricambio trovati dallo sfasciacarrozze. Leggevo oggi sul "Sole 24 ore" (non perdo niente qua dentro, non ho più la cultura ma ho una quantità di notizie vertiginosa, chiuso in quella cella) le notizie sulle vendite di automobili in Italia, che ha superato tutti i record nell'anno trascorso; è abbastanza impressionante ma il mercato dell'usato è ormai ridotto al lumicino e tutti quanti comprano auto nuove e c'è una crescita di cilindrata, di velocità, poi tutti fermi per 130 chilometri. Io con le auto non ho avuto bisogno di pentimenti perché non ho mai cominciato la carriera, ero felicissimo quando noi bloccavamo la carriera. Questa è la cosa un mondo assolutamente pieno dalla nostra parte; noi abbiamo la caduta demografica ma quello è un criterio assolutamente sbagliato per valutare il rapporto fra esseri e spazi a loro destinati. Noi abbiamo un incremento di automobili che è la vera natura della nostra longevità e caduta di natalità; abbiamo due automobili a testa, ferme, che occupano spazio, e contemporaneamente cessiamo di riparare l'automobile precedente anche se è ancora nuova e può andare per altri 300.000 chilometri, troviamo tutti gli argomenti, gli sconti favorevoli alla rottamazione e all'acquisto di nuove auto.
Giorgio Quindi la "rottamazione" in contrapposizione alla "riparazione".
Adriano Secondo me sono i due criteri opposti della vita di ciascuno di noi; naturalmente si applica anche a noi, che possiamo personalmente essere rottamati (come succede ad una grandissima parte della popolazione umana mondiale) cioè buttati via, calpestati, ridotti ad un pacchettino perché non ingombri e sostituito da un altro. Per esempio la tecnica dei trapianti è promettente, non me la sento di prendermela con gli studi sul genoma che permetteranno di superare le malattie genetiche (ho delle persone care che potrebbero essere curate con queste cose qui; il papa se gli dicono che con le cellule embrionali del nostro fratello surgelato si potrebbe risolvere il Parkinson pensi che non ci penserebbe? Io ci penso per lui). Dunque la rottamazione è il criterio vincente di una società che sa benissimo che moltiplicare per il numero dei cinesi l'esistenza di automobili, ferme in parcheggio o ferme in coda, significa immediatamente la fine del mondo. In Cina, che forse sono un miliardo e trecento milioni, ma forse di più, come dicono altri, perché non si fa il censimento da tempo e perché da tempo è del tutto occultata la presenza di neonati per via di questa tassa anti crescita demografica, da una decina di anni a questa parte hanno cominciato ad essere applicati nei centri metropolitani i divieti alla circolazione delle biciclette perché intralciano il traffico automobilistico. Questo per dire che questa assurdità o la guardi in faccia e allora puoi solo ritirarti, impazzire, morire, diventare santo, qualunque cosa, fare come te un concerto dei tuoi, sostanzialmente diventare matto, oppure non la guardi in faccia e fai il tuo pezzo di cosa, ripari il tuo pezzetto di cosa.
Giorgio Ti aggiusti.
Adriano Ti aggiusti, salvi la vita di quello, adotti quell'altro, disinfetti le ferite. Secondo me il problema della rivoluzione era questo. Per questo io penso che siamo stati l'ultima generazione, tra l'altro attardata, che ha potuto desiderare la rivoluzione, e immaginarsi il cambiamento in forma di rivoluzione.
Giorgio Scusa se torno su questo argomento, ma tu non ha la sensazione che il Movimento parta non legato alla rivoluzione marxista, ma parta abbastanza spontaneamente antiautoritaristico, anticonsumistico e poi diventi decisamente di sinistra?
Adriano Essere di sinistra allora era abbastanza automatico, ma è ovvio che non eri marxista.
Giorgio Ma il tuo comunismo da dove viene?
Adriano Qui le storie erano diverse. Il mio comunismo non era male. Ero anti-stalinista dall'infanzia per una specie di merito familiare.
Giorgio Non intendevo chiederti questo. Tu sei in quell'epoca del rifiuto. Questo rifiuto è immediatamente politico oppure passa attraverso un rifiuto più generico che poi diventa politico?
Adriano Sicuramente. La politicizzazione nel senso in cui parli tu è stata una cosa progressivamente imposta a questo Movimento che ha finito per soffocarlo. Siamo stati stupidi, abbiamo accettato di irrigidire sempre di più questa cosa con una dinamica abbastanza usuale che non ci faceva migliori di altri. Accettando come inevitabili i condizionamenti esterni, cioè che il nemico, invece di essere semplicemente un nemico con cui poter confrontare modelli diversi dell'esistenza umana e di organizzazione sociale, ammazzava la gente, e quindi bisognava essere in grado di contrastare un nemico che metteva una bomba a Piazza Fontana. E però era un alibi anche questo, solo che noi non lo sapevamo; eravamo stupidi, limitati.
Giorgio Vietnam, Piazza Fontana, queste cose hanno portato verso quella parte. Io stavo pensando se questo Movimento non avesse ricevuto un condizionamento di tipo vecchio. Nasce con l'idea di un rifiuto.
Adriano a differenza che oggi, per i più interessanti ragazzi di oggi, nasce da una voglia di rivolgimento, di rifiuto dell'ingiustizia, di rifiuto della mancanza di libertà. Secondo me erano due le cose la fame nel mondo, l'intollerabilità di questo dolore, e la voglia di libertà. C'era questa volontà d'identificazione con il molto distante, con gli antipodi, e anche questo aveva i suoi pregi, ma alla lunga il suo grande difetto, la perdita di vicinanza, di carità per il prossimo, per quello vicino a te. A me pare che i ragazzi più interessanti di oggi abbiano invece fin dall'inizio questa specie di delimitazione del loro orizzonte verso il prossimo, che è quello del sapere di chi ti stai prendendo cura, e chi si sta prendendo cura di te.
Majid C'è una cosa che non mi torna nella liquidazione del fenomeno culturale del Sessantotto, che non è fenomeno politico. Per quanto riguarda il fenomeno politico io in parte concordo con il paradosso di Mauro (Rostagno) che diceva "per fortuna che abbiamo perso", mentre dal punto di vista della modificazione della cultura, intesa dal punto di vista esistenziale, della ricerca, del mettersi in gioco, io credo che un segno forte ci sia stato, che ha modificato una generazione in modo preciso. È vero che adesso tutto è sfumato. Io con i "papa-boys" non sento nessun collegamento, anche se è vero che in molti di loro ci sono le istanze ed i bisogni che giustamente gli attribuivi. Però come comportamento di massa, di individui tutti insieme, io sento l'assonanza al pubblico dello stadio, sento l'assonanza al "Cantagiro", al fan, al meccanismo d'identificazione con la grande regia dello stadio, la grande regia vaticana, che ha mixato la politica con lo spettacolo, ed ha creato questa gigantesca macchina di consenso. Non ci sento assonanza con quella energia che pervadeva le piazze, gli stadi ed i palalido dell'epoca, anche se accompagnati dal nostro delirio ideologico. Ci sento la grande diversità tra chi facendo errori era comunque protagonista e ricercatore di qualcosa, pur nel suo essere massa, e chi è spettatore.
Adriano Secondo me siete troppo unilaterali e temo che questo dipenda dal fatto che noi siamo troppo disillusi, troppo ingenerosi; questi ragazzi, proprio quei due milioni li, ai miei occhi somigliano molto di più a "Re Nudo" di Parco Lambro che ai raduni di fedeli nell'altro anno santo che io mi ricordo, portati dalla Federconsorzi, da Bonomi, capisci? Quei ragazzi, che sicuramente hanno una regia… ma sono dei ragazzi che stanno nei sacchi a pelo, che cantano, e tutto questo veniva strumentalizzato, eterodiretto, tutto quello che vuoi, ma quella notte lì, mi hanno detto che hanno scopato in numerosissimi nei sacchi a pelo…
Giorgio Questa è una delle poche buone notizie.
Adriano Buonissima; moltissimi di loro erano arrivati a Tor Vergata non in comitive organizzate ma come persone che fanno insieme delle cose con una forte identificazione. C'è un aspetto prevalente che è quello che dici tu ma c'è anche un altro aspetto, e uno deve vederlo, altrimenti rischia di considerare avvenuta una mutazione antropologica tale che stai avendo a che fare con un altro genere vivente. E secondo me non è così. Questa storia del gregarismo e delle masse fa veramente impressione guarda gli stadi oggi. Il fascismo e le guerre in Europa hanno oggi come incubatrici gli stadi di calcio. Nella ex Jugoslavia, che io conosco molto bene, è così che si sono organizzati; ancora oggi le cose più importanti lì avvengono negli stadi di calcio ed in subordine in quelli di pallacanestro. Questa impressione allarmante che fanno i musulmani, cioè gli appartenenti a Paesi musulmani, non i musulmani di religione, è in parte giustificata secondo me dev'essere trattata senza posizioni di principio, ma è al tempo stesso spaventosamente maltrattata da questa specie di semirazzismo invalso, alla Biffi. Però, ad esempio, l'influenza dell'immagine della preghiera musulmana è impressionante queste schiene che si piegano e questi piedi, la scomparsa delle facce in un unico genuflettersi; io andai in Iran al tempo della cosiddetta rivoluzione e vidi lo spettacolo dei milioni di persone, maschi, che si genuflettevano così; è una rappresentazione come mai si è avuta nella storia del mondo di questo gregarismo e di questa massificazione di cui parlavamo. Stalin, la Piazza Rossa, persino Tien An Men non sono niente di fronte a questo spettacolo che tiene insieme un mondo in cui la grande maggioranza della popolazione ha meno di quindici anni, questa specie di spettro demografico con questi comportamenti. Questo punto è assolutamente essenziale nel misurare il fantasma che oggi è, come si diceva, "uno spettro si aggira oggi per l'Europa". Sulla regia volevo dire questo, una cosa che mi ha fatto molto piacere pensare all'indomani di Tor Vergata in questa cosa da fans, che non è assolutamente dissimulata ma quasi scontata, col papa che fa l'uomo dello show più importante del mondo, anche li con una certa ambivalenza, si paga un certo prezzo. Questo papa ha potuto fare questo non perché ogni papa può fare questo o perché ogni regia accorta può fare questo l'ha fatto nonostante l'imbecillità dei suoi manager. Quando questo papa morirà, cosa che forse non succederà mai, e bisognerà sostituirlo, la Chiesa cattolica, cioè questa grande Istituzione della potenza terrena, sarà messa di fronte a questo dilemma, cioè lo Spirito Santo dovrà risolvere questo problema o nominare un papa che segni la riappropriazione completa, che sta avvenendo già in questo periodo, della Curia, della gerarchia e degli apparati messi in difficoltà dal personalismo travolgente e carismatico di questo papa (e fare questa cosa significa sicuramente perdere gli spettatori, cioè al prossimo spettacolo non si vendono i biglietti), oppure sceglierne uno che possa far sperare che possa portare due milioni di ragazzi, o come a Manila tre milioni, si dice il più grosso raduno mai avvenuto, cioè l'incubo più grosso. Per fare questo devi sceglierne uno che sia così, in una storia diversa ma che abbia caratteristiche tali che possa far ballare due milioni di persone.
Majid C'è la congiuntura che questo papa s'è sostituito alla mancanza di politica verso il Sud del mondo da parte della Sinistra.
Adriano Ma perché dici una mancanza di politica verso i Paesi poveri? Lui s'è sostituito a tutto! S'è sostituito all'inefficienza dell'anticomunismo, dando una bella botta al fortunatissimo crollo del Comunismo; s'è sostituito alla critica del Capitalismo e del Consumismo diventando il capofila di Rifondazione; s'è sostituito a quello che dicevi tu.
Majid E poi ha rilanciato sul piano della conservazione, sulla morale, coprendo anche a Destra, ha raccolto dappertutto, creando il totale appiattimento (quello che io chiamo il partito papista, il 90% della politica italiana, per non parlare poi del mondo), per cui non può uscire niente se non dal grande vecchio e isolato intellettuale che può dire quello che vuole, e c'è un'omertà, una banalità spaventosa. Vasco Rossi era stato invitato anche lui a fare un concerto per il papa, e lui ha detto di no, che non ci pensava nemmeno. Era una notizia giornalistica, ma non è uscita da nessuna parte!
Giorgio Hai fatto prima un parallelismo tra questo raduno di Tor Vergata e i raduni di "Re Nudo"…
Adriano Ho detto che, se tu li confronti, questi due milioni da una parte con il massimo che a lui [Majid, ndr] sta a cuore, perché io a Parco Lambro li avrei fatti bastonare (scherzo ovviamente), anche se ovviamente allora ero, come dire, reazionario, non dei più ma abbastanza scherzo però allora avevamo una formazione ed una cultura mostruosa per esempio sulle cose sessuali, lasciamo perdere… Io non ho nessuna colpa per le incriminazioni per cui sono oggi in galera, però poi le vere colpe le ho in quel campo li; alcuni di noi erano veramente nemici di "Re Nudo", scandalizzati, indignati, altri di noi erano più protettivi, tra cui io, anche perché io ero molto più amico, di loro, di Mauro. Quando qualcuno se la prendeva con quest'ala allora intervenivo, ma io ero un bischero che faceva il segretario.
Giorgio Io a quell'epoca feci anche qualche concerto per Lotta Continua, diedi qualche soldo, mi ricordo di Gigi Noia…
Adriano Gigi Noia è l'assassino di Calabresi. Quasi tutti quelli di Lotta Continua sono assassini di Calabresi ma Gigi Noia sarebbe in galera con me oggi, perché era imputato dell'omicidio Calabresi, se non avesse avuto un colpo di fortuna spaventoso, e cioè delle fotografie con data, di quelle che si facevano con la Kodak e che sono state ritrovate, che hanno fatto da alibi perché Marino aveva detto che era lui il basista dell'omicidio Calabresi, descrivendolo glabro, mentre lui aveva queste fotografie con un barbone come ha sempre avuto e con la data. Capisci?
[i]Ci ringraziamo tutti e ci abbracciamo, infilando i cappotti. Giorgio chiede ad Adriano se lui ha piacere di un'altra visita eventuale. Adriano annuisce, "se siete voi che venite a trovarmi, ma ho intenzione di dimettermi presto dalla condizione di detenuto. Farò qualcosa ad oltranza". E si va via con il gelo nel cuore. Ma come rispondergli con qualcosa che avesse un senso!
A. Sofri
Da un intervista a "REpubblica" 4 febbraio 2000
...
Fuori di qui, sulla vostra vicenda sta calando il silenzio.
"Anche questo è normale. Per due ragioni. Prima l'assoluta assuefazione, da me condivisa. Seconda è difficile dire qualcosa, io credo, in un paese beneducato".
Tutto finito, dunque?
"No, il mio cadavere riaffiorerà, sarà avvistato, produrrà titoli di testa. Periodicamente riaffiorerà. La cosa non è finita" .
Come può riaprirsi, la storia?
"Non so come. Io non sono autore di questa storia, ne sono oggetto. C'è un giudice che sta scrivendo delle motivazioni. Un giudice giovane e simpatico, che teneva a mostrarsi preparato sulle carte del processo. Tutti e tre i giudici erano simpatici, tre persone ammodo. O ricadranno nella voluttà della condanna moralistica e integralista, e della contraffazione dei fatti, oppure dovranno trovare argomenti che non riesco a immaginare".
Perché?
"Da dodici anni sostengo che furono i carabinieri ad andare da Leonardo Marino, e non viceversa, e ora pressoché tutti sono pronti a dire che probabilmente andò così. Da dodici anni sono accusato per un colloquio con Marino che non ho avuto, e ora il difensore di Marino dichiara che può essersi trattato di un fraintendimento. Sia il pubblico, sia il giudice che sta scrivendo le motivazioni, possono averne abbastanza o decidere di ignorare tutto ciò".
Prima di essere nuovamente condannato, lei ha rivolto un invito a esponenti del vecchio Pci ammettano che furono loro a mandare i carabinieri a prendere Marino. L'invito pare caduto nel vuoto.
"Sì, abbastanza. Alcuni hanno risposto che non sapevano, benché considerassero plausibile o probabile l'itinerario che avevo disegnato. Aspetto di sentire se altri hanno qualcosa in più da dire" .
...
Cosa resta da dire?
"Nella mia condizione c'è un aspetto di caricatura, di macchietta. Una storia che si trascina così a lungo, così grottescamente, diventa inevitabilmente ridicola. Persino la tragedia in cui è già finita, o può andare a finire, non potrebbe riscattare questo aspetto mediocremente grottesco. In particolare questo significa oggi che il mio continuare a insistere su fatti e circostanze che riguardano la mia accusa e la condanna appare agli altri, compresa una parte di quelli che mi vogliono bene, come una specie di strana mania" .
Per il troppo tempo passato?
"Se quando io fui arrestato nel luglio '88 fosse emerso che Marino e i carabinieri si erano intrattenuti occultamente per venti notti, lo scandalo sarebbe stato enorme. Emerse quasi due anni dopo, e fu soffocato. Se fosse emerso quel che il parroco di Bocca di Magra ha raccontato pochi giorni orsono, sui carabinieri avvertiti delle millanterie di Marino che gli stavano dietro da mesi, il castello dell'accusa si sarebbe afflosciato. Se i dirigenti del Pci avessero dichiarato che era del tutto plausibile che il senatore Bertone avesse avvisato il partito, e che il partito si fosse rivolto ai carabinieri competenti, nessuna sentenza avrebbe potuto santificare la spontaneità della confessione di Marino. E gli italiani che si sono occupati di questa vicenda non avrebbero impiegato tempo e intelligenza a rispondere alla domanda "perché Marino si è consegnato spontaneamente?". Se le cose dette ora, all'indomani del processo di revisione, fossero state dette durante, quei tre giudici ammodo, ammettendo pure che fossero malintenzionati, avrebbero avuto una bruttissima gatta da pelare".
E invece?
"E invece tutto ciò avviene con una specie di prescrizione alla rovescia, una prescrizione della verità e non del reato. Mettiamo che io esca nel 2017, che vada fuori e incontri delle persone per strada. Un po' contente e un po' imbarazzate si rallegreranno con me, e mi diranno pioveva, eh, quel giorno a Pisa? Così, per farmi contento" .
L'autodifesa di Sofri
Link
fra i militanti radicali coloro che considerano Sofri colpevole dell' uccisione di Calabresi sono in netta maggioranza. Inutile starsela a menare. E' così.
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Mario, non so se sia così o no. Ma, per la politica radicale che mi interessa, 'non importa' e 'non deve importare'.
Pannella e Sofri ci tengono NON una battaglia radicale "per la grazia a Sofri" (in quanto innocente, in quanto la colpevolezza è in dubbio, in quanto 'è un'altra persona'), ma per la liberazione di un'istituzione e di un suo potere.
Ciò non toglie, bensì aggiunge, che ciascuno farà quello che può e sa perché sia fatta chiarezza sulla morte di Pinelli. E su quella di Calabresi.
Per quanto mi riguarda LA battaglia resta quella per la Riforma complessiva di questo sistema giustizia e il resto.
Certo Antonio.
E pur vero che fra i militanti radicali coloro che considerano Sofri colpevole dell' uccisione di Calabresi sono in netta maggioranza. Inutile starsela a menare. E' così.
E io, anche e se Sofri uscirà un giorno dal carcere,mi batterò, nel mio piccolo, affinchè prima o poi la verità venga a galla. Su di lui e su coloro che ammazzarono Pinelli. E credo che anche e soprattutto questa sia "giustizia", più ancora che continuare a credere nel rispetto della "legalità". Battaglia anche questa importante, sicuramente.
Ma è proprio questa parola, "legalità", che in questo nostro Paese io vedo sempre più come miraggio, qualcosa che continua ad allontanarsi, ogni giorno di più, come una zattera alla deriva...
Sono cosciente di argomentare, in questo momento, in modo assai poco "radicale".
Consideralo un mio limite, Antonio.
Ciao e buon anno
Fortunatamente la battaglia radicalpannelliana è un'altra!
"Sofri libero", appello a Scalfaro
In tutta Italia nascono comitati a favore dei tre ex-leader di Lc in carcere a Pisa
Giuseppe D'Avanzo, Repubblica 10 aprile 1997
ROMA (g.d'a.) - Da Trento a Caltanissetta. Da Trapani a Ivrea. Da Ravenna a Poggibonsi. Sono centinaia i comitati Liberi Liberi per Sofri, Bompressi e Pietrostefani, condannati a ventidue anni di carcere per l'omicidio Calabresi nel gennaio scorso dalla Corte di Cassazione, dopo sette processi dalle alterne sentenze. La nascita e diffusione dei comitati è un particolarissimo caso italiano.
Nascono dal nulla e spontaneamente dalla volontà di un gruppo di amici che non credono nella colpevolezza dei tre e spesso non si tratta né di amici di Sofri né di ex-Lc.
E' gente che ha letto solo le cronache giornalistiche del processo o i libri e i reportage (dalla Bosnia, dalla Cecenia, dalla Patagonia) di Adriano Sofri, sufficienti - evidentemente - per "sentire", per "sapere" che quell'uomo non può essersi macchiato di un delitto, non può aver ordinato la morte di un altro uomo. Spesso sono sufficienti una decina di telefonate per far accorrere in un teatro - è accaduto a Firenze, a Palermo, a Sarajevo, accade ogni lunedì a Roma al Teatro degli Artisti in S. Francesco di Sales - centinaia di persone. Tutti dicono "Non può finire così". E "Non può finire così" ripetono Fiamma e Francesca nella stanzuccia che il partito radicale ha concesso a Liberi Liberi, in via di Torre Argentina a Roma. "Non può finire così". Fiamma, 70 anni, ex-funzionaria della Camera dei deputati, e Francesca, 26 anni, studente di Antropologia, usano la stessa espressione, le stesse parole per spiegare perché da un paio di mesi dedicano tutto il loro tempo libero a raccogliere le firme per un appello al capo dello Stato a favore di Sofri, Bompressi e Pietrostefani.
"Molti di noi - si legge nell'appello che ha già ottenuto sessantamila firme - per ragioni di diversa scelta politica, di estrazione sociale e culturale non hanno condiviso il percorso politico di Sofri, Bompressi e Pietrostefani. Riteniamo però che la loro vicenda giudiziaria sia un problema grave, che ci interpella come cittadini democratici e chiama in causa la credibilità della giustizia italiana". Anche Fiamma e Francesca non hanno mai conosciuto Adriano Sofri né Lotta Continua. "La mia - dice Fiamma - è stata una reazione istintiva. La sentenza non mi ha convinto. Anch'io come il pm Pomarici (l'accusatore di Sofri, n.d.r.) avevo una sensazione di pelle, e la mia "pelle" mi diceva che Sofri è innocente. Ho poi letto le carte. La mia convinzione ne è uscita rafforzata. E ora qui, do una mano al comitato, vado in giro come posso, per chiedere una firma".
"Quelli che fra noi hanno potuto conoscere i punti salienti di questa vicenda - spiega l'appello a Scalfaro - hanno maturato la convinzione dell'innocenza di Sofri, Bompressi e Pietrostefani. Ma anche quelli fra noi che non sono in grado di condividere documentalmente questa affermazione d'innocenza, sono profondamente turbati dall'esito opposto delle diverse pronunzie giudiziarie, che hanno fatto emergere ben più che un ragionevole dubbio su una giustizia così labile e contraddittoria, ma anche così spietata nella sua tardiva definitività". "Nella mia generazione - dice Francesca - c'è disinformazione su quegli anni e, quindi, molta indifferenza o ideologia nel giudicare. Molti dicono quello lì, Sofri, è un privilegiato perché ha attorno a sé molta solidarietà. E allora, dico io, è una colpa? Ma chi si occupa degli altri, chi farà comitati per gli altri?, mi chiedono. E io dico fatelo una comitato, facciamolo, ma non lasciamo all'oblio della galera chi vi è entrato con un ragionevole dubbio di innocenza".
"Siamo ben consapevoli - continua l'appello al capo dello Stato - che la vicenda giudiziaria di Sofri, Bompressi e Pietrostefani ha una sua unicità, ma è anche il sintomo di un ben più ampio malessere della giusti zia, che spesso colpisce persone anonime e sconosciute". "Noi - conclude l'appello - a questo non sappiamo rassegnarci e ci rivolgiamo a Lei per manifestare la nostra fiducia nella sua umana sensibilità nella sua esperienza di magistrato, nel suo ruolo di supremo garante della Costituzone". I comitati Liberi Liberi consegnaranno le firme al Quirinale entro la fine del mese.
Mille ragionevoli dubbi. Sulla certezza del diritto
Valeria Gandus intervista Ettore Gallo
da Panorama, 3 febbraio 2000
Ex presidente della Corte costituzionale e giurista di chiara fama, il professor Ettore Gallo segue da anni, con l'interesse dello studioso e l'impegno di chi crede nel primato della giustizia, la vicenda processuale di Adriano Sofri, Giorgio Pietrostefani e Ovidio Bompressi. Pur definendosi "strenuo difensore della magistratura", Gallo contesta aspramente il verdetto della Corte d'appello di Venezia che ha confermato la condanna a 22 anni per Sofri e i suoi compagni.
Cosa pensa di quest'ultima sentenza?
Premesso che occorre leggere le motivazioni, credo che i giudici veneziani non abbiano avuto la voglia e il coraggio di rovesciare il giudizio dei tanti colleghi che li hanno preceduti.
Coraggio?
Sì, perché più i processi sono lunghi, i pronunciamenti numerosi, la storia processuale complicata, più faticoso è rimettere ordine e più difficile emettere una sentenza che dica "Cari colleghi, avete sbagliato tutti quanti".
I giudizi non sono stati sempre unanimi la Cassazione ha annullato più volte le condanne, mentre al secondo processo d'appello gli imputati sono stati assolti.
Furono assolti, in quell'occasione, grazie ai giudici popolari e a dispetto di quelli togati al punto che il giudice a latere scrisse una cosiddetta "sentenza suicida" che, contrastando totalmente con il verdetto di innocenza, costrinse la Cassazione ad annullare il processo. E a proposito di giudici popolari, nel processo di revisione se n'è sentita la mancanza purtroppo il nuovo codice di procedura penale li ha aboliti lasciando a tre giudici togati la responsabilità del giudizio. Dal punto di vista del garantismo, è un passo indietro.
Ora tutto torna alla Suprema corte, che si è dimostrata più garantista.
Ma il tempo passa e pesa per tutti, anche per i giudici della Suprema corte bisogna vedere se avranno il coraggio di ribaltare il giudizio.
Coraggio è una dote così importante per un magistrato? Non basterebbe l'onestà, l'autonomia, la competenza?
Serve eccome, il coraggio, per annullare nuovamente la sentenza e ordinare un ennesimo processo che chiuda definitivamente questa storia.
Chiudere perché, come dice qualcuno, "di Sofri non se ne può più"?
No, per fare giustizia, per non lasciare più adito ad altre persecuzioni.
Persecuzione è una parola grossa.
E massima è stata l'iniquità di questi processi a cominciare dal mancato rispetto delle indicazioni delle sezioni unite della Corte di cassazione che avevano invitato i giudici di merito ad avvalorare con adeguati riscontri il racconto di Marino. O a ignorarlo. Quei riscontri non sono mai arrivati e le parole di Marino hanno continuato a valere come oro colato.
Lei crede che i giudici di Cassazione lo troveranno, quel coraggio?
Non lo so. Ma so a quale impopolarità andrebbero incontro rimandando a un ennesimo processo. Ha idea della reazione dell'opinione pubblica?
Ma i giudici non dovrebbero essere insensibili agli umori della piazza?
E in genere lo sono. Non partirò certo da questo caso particolare per accodarmi a chi accusa l'intera categoria. Sono uno strenuo sostenitore dei magistrati e continuerò a difenderli da ogni attacco strumentale.
Quello di Sofri e compagni sarebbe dunque un caso isolato?
Non ricordo altri processi costruiti sulle parole di un solo dichiarante.
Marino è stato creduto nonostante lacune e contraddizioni.
La sua è stata una confessione inaffidabile e infida. Altro che "spontaneità" ha passato 19 giorni in compagnia dei carabinieri e almeno due mesi a confidarsi con la moglie, con il parroco, con un avvocato prima di liberarsi dell'"insopportabile fardello". Dice che con la "confessione" aveva tutto da perdere. Non mi pare fino al giorno prima era un poveraccio che viveva di prestiti e rapine, dopo il "pentimento" ha speso centinaia di milioni in case e furgoni per le sue crêpe.
Si era "fatto un nome", come ha detto con orgoglio al processo.
E che dire della "coerenza interna" della confessione o dei "riscontri esterni" al suo racconto? Dalle prime verbalizzazioni alle ultime dichiarazioni Marino non ha fatto che modificare la sua versione dei fatti con aggiustamenti progressivi a seconda delle contestazioni che gli venivano mosse. Dal colore della macchina usata per l'attentato (era beige; no era blu) alla presenza di Pietrostefani a Pisa (c'era; non sono sicuro; non ne ho memoria), all'affermazione di aver maturato in solitudine la decisione di confessare (la sua compagna, Antonia, non sapeva nulla; sì, sapeva, che c'è di strano?).
Antonia Bistolfi è sempre stata considerata l'unico riscontro testimoniale esterno alle dichiarazioni di Marino proprio in virtù del fatto che non sapesse nulla. Ma nel processo di revisione si è chiarito che invece sapeva.
E per non peggiorare la situazione si è rifiutata di deporre al dibattimento.
La sua testimonianza, insomma, non dovrebbe avere più valore.
Non solo a questo punto la confessione di Marino diventa una "vox clamans in deserto", una dichiarazione accusatoria senza riscontri, senza valore. Aspetto con ansia le motivazioni per vedere come i giudici della revisione risolveranno questo problema. Non affrontarlo darebbe adito alla Cassazione di censurare la sentenza. Ma gli interrogativi cui dovranno rispondere nelle motivazioni sono molteplici perché, per esempio, non hanno preso in considerazione la testimonianza del vigile che forniva a Bompressi la cosiddetta "prova d'alibi" giurando che il giorno del delitto, all'ora dell'aperitivo, il presunto killer brindava con gli amici alla morte del commissario in un bar di Massa? Nessuno, a quell'epoca, poteva impiegare tre ore da Milano a Massa. Che cosa scriveranno? Che il vigile ha mentito? E perché, visto che non era un amico di Bompressi?
Insomma, non serve nemmeno un alibi di ferro...
Non esageriamo, questo è un caso limite. Però quando si capita negli ingranaggi della giustizia non c'è mai da stare tranquilli. Diceva un mio maestro, grande giurista "Se mi accusano di aver rubato la Torre di Pisa, per prima cosa scappo".
Difficile avere fiducia nella giustizia.
Io ce l'ho prima di approfondire i miei studi giuridici, sono stato magistrato per dieci anni e so che la grande maggioranza dei giudici onora il suo mandato. Non nego però che episodi come questo possano minare profondamente il rapporto di fiducia con i cittadini.
Forse, quel che più colpisce la gente comune è l'enorme facoltà discrezionale del giudice, il suo potere di decidere della vita degli altri.
Il libero convincimento è un caposaldo dell'autonomia del giudice, ma deve sempre essere motivato e motivabile con un ragionamento congruo che difenda la razionalità del giudizio. In caso contrario è un abuso.
Con questa sentenza, l'antica norma alla base del diritto romano, "In dubio, pro reo", sembra essersi rovesciata "In dubio, pro reitate"...
Questo non può e non deve accadere. Il nostro codice prevede l'assoluzione in mancanza di prove o anche solo in presenza di prove dubbie. Il diritto anglosassone, poi, è ancora più rigoroso la condanna può essere pronunciata solo in assenza di ogni ragionevole dubbio. Qui i dubbi sono troppi anche per il diritto romano. Se nelle loro motivazioni i giudici scriveranno il contrario, sarà dovere della Cassazione cogliere questa ulteriore violazione.
Francesco...
ottobre...
La memoria...
VITE PARALLELE
di Giuseppe Merlo
novembre 1997
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Documento sonoro completo del dibattito sul tema <>, per discutere sulla vicenda storica e processuale di Adriano Sofri e per commentare il film di Pier Paolo Pasolini "12 dicembre"
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dallo speciale Sofri www.radioradicale.it
a cura di Michele Lembo
Bolzano, 16 gennaio 2001
La prigione di Adriano Sofri
di Edi Rabini
Il sole appena pallido non riesce a riscaldare il freddo di tramontana, in questo giorno di metà gennaio a Pisa, ma fa risplendere i colori delle semplice case che proteggono le strade del centro storico. La città sembra esibire un'aria dimessa, come a voler nascondere prudentemente i suoi tesori, ben consapevole di quanto poi paga chi ha mostrato al mondo una potenza superiore ai suoi mezzi.
Quando mi avvio verso il carcere, che rinchiude innocente Adriano Sofri ormai da quattro anni, il cielo è coperto di nuvole. Già da lontano scorgo la torre famosa incombere minacciosa sul vecchio edificio, trattenuta da mille cavi solidali decisi a contrastare il suo destino.
Ho cercato tra le pareti spesse una breccia che mi consentisse di entrare.
Mi sono subito imbattuto in un primo muro, il muro delle buone intenzioni. Ecco, il carcere come luogo di espiazione dei corpi e di redenzione delle menti. Mente e corpo, considerati anche da una certa psichiatria come parti separate dell'essere umano. Si capisce allora perché a Sofri è concessa la libertà di far quotidianamente evadere pensieri (alcuni suoi pensieri) che vengono ospitati da alcuni giornali in Italia e all'estero. Ma il suo corpo no deve restare ben richiuso, assieme a quello di migliaia di altre comparse mutilate dei sensi, a beneficio del palcoscenico elettorale su cui va in scena la farsa quotidiana della "fermezza". Per carità, che non si parli più di amnistie e indulti ora che è finalmente passato il Giubileo e si possono dimenticare i ripetuti appelli del Papa.
Copre un lato intero l'imponente muro della vendetta. Cosa pretende quest'uomo, a capo di una rivolta incompiuta che ha cambiato l'Italia nella stagione delle grandi utopie? E come si è permesso di lasciare l'esilio volontario per presentarsi, con la cricca socialista e quel tale Leonardo Sciascia, il vigliacco, a mettere in dubbio la capacità e la volontà dello Stato di salvare l'Aldo Moro condannato a morte dalle brigate rosse?
Si innalza sul lato Sud del carcere il muro della verosimiglianza. A venti o trent'anni di distanza. il tragico omicidio del commissario Calabresi può ben diventare un pilastro simbolico per condannare, con Sofri, Pietrostefani e Bombressi, un'intera generazione che si affacciava sul mercato dei mestieri ereditari. Sembrava una peculiarità tutta italiana questa vicenda, fino a quando, dentro il riposizionamento fazioso della CDU malata di astinenza al potere, non è cominciata la criminalizzazione in Germania del ministro degli esteri Joschka Fischer.
A nulla è servita la tenacia con cui Adriano Sofri ha cercato dal primo giorno di riportare i numerosi processi nei limiti del fatto imputato, per evitare che fossero le parole dette e scritte in quel lontano contesto, a diventare di fatto la prova decisiva a suo carico. Ed invece l'uccisione del commissario Calabresi è stata attribuita a Sofri, con la complicità di un interessato pentito, solo perché Lotta Continua usava allora parole plausibilmente all'altezza di quel omicidio.
L'ha costruito da sè il quarto lato della sua prigione, Adriano Sofri. E' il muro della responsabilità. C'è stato un periodo, della nostra storia generazionale, in cui le parole erano state ridotte a puro strumento di lotta politica. Pensavamo di essere insieme l'operaio oppresso nelle fabbriche, il Davide vietnamita contro il Golia americano, il contadino calabrese espulso dalla sua terra. E nel nome di troppo grandi ingiustizie ci sembrava poca cosa mettere in gioco la nostra e l'altrui vita. Adriano Sofri ci ha presto insegnato che la "parola" è di per sé l'essenza del vivere. Già dalla fine degli anni '80, ben prima quindi dell'inizio della persecuzione giudiziaria, aveva deciso di farsi per questo carico della responsabilità di tutte le parole dette e delle azioni che ne potevano essere scaturite; delle parole sue e dei molti ai quali si vorrebbe perfino negare la nobiltà di essere stati e di essere rimasti amici.
Così è stata ieri per me impenetrabile la prigione in cui vive Adriano Sofri. Non so se in quell'ammasso di ferro e di mattoni, sormontati da una torre sempre più pendente, riesce a sopravvivere qualche fiore. Ho pensato allora di spedirgli una "Rosa di Gerico", quel piccolo rovo rinsecchito che si aggira nel deserto in balia del vento e fiorisce miracolosamente ogni volta che ha la fortuna di trovare una pozza d'acqua su cui posarsi e da cui riprendere vita.
Il talpa di Calabresi racconta...
"Io, Anna Bolena spia per forza"
L'accusatore di Fo così i servizi mi ricattavano
di GIOVANNI MARIA BELLU
"Sì, sono io quello che hanno fatto diventare "Anna Bolena",l'informatore della polizia". Enrico Rovelli, 53 anni, manager musicale di successo, è un uomo distrutto. Dieci giorni fa il più illustre dei suoi clienti, Vasco Rossi, l'ha lasciato. Non intendeva più lavorare con un personaggio sospettato d'essere stato una spia del Viminale negli anni delle stragi.
Una storia antica, rimasta segreta fino alla scoperta dell'archivio occulto dell'Ufficio affari riservati in un garage della via Appia, a Roma. Le informative di "Anna Bolena" erano là e non fu difficile scoprire la vera identità del prolifico informatore. Repubblica la rivelò nel maggio scorso. Rovelli non reagì. E forse avrebbe continuato a tacere se Vasco Rossi non gli avesse chiesto di rispondere.
[...] sono stato usato. Mi hanno messo in bocca cose che non avevo mai detto, come le accuse contro i miei compagni e quelle, assurde, contro Dario Fo capo delle Br. Voglio denunciare i responsabili di questa strumentalizzazione".
Come cominciò?
"Avevo venticinque anni. Avevo costruito a Bollate, vicino a Milano, una discoteca, "La carta vetrata". Ci voleva la licenza. E allora le licenze le dava la questura. Così andai là, e trovai il commissario Luigi Calabresi".
Lo conosceva già?
"Da anni. Capitava di incontrarlo per comunicare iniziative politiche, manifestazioni. Era un rapporto normale. Lo stesso Pinelli ce l'aveva".
Ma quel giorno non parlaste di manifestazioni.
"No. Calabresi mi disse che non era facile ottenere le licenze, ma lui avrebbe potuto darmi una mano. A una condizione, che rese esplicita poi".
Quale?
"Che gli dessi qualche notiziola sugli anarchici..."
Quando glielo chiese?
"Fu nel 1970 di certo dopo la strage di piazza Fontana".
Lei era amico di Pinelli?
"Sì. Era un uomo straordinario semplice e generoso".
Calabresi era sospettato di averne causato la morte.
"E io respinsi la sua proposta. Lo mandai al diavolo".
Poi, invece...
"La licenza non arrivava. Avevo investito tutto in quella discoteca. Sollecitavo, chiedevo niente. Finalmente la licenza arrivò, ma per un solo mese. In questura trovai ancora una volta Calabresi. Mi disse che era stato lui a farmela avere".
E cominciarono gli incontri.
"Sì. Qualche volta venivano in discoteca. Altre volte incontravo Calabresi in questura, quando andavo per la licenza. I rinnovi erano sempre di un mese. Capisce? Mi ricattavano".
Ma lei cedette.
"Non direi davo informazioni generiche. Non accusavo".
Ne è certo?
"Solo una volta, messo alle strette, feci il nome di un compagno. Ma subito, attraverso il mio avvocato, denunciai il comportamento della polizia. E per fortuna a quella persona non accadde nulla. Fu prosciolta".
Ecco, questa è la parte della relazione sull'archivio della via Appia che la riguarda.
Rovelli legge per una decina di minuti. Aldo Giannuli, il perito nominato dal giudice istruttore Guido Salvini, descrive 'Anna Bolena' come un informatore di primo piano.
"Sono cose assurde evidentemente avevano qualcun altro".
Lei cioè sostiene che "Anna Bolena" divenne un "contenitore" di più informatori?
"Evidentemente".
Ma Anna Bolena era lei.
"Sì. Ma io queste cose non le ho mai dette".
Come procedette il suo rapporto di collaborazione?
"Dopo circa un anno si presentò una persona e mi disse che a Roma erano interessati a me".
Questa perso na era per caso il maresciallo Alduzzi?
"Sì, era lui. Mi fissò un appuntamento in un bar di piazzale Loreto con uno che veniva da quell' ufficio di Roma. Alduzzi mi disse che era il suo capo. Lui lo chiamava "il professore". Aveva i baffi, la voce rauca, i modi affabili".
Bene. E cosa le disse il questore Silvano Russomanno,
numero due dell'Ufficio affari riservati?
"Sì, era Russomanno. Ma io lo capii parecchi anni dopo, quando anche lui finì nei guai e vidi le sue foto sul giornale. Allora per me era "il professore"".
Cosa le disse?
"Con un tono distaccato e cordiale mi disse che avrebbero gradito se avessi collaborato, ma che non dovevo sentirmi obbligato. Mi disse che sarebbe venuto a farmi visita, di tanto in tanto, il maresciallo Alduzzi".
E lei?
"Davo informazioni generiche".
Quanti incontri ha avuto?
"Con Calabresi ne avrò avuti una ventina. Con Alduzzi una quarantina. Con Russomanno solo un altro, nel quale mi ripetè i concetti della prima volta"[...]
(la Repubblica 7 marzo 1998)
“[...] avevate un'idea di chi poteva avere messo la bomba di Piazza Fontana?
«No, però Valpreda aveva un sosia, che cercava sempre di frequentare il circolo, Nino Sottosanti, detto Nino il fascista. Questa pista non venne mai presa in considerazione dagli inquirenti».
Lei parla del «compagno» che Calabresi la costrinse a denunciare. Quello della foto su un passaporto. Era per caso Gianfranco Bertoli, colui che lanciò la bomba nel 1973 in via Fatebenefratelli, che da sempre i magistrati considerano un infiltrato dei servizi segreti?
«No, io misi nei guai un compagno del circolo che molto tempo dopo fu prosciolto. Io non potevo sapere che quella foto era di Bertoli, strano personaggio che non ho mai conosciuto. La verità emerse quando Calabresi era già morto»[... ]
Rimorsi? Rimpianti?
«Col senno di poi dico che avrei dovuto rinunciare al locale e continuare a dipingere o vendere saponette. Ma ho la coscienza tranquilla, non ho fatto male a nessuno»
(Corriere della Sera 7 marzo 1998).
Le allucinazioni di Marino
Intervista a Luciano Della Mea
di Erasmo d'Angelis da Il Manifesto, 6 febbraio 1997
Luciano Della Mea oggi ha 73 anni e vive a Torre Alta, una frazioncina di Lucca; rappresenta una bella pagina della sinistra italiana guerra in Montenegro, Resistenza, poi l'inizio dell'attività giornalistica a Milano all'Avanti! e quindi la militanza che lo portò a fondare nel '67 con Adriano Sofri il Potere operaio pisano, la rivista di cui divenne direttore e intorno a cui nacque poi il gruppo del Potere operaio.
"Sofri - racconta - l'ho conosciuto nel '64 quando era studente a Pisa e conobbi allora anche Bompressi e Pietrostefani. Mi considero il loro fratello maggiore. L'altro giorno, quando ci siamo rivisti con i vecchi amici davanti al carcere di Pisa per salutare Pietrostafani, ho scoperto che il più anziano del gruppo sono io".
Della Mea restò con Sofri fino al '69 quando Adriano ruppe e decise di fondare Lotta continua. "Anche se all'inizio non mi convinceva - ricorda - restai vicino a Lc fino al marzo 1972, quando Sofri e Lanfranco Bolis misero a punto le Tesi. A quel punto rompemmo, perché le consideravo caratterizzate da estremismo infantile. Loro adombravano un colpo di stato imminente, davano per spacciata la sinistra, io le discussi una per una e l'editore Bertani pubblicò le mie considerazioni nel libro "Proletari senza comunismo"".
Dunque c'eri anche tu a Pisa quel 13 maggio 1972, quattro giorni prima dell'assassinio di Calabresi, quando Lotta Continua organizzò il comizio per la morte dell'anarchico Serantini?
C'ero anch'io, e ricordo che fui contrario a quella manifestazione. Talmente contrario che presi l'iniziativa e telefonai a Cossutta, a Botteghe oscure, perché volevo spingere anche il Pci a ricordare Serantini. Così quello stesso giorno, accanto alla manifestazione di piazza San Silvestro con Sofri, c'era quella di piazza Carrara del Pci con Giancarlo Pajetta. Questo si è rivelato un particolare importante, perché i testimoni delle due manifestazioni, politicamente avversi, affermano che quel giorno pioveva a dirotto. Solo Leonardo Marino afferma che quel giorno non pioveva ed è stato creduto.
Del resto, basta scorrere le cronache dei giornali dell'epoca, dal "manifesto" a "Paese Sera", alla "Nazione", per leggere una serie di "pioggia battente", "pioggla insistente", "fuggi fuggi per la pioggia". Ma secondo Marino proprio al termine del comizio, in un bar della piazza, Sofri e Pietrostefani gli avrebbero impartito l'ordine di eseguire l'attentato...
Intanto, quel giorno Pietrostefani non era a Pisa. Mi pare poi che fosse un giorno di festa, e nei dintorni della piazza c'era solo un bar frequentato da sportivi, talmente pieno di gente e incasinato che difficilmente poteva essere quello il posto adatto per dare mandati. Mi domando perché molti testimoni non sono stati creduti, come Guelfo Guelfi, che stette sempre accanto a Sofri e dichiarò che Adriano non si allontanò mai da solo e ne tantomeno andò in un bar. Dopo il comizio Sofri andò con Guelfo a casa di Soriano Ceccanti e poi a casa sua...
Dove li raggiungesti anche tu...
Andai a casa di Sofri in via Pellizzi dove c'erano la moglie, Alessandra Peretti, con i figli Nicola e Luca. C'erano alcuni compagni che volevano salutare Sofri e c'era anche Marino, per cui non si capisce perché quel mandato Sofri doveva darlo al bar e non piuttosto a casa sua, dove avrebbero potuto appartarsi tranquillamente. La verità è che sono innocenti tutti e tre, io li conosco bene. Se Sofri avesse voluto la morte di Calahresi sarebbe andato lui di persona ad ammazzarlo, questa è la sua struttura morale. E' scandaloso giudicare attendibile una persona che presenta un racconto del tutto privo di riscontri. Ci sono testimoni che affermano che Bompressi era a Massa il giorno dell'omicidio Calabresi ma nessuno ha proceduto a riscontri. Mi ricordo che quando andai a testimoniare a Milano, al primo processo, il giudice mi ritenne inattendibile per partito preso e non c 'e stata nessuna accusa di falsa testimonianza.
Ti aspettavi questa sentenza ?
No, mi illudevo che non reggesse, un'accusa del genere. Ma non credo sia una vendetta politica, è piuttosto la dimostrazione di una logica perversa interna alle istituzioni, alla magistratura, alla sfera politica una volta presa una determinata direzione non tornano indietro anche se è sbagliata. Ma oggi abbiamo l'assoluta necessità della continuità nell'azione di denuncia, perché il rischio e che pian piano le cose cadano nel silenzio. Il comportamento di queste tre persone, che accettano la galera pur essendo innocenti, e un esempio di dignità rara. Bisogna fare di tutto per tirarli fuori.
Splendido link Mario, grazie, buonanotte.
Identico link con lettura meno "pesante"
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da un'intervista al dottor Giovanni Aliquò
Segretario Nazionale Associazione Nazionale Funzionari di Polizia
Qualora si potesse affermare, con sufficiente grado di certezza, che l'apparato probatorio è in grado di sostenere le pesanti accuse di omicidio mosse ai tre condannati e che la motivazione della sentenza che li ha condannati è in grado di resistere al vaglio della ragione, non avrei esitazione meriterebbero in pieno di trascorrere in carcere l'intero periodo della pena loro comminata dalla Corte d'Appello.
Nel caso di Sofri, Pietrostefani e Bompressi, però, le cose non sembrano andare così de plano. Vi sono, infatti, degli "indici" che dovrebbero indurre ad una riflessione. Ci si intende riferire non tanto alle raccolte di firme ed alle manifestazioni di solidarietà permanente (che pure, se si è ingiustamente incarcerati, immagino che possano risultare di grande aiuto morale), quanto alle critiche che, con grande puntualità, competenza e completezza, giungono da parte di persone di diversa estrazione politica, professionale e culturale, anche non propriamente vicine ai tre condannati.
Quando, ad esempio, nel corpo di un testo piuttosto sferzante nei confronti degli "ex rivoluzionari oggi gestori dei media", Giorgio Galli, commentando la sentenza di condanna, afferma che "l'omicidio Calabresi, a un quarto di secolo dai fatti, continua a rimanere un rebus irrisolto" (prefazione a La sentenza del processo Calabresi, 1997, pag. 8) è chiaro che non parla come uomo di parte.
Né si può pensare di sottrarsi all'obbligo morale di attivare il cervello nascondendosi dietro all'esile scusa dell'intangibilità del giudicato.
Tra ciò che è legittimo e ciò che è "giusto" può, a volte, esserci un grande divario, come insegnano i processi a Dreyfus, a Sacco e Vanzetti, a Enzo Tortora e molti altri analoghi.
Non sono in grado di esprimere un giudizio definitivo, ma devo ammettere che i dubbi sollevati da molti autorevoli commentatori appaiono meritevoli di particolare attenzione.
Il lavoro di riscontro esterno delle dichiarazioni del collaborante Marino mi è parso che, in più di una occasione, si dimostri vacillante. In alcuni casi, anzi, invertendo la metodologia del riscontro specifico, il giudice utilizza le difformi dichiarazioni di Marino (rilasciate oltre sedici anni dopo l'accaduto) per smontare l'attendibilità degli altri imputati, dei testimoni oculari e, addirittura, per correggere gli stessi risultati delle investigazioni e dei rilievi compiuti, sul luogo e nell'immediatezza del fatto, dalla Polizia giudiziaria. E' sulla base di questo fondamentale dubbio metodologico, peraltro, che le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con sentenza del 23 ottobre 1992, hanno annullato la precedente condanna dei tre, riconoscendo l'illogicità della motivazione.
Le perplessità, tuttavia, si moltiplicano se si passa a considerare il metodo con il quale, in dibattimento, sono state raccolte, sollecitate e valutate le testimonianze in generale.
Spesso, a mio modo di vedere, è mancata quella sensibilità investigativa che si informa ai più elementari principi di psicologia della testimonianza. Nel condurre un interrogatorio, infatti, bisogna tener conto che il testimone reagisce a precisi stimoli esterni che gli provengono sia dall'interrogante come da altre fonti e che le condizioni di tensione possono influire grandemente sulla fedeltà e completezza delle dichiarazioni, inducendo il soggetto a rispondere in un modo piuttosto che in altro. La massima cautela, ad esempio, deve essere posta nel rivolgere domande suggestive, che, di solito, si pongono con l'intento di "forzare" la memoria del testimone e di ottenere particolari che da una deposizione spontanea non sarebbero mai emersi. Attraverso le domande di maggiore suggestività non solo si può alterare in misura notevole l'esito di un esame ma si è constatato che il tasso di fedeltà della deposizione tende a scendere nettamente. E' questo il motivo per il quale è sempre buona norma riportare nei verbali il testo della domanda che si pone all'interrogato (v. C. Musatti, Elementi di psicologia della Testimonianza, 1991, pag. 216 e ss.).
E' probabile, inoltre, che il giudizio di scarsa attendibilità che ha colpito le dichiarazioni di alcuni dei testimoni presenti sulla scena del delitto (in particolare quelli che, nell'immediatezza, hanno riferito della presenza, tra gli attentatori, di una donna della quale, invece, Leonardo Marino non ha parlato) avrebbe forse potuto essere diverso. Col passare del tempo, infatti, si verificano comunque delle deformazioni mnestiche che modificano il ricordo fino a provocarne l'oblio. In un caso tanto grave come quello dell'omicidio Calabresi, inoltre, è probabile che sul processo di oblio di determinati ricordi possa aver influito il fattore emotivo ed, in particolare, quel fenomeno che si definisce di ottimismo mnestico. E' noto che la mente tende a rimuovere i ricordi spiacevoli mantenendo quelli positivi.
Sollecitando in modo adeguato dei testimoni che, invece, sono stati tout court bollati come inattendibili, si sarebbe forse potuta accertare meglio la verità processuale e riscontrare con maggiore efficacia gli assunti di Marino.
Nel corso del dibattimento e dopo circa due anni dalle prime dichiarazioni di Marino, è poi emerso che i primi contatti "investigativi" fra il "pentito" e gli uomini dell'Arma erano informalmente iniziati diciassette giorni prima rispetto alla data risultante dagli atti.
Di quanto accaduto in questo considerevole "buco nero" non è rimasta traccia alcuna. Non voglio certo, a questo punto, lasciare spazio ad ingiuste insinuazioni sull'operato dei Carabinieri. Non posso, tuttavia, far a meno di notare che, anche durante la vigenza del vecchio codice di procedura penale, è sempre esistito l'obbligo di documentare tutte le attività di polizia giudiziaria e di rapportare compiutamente all'Ufficio del P.M.. Ogni comportamento anche solo apparentemente difforme è naturale che possa dar adito ad illazioni e domande alle quali, poi, si deve dare adeguata risposta.
Questi dubbi (che, in realtà, non sono i soli che la vicenda desta - v. C. Ginzburg, Il Giudice e lo storico, 1991), scaturendo dalla lettura della parte motiva di una sentenza passata in giudicato, non possono, però, di per sé soli essere posti a fondamento della revisione a favore dei tre condannati. Per la riapertura del procedimento penale occorrono nuovi elementi che, salve le possibilità di una più approfondita rilettura tecnica delle singole prove già acquisite, non sarà molto agevole produrre.
Dopo il messaggio alle Camere, con il quale il Presidente Oscar Luigi Scalfaro ha escluso di poter concedere la grazia ai tre condannati, però, la revisione del processo sembra essere l'unica strada accettabile ed istituzionalmente corretta per verificare criticamente, alla luce delle nuove emergenze probatorie, l'effettiva tenuta logica del complesso delle dichiarazioni di Leonardo Marino.
Non si desidera, certo, che la possibile revisione del processo per l'uccisione del Collega Calabresi si trasformi in un attacco alla magistratura, in un pericolo di delegittimazione del ruolo essenziale svolto dai "pentiti" nella lotta al crimine organizzato (e, per questo, ci preoccupano non poco certe proposte di modifica dell'art. 192 del codice di procedura penale) o debba risolversi in un mero espediente per garantire un'assoluzione "forzata" a persone che, nonostante stiano in carcere, qualcuno continua a considerare privilegiate.
Dalla vicenda di Sofri, Pietrostefani e Bompressi, invece, a prescindere dall'esito delle prossime iniziative giudiziarie della difesa e superata qualsiasi strumentalizzazione politica di parte, dovrebbe poter scaturire un forte movimento di opinione. Sono ancora troppe le persone condannate o sottoposte ad interminabili processi sulla base di elementi insussistenti, di dichiarazioni prive di attendibilità, di riscontri insufficienti e di assurdi teoremi. Costoro, nella maggioranza dei casi, non ricevono manifestazioni di solidarietà e segni tangibili di sostegno morale.
E' proprio a favore dei più deboli (fra i quali, paradossalmente, si annoverano anche diversi funzionari di Polizia) che, quindi, è indispensabile affermare il diritto ad un processo penale, fin dai primi atti, più garantito, tenendo conto che imparzialità e correttezza possono essere realmente assicurate solo se magistratura e polizia giudiziaria continueranno a mantenere un elevato livello culturale e professionale.
Roma, 6 novembre 1997
dott. Giovanni Aliquò
Segretario Nazionale Associazione Nazionale Funzionari di Polizia
Lerner
«Perché mi considero complice.Sfido chiunque a condannare la fuga»
Il giornalista, ex militante di Lc
«Adriano paga perché ha difeso l'onore collettivo della nostra storia»
dal Corriere della Sera, 26 gennaio 2000
MILANO - Dedicato a quelli che stanno scappando
«In questi anni ho visto Giorgio e Ovidio spoliticizzarsi sempre più. Il peso delle loro catastrofi esistenziali ha preso il sopravvento. Persa anche l'ultima speranza, hanno fatto una scelta individuale. Sfido chiunque a condannarli» .
Anche Gad Lerner ha fatto una scelta. Che non si limita all'umana adesione alla fuga di Ovidio Bompressi e Giorgio Pietrostefani, ma va oltre. Lo ha scritto in un editoriale pubblicato sul sito Internet de la Repubblica
«Sappiatevi regolare, quando leggete i miei articoli sono opera di un complice degli assassini del commissario Luigi Calabresi» .
Lerner, perché si ritiene complice? Lei nel 1972 era soltanto un liceale.
«Tutti noi ex militanti di Lotta continua potremmo cavarcela individualmente. Vero, ai tempi del delitto Calabresi io avevo 17 anni, ero uno studente del Berchet. Entrai in Lc l'anno dopo. Ma rifugiarsi in questi argomenti sarebbe indecente»[(i]
E dunque?
[i]«Rivendico l'amicizia verso Sofri, Bompressi e Pietrostefani, e rivendico la nostra corresponsabilità, nel bene e nel male. Adriano poi si è fatto carico di una identità collettiva. Dell'onore di tutti noi ex di Lc. Dunque, il disonore di Sofri mandante dell'omicidio Calabresi è anche il mio. È questo che ho voluto dire a chi mi segue» .
Cosa intende quando parla di corresponsabilità?
«Rivendico in pieno una esperienza giovanile nella quale certamente ci sono stati errori ma non ignominie. Noi che siamo stati in Lc non abbiamo di che vergognarci. Quando si è trattato di misurarsi con problemi drammatici, come quello della lotta armata, abbiamo scelto posizioni impopolari e difficili».
Si sente in debito con Lotta continua?
«Se ho una qualche forma di credibilità pubblica, nasce da quella esperienza. Lotta continua mi ha dato molto più di quello che mi ha preso».
Lei vive la sentenza di Venezia come una sconfitta personale?
«Non solo. Vedo nella sentenza di Venezia la speciale e cocente sconfitta del '68 italiano. In un altro Paese, Sofri oggi potrebbe essere un uomo di governo, com'è per Daniel Cohn Bendit in Francia o Joska Fischer in Germania. Invece è un simbolo del paradosso nazionale un intellettuale che firma in prima pagina per alcuni tra i più autorevoli giornali, e al tempo stesso un uomo destinato a spegnersi in carcere»
Quali sono le ragioni di questa sconfitta?
«La giustizia italiana non è abbastanza forte da saper riconoscere i propri errori».
È convinto che vi sia accanimento contro Sofri?
«Adriano è antipatico a tanti. Perché è molto poco italiano nel rivendicare l'onore collettivo della sua storia, che, lo ribadisco, è anche la mia. La sua è un'assoluta indisponibilità ad accettare il fatto che Lc potesse ammettere l'omicidio politico. Per questo ha pestato molti piedi, per questo è stato punito. E questo è il segno della sconfitta del '68 e del suo isolamento».
La fuga di Bompressi e Pietrostefani avrà ripercussioni anche sulla posizione di Sofri?
«Credo di no. Bompressi e Pietrostefani in questi anni hanno onorato fino in fondo la fiducia nelle istituzioni. Lo Stato ha fatto di tutto per una soluzione all'italiana, alla chetichella. Un esempio prima dell'esecuzione dell'arresto sono stati fatte passare settimane, quasi un invito alla fuga. Ma loro non lo hanno accettato. Non hanno fatto altro che battersi nel rispetto delle procedure. Fino a quando è stato possibile» .
Adriano Sofri forse ci ha messo qualcosa di più.
«In Adriano l'orgoglio è proseguito. Per tutti questi anni ha continuato ad essere il militante che era. Insieme ad Alexander Langer, del quale era davvero il gemello, e con il quale ha vissuto la riflessione sui Balcani, Sofri ha proseguito il meglio dell'esperienza di Lotta continua»
Scusi la brutalità Langer ha scelto di andarsene, Sofri è in carcere.
«Già. "Continuate in ciò che è giusto", se lo ricorda? Era la frase che trovarono scritta su un biglietto in tasca ad Alex il giorno in cui ci lasciò per sempre. Ed è ben triste che mentre Walter Veltroni sceglie di chiudere il congresso Ds proprio con questa citazione, il fratello gemello di Langer sia destinato a morire in galera».
Abbiamo bisogno tutti della verità, anche i colpevoli
Marco Pannella
(Notizie Radicali n 180 del 25 agosto 1988)
SOMMARIO Marco Pannella prende posizione sull'arresto di Adriano Sofri, ex dirigente di Lotta Continua, accusato dalla magistratura di essere il mandante dell'assassinio del Commissario Calabresi nel 1969, ribadendogli la propria fiducia e amicizia. Avanza una proposta cercare, tutti insieme, di far luce sull'assassinio di Calabresi. Intervengono, su quest'ultima proposta, Enrico Deaglio, Michele Serra, Alexander Langer, Luciano Violante, Giacomo Mancini, Alfredo Biondi, Giovanni Russo Spena e Grazia Cherchi.
«Molto di recente mi è stato rimproverato di non essermi mosso tra i primi in difesa di Enzo Tortora. E' inoltre noto che non mi sono mosso tra i primi nemmeno nella difesa degli imputati del 7 aprile. Il Partito radicale, io stesso, saremmo dunque lenti; anzi arriviamo spesso "ultimi". Non è legittimo, però, il dubbio che si arrivi "ultimi" perché -grazie alla serietà del nostro procedere- riusciamo poi ad essere efficaci e risolutivi?
Ciò detto passiamo al "caso Sofri" e all'assassinio del commissario Calabresi. Pochi attimi dopo aver appreso la notizia dell'arresto dei quattro esponenti e militanti di Lotta continua dichiarai pubblicamente la mia fiducia, la mia amicizia profonda per Adriano Sofri ed espressi i dubbi che potevano essere sollevati nei confronti della decisione dei magistrati ai quali esprimevo fiducia sincera, se non identica, non conoscendoli personalmente.
A distanza di due settimane ribadisco con maggior forza la mia grande amicizia e la decisione di fiducia in Adriano Sofri, così come i miei dubbi sull'opera, pur sempre legittima a quel che mi sembra, dei magistrati.
In particolare sta nascendo e rafforzandosi in me il timore che nei due giudici milanesi rischi di prevalere un uso strumentale della carcerazione e delle sue condizioni, specie nei confronti di Bompressi. Non vorrei che si usasse la carcerazione come "strumento" per far "crollare" un detenuto; non vorrei che dall'amore della verità, dal dovere e dal compito di ricercarla, si stesse una volta di più passando alla passione dell'indagine, alla difesa a qualsiasi costo di quel che si è fatto o pensato di dover o poter fare.
Ciò detto, ho una proposta da avanzare, questa e se, insieme, tutti, non solamente gli "ex" di Lotta continua oggi chiamati in causa, cercassimo di far luce sull'assassinio di Calabresi? Se anche le controinchieste le facessimo in questa ottica? Il modo migliore per difendere degli innocenti ingiustamente sospettati, mi sembra, è quello di cercare e, se possibile, trovare i colpevoli.
Certo, a distanza di sedici anni questo è difficile. Ma per l'oggi e per i prossimi sedici anni abbiamo più che mai necessità della verità, tutti; sia i colpevoli di allora, probabilmente essi per primi; sia noi radicali che saremmo loro compagni senza riserve, con riconoscenza, con tutta la nostra forza in questa opera difficile, drammatica e bella. Per un oggi e un domani (se lo volessero) comuni».
Michele Serra
giornalista de L'Unità
...Ieri sul «Corriere della sera» appare un articolo di Marco Pannella, l'hai letto?
Sì, l'ho letto
Ecco che impressione te ne sei fatto?
Ma non lo so, l'ho trovato abbastanza interessante e fantasioso come sono spesso le prese di posizione di Pannella, ho dei dubbi sull'utilità effettiva di questo appello, nel senso che io penso che a modo suo ognuno già adesso dei dirigenti di Lotta continua stia provando a capire cosa è accaduto veramente, la verità, ecco... Devo dire che una lettura maliziosa dell'articolo di Pannella potrebbe fare pensare, e sicuramente qualcuno l'ha fatto, che Pannella invita semplicemente qualcuno a confessare, magari poi offrendogli la tutela di una candidatura in Parlamento.
Alexander Langer
consigliere regionale verde
Devo dire che questa volta, contrariamente al solito, mi trovo in disaccordo con Pannella la sua mi sembra una proposta pericolosa, se sta a significare che uno può difendere la propria innocenza o l'innocenza dei propri amici, solo se riesce a trovare i colpevoli. Lotta continua non esiste più come soggetto politico, sarebbe assurdo ricostruirla in qualche modo, nell'intento di inquisire sui fatti di quegli anni; piuttosto potrebbe essere un soggetto attivo oggi, come il Partito radicale o lo stesso Pannella con il suo alto senso del diritto a promuovere un comitato, una commissione per far luce sull'omicidio Calabresi, ma anche su quello Pinelli; in questo caso, se sapessi qualcosa, darei la massima collaborazione.
C'è una parte dell'articolo che condivido perfettamente e che trovo molto nobile, cioè l'appello morale, quasi evangelico, che Pannella lancia e che è quello che la verità vi renderà liberi rivolgendosi ai possibili colpevoli. Questo incoraggiamento di Pannella, già contenuto in fondo nel suo primo intervento, è importantissimo, soprattutto per chi la verità la professa costantemente; purtroppo credo che la conseguenza peggiore del pentitismo sia quella di aver cancellato la consistenza e la moralità del pentimento, quella di chi dice ho fatto questo, oggi sono cambiato. Io mi sono arrovellato in questi giorni per capire che cosa farei se sapessi chi ha ucciso Calabresi e credo che in definitiva andrei da queste persone e gli direi che forse oggi è il momento per parlare di quello che hanno fatto senza vergognarsi, pagare la giusta pena e pretendere che la società riconosca che può essere cambiato. Gli direi che oggi il clima politico e morale consente questo. Per fortuna non ho da dover sopportare questo onere, posso dire di esser scampato da ciò.
Luciano Violante
deputato comunista
Ho letto con molto piacere questo intervento di Pannella perché è finalmente un'impostazione seria sia nel punto in cui dice che la carcerazione non deve essere uno strumento per convincere a confessare, sia dove poi lancia una proposta costruttiva quella di lavorare perché si trovino gli autori dell'assassinio del commissario Calabresi, ecco questo è un modo molto serio, che fa da contraltare ad atteggiamenti non seri presi sulla stessa questione. L'ombra della vicenda Tortora è ancora dietro la porta, è comunque bene sollecitare la vigilanza di tutti.
Giacomo Mancini
deputato socialista
«Mi fa sempre molto piacere leggere Marco Pannella, seguire i suoi interventi e, anche in questo caso, credo che la sua sollecitudine debba considerarsi valida.
Però non credo che i comuni cittadini debbano impegnarsi in inchieste e controinchieste. I cittadini devono essere messi nelle condizioni di avere fiducia nella giustizia e nei giudici del proprio paese. I cittadini non devono sobbarcarsi l'immane fatica di concorrere a trovare verità che spetta ad altri trovare, o battere piste che è compito di altri seguire. Questo in teoria. Purtroppo in Italia le cose non stanno così, e sembra che lo slogan che abbiamo trovato nella campagna referendaria, quello della "giustizia giusta", sia ancora un'utopia.»
Alfredo Biondi
vicepresidente della Camera
«L'invito di Pannella ha due pregi prima di tutto quello di essere un appello alla coscienza, e poi un appello ad una sopravvenuta ragionevolezza in chi ha vissuto gli avvenimenti di allora con uno spirito ed in una realtà molto diversi da quello di oggi. Lui dice "io credo nell'innocenza di Sofri" forse intende dire che ci crede con l'ottimismo della volontà, con l'affidabilità dei sentimenti, che però non sono sufficienti in questo caso. Io dico che ci spero.»
Giovanni Russo Spena
segretario nazionale di Dp
Mi sembra innanzitutto importante notare come in questa occasione, forze come il Partito radicale e Democrazia proletaria si siano trovate unite e coinvolte nel controllo garantista e democratico dell'inchiesta sull'omicidio Calabresi.
Per quanto riguarda la proposta che Marco Pannella avanza nel suo articolo, ho cercato Marco per parlargli, poiché non credo lui intenda mettere su una vera e propria inchiesta inquisitoria non ne avremmo né il tempo né i poteri. La sua proposta è giusta perché ribalta il senso in cui ci si è mossi finora. C'è un dato di fatto, e cioè l'omicidio Calabresi, dobbiamo partire da questo e scavare fino a quando non troviamo la possibile verità, non invece fare del tutto per dimostrare la colpevolezza degli arrestati.
Grazia Cherchi
scrittrice
«Ho trovato molto allarmante il fatto che di fronte all'esplodere di questo caso angosciosissimo, che bisognerebbe chiamare "caso Marino", molti dei protagonisti di quel periodo tendono a rimuoverlo, decidendo che è meglio dimenticare.
Non posso non approvare quello che ha scritto Marco Pannella, però ritengo disperata l'impresa che lui suggerisce. Intanto perché sono passati sedici anni, e la ricerca dei colpevoli alla distanza di sedici anni, con le forze quasi inesistenti che abbiamo (sebbene io, come ho scritto sul Manifesto, non sia un'apocalittica) mi sembra difficilissimo. Ho detto di non essere "apocalittica" perché credo che ancora, forse per poco, l'Italia sia tra gli altri paesi europei quello che offre delle "sacche" culturali di diversità, di vitalità e vivacità, delle sacche di emarginati, certo, come Pannella o come, nel mio piccolo, io. E' necessario che, come dice Pannella, tutti si scuotano, parlino, scrivano, prendano posizione, non solo gli ex di Lotta continua, ma tutta quella "minoranza morale" che pure esiste nel nostro paese, per dare addosso a quello che sta succedendo, non solo sul caso Sofri, ma sui tanti gravissimi casi che in Italia sono successi, stanno succedendo o succederanno.
E' necessaria la verità, come dice Pannella, verità su Calabresi ma anche su Pinelli, su piazza Fontana, sulle stragi. Che luce sia fatta, ma sia fatta su tutto».
Enrico Deaglio
giornalista
L'articolo di Pannella si può dividere in due parti da un parte la preoccupazione nei confronti dell'operato della magistratura milanese, accompagnata da un sostanziale riconoscimento di correttezza; poi c'è una parte in cui si avanzano dei dubbi sul modo in cui si sta svolgendo l'inchiesta e in particolare sulla strumentalizzazione dell'uso della carcerazione. L'ultima parte è poi una proposta su questo vorrei dire che Lotta continua si è sempre preoccupata di cercare la verità su quanto è successo quel 17 maggio 1972, fin da quando due suoi militanti vennero incarcerati perché scambiati per gli identikit degli assassini. Tanto più oggi, quindi, nella situazione in cui ci troviamo, siamo interessati a trovare la verità. Io non ho nessuna difficoltà ad accogliere l'appello di Pannella, quello che stiamo facendo infatti non è tanto un'inchiesta tesa a difendere gli amici in galera, ma a far luce su quanto successe a quel tempo. Però vorrei aggiungere una cosa, che Pannella sa benissimo, e cioè che tutti i peggiori delitti, le peggiori stragi, tutto quello che di più terribile è accaduto in Italia negli ultimi trent'anni, è tutto rimasto insoluto, tutto ancora avvolto nel mistero. Abbiamo sì bisogno di verità, ma non solo per l'omicidio Calabresi. Sono sicuro che con Marco potremo fare delle cose insieme su tutta questa storia.
Alberto (spero non unico lettore)
prego
Sono pagato per questo!))
ciao
E se Sofri fosse innocente?
di Sandra Bonsanti
23/07/03
Oggi che finalmente la protesta per il caso Sofri scuote le coscienze di mezza Italia e che nonostante le bizze dei ministro Castelli appare sempre più difficile continuare a fare come se nulla fosse, è forse arrivato il momento di dire sul serio se gli si crede oppure no. Ebbene, io gli credo, e questa mia fiducia non può che essere, a fronte di una condanna definitiva, che un atto assolutamente personale impegno me stessa, e cercherò di spiegare brevemente le ragioni di questa mia posizione. Altri possono schierarsi per la sua liberazione con motivazioni diverse è un altro, è molto diverso da colui che guidava Lotta Continua in quegli anni, oggi è un buon maestro, serve un atto di pacificazione rispetto ad allora...e cosi via.
Io parto e scrivo da cronista, ero giovane e alle prime armi quando mi trovai coi taccuino in mano curva sul sangue dei commissario Calabresi e la sera stessa ascoltai le frasi scellerate di soddisfazione espresse da alcuni dei movimenti extraparlamentari. Ero giovane quando seguii le prime indagini milanesi, confuse, incredibilmente rozze, altalenanti tra la voglia di ìncastrare Camilla Cederna e la ricerca dei mandanti ed esecutori tra i ragazzi fascisti di San Babila. C'era come una scelta di girare attorno, di non voler scavare, di non affrontare di petto la situazione. Cera già la paura di trovarsi sul cammino la solita storia italiana, di deviazioni e complotti.
E' passata quasi una vita, da allora, fino al momento in cui per Sofri si chiusero i cancelli dei Don Bosco di Pisa, e decidemmo, col giornale che in qualche modo gli era il più vicino, se non altro dal punto di vista redazionale, Il Tirreno, di ricominciare da capo, di seguire la storia fin dall'inizio, dal momento cioè in cui era esplosa la confessione di Leonardo Marino, altro personaggio 'locale", nel senso che lavora e vive ai confini tra Toscana e Liguria.
C'era e c'è, nella vicenda che ancora oggi tiene Sofri in galera, una forte dose di Toscana tutto cominciò, hanno detto i tribunali, proprio a Pisa, un giorno dei 1972 ... Lui, Adriano, che oggi tutti conoscono ed apprezzano per le cose che scrive e pensa, non ci ha mai aiutato un gran che, nella fatica di far tornare al loro posto i tasselli mancanti. Nei lunghi colloqui che ho avuto con lui in questi anni non è mai andato oltre una generica ammissione è possìbile che il delitto sia nato all'interno della estrema sinistra; e un altrettanto generico rammarico nei confronti dei Pci, reo di aver cavalcato le confessioni di Marino che venivano a confermare antichi sospetti ed accuse.
Io non credo alla confessione di Marino c'è troppa oscurità nella vicenda che riguarda il suo rapporto con i carabinieri, l'inizio e la molla dei suo pentimento, lo scambio reciproco di interessi, l'ambiente ìn cui lavorava e viveva l'ex compagno di Lc, la convivente maga che appuntava su un suo quaderno frasi misteriose sulla situazione (ma non fu riascoltata in tribunale sulle molte incongruenze), il religioso e i politici che furono vicini a Marino. Non è la storia di una limpida confessione, non c'è un pentito che abbia rìschiato qualcosa. Ci ha guadagnato, oh, si, e nemmeno un giorno dì galera per lo stesso reato per cui un altro è ancora dentro. Insomma la base sulla quale si fonda l'accusa che ha fatto condannare Sofri a 22 anni dì carcere è una base fragilissima, forse addirittura marcia, ancora da scandagliare fino in fondo. Qualcuno, si è detto a un certo momento, sarebbe stato pronto ad ammettere che ci poteva essere stato un "equivoco", all'inízio di tutto. Forse non era stato proprio un ordine, quello di Sofri; forse non era stato proprio Sofri ... Un equivoco? Ma in che punto della storia? Allora, nel 1972, o più tardi (ma quando esattamente?) quando Marino offri le sue rivelazioni che tanti soprattutto a sinistra ritennero assolutamente verosimili?
Allora, siccome c'è troppo buio nella vicenda che ha segnato l'inchiesta sull'uccisione dei commissario e siccome non ci sono elementi o prove oltre alle cose orrende che scrivevano quelli di Lc e alle parole di un solo pentito, e siccome sull'altro piatto della bilancia c'è chi non chiede la grazia e soffre anni e giorni e ore di carcere per ribadire la propria innocenza, io credo che il caso Sofri sia un grave errore giudiziario, di quelli che resteranno nella storia. La magistratura, gli inquirenti possono aver sbagliato non credo affatto che ci sia stata malafede, certo non era facile valutare materiale investigativo raccolto tanti anni dopo e formatosi all'interno di quel mondo di intrighi, vendette personali e politiche e sortilegi.
Non esistono motivi oggi per non dare la grazia a Adriano Sofri se è innocente deve essere liberato perché è innocente; se non lo è vale tutto quello che da tanti si è detto su ciò che è diventato e per ciò che rappresenta. Non un "raffinato intellettuale", ma un uomo di seria e sofferta meditazione. Un solitario, scomodo, un tantino arrogante e non a tutti simpatico ma vero. Esclusa dunque ogni buona ragione, solo ottusi pregiudizi o meschini e inconfessabili calcoli possono ritardare l'iter che permetta al Capo dello Stato di esercitare quel diritto di grazia che a norma della Costituzione appartiene esclusivamente e senza condizioni a lui.
Grazie davvero Mario per questo thread e l'altro su Pinelli.
"Insisto su Sofri non c'è prova..."
Enrico Deaglio, L'Unità, 14 novembre 1995.
L'Unità mi aveva telefonato venerdì scorso per chiedermi, preventivamente, un commento alla sentenza per il processo Calabresi prevista per sabato mattina, 11 novembre 1995. Avevo risposto che l'avrei scritto, e anche lungo, se li avessero assolti, ma non l'avrei scritto se li avessero condannati. Pensavo però che li avrebbero assolti e che quindi avrei scritto. Sabato alle 11,05 ho saputo che avevano condannato Sofri, Bompressi e Pietrostefani a 22 anni di carcere. Sono rimasto molto colpito - "turbato", "annichilito" sono dei possibili sinonimi - e non ho scritto.
Dopo un dibattimento assolutamente anonimo, disertato dai cronisti e dal pubblico, la Corte si era ritirata in camera di consiglio, a Como, lunedì 6 novembre alle 14 ed aveva discusso del caso fino a venerdì notte. L'ultimo atto del processo (il terzo processo di appello in sette anni) era stato una vibrata dichiarazione di innocenza di Adriano Sofri. Aveva parlato per un'ora e quaranta minuti, appassionato come al solito, ma questa volta anche con un filo evidente di esasperazione nella voce. L'accusa contro di lui, da sette anni, è sempre stata una sola aver dato a Leonardo Marino il mandato di uccidere il commissario Luigi Calabresi, in una manciata di minuti, ai margini di un comizio a Pisa il 13 maggio 1972, giorno in cui migliaia di persone protestavano contro l'uccisione dell'anarchico Franco Serantini.
Questi nomi e queste circostanze probabilmente non fanno scattare nei più giovani alcun ricordo. Il mio invece è vivido pochi giorni prima Franco Serantini era stato fermato, durante scontri di piazza a Pisa tra manifestanti e polizia. Era riemerso dai locali del carcere di Don Bosco, cadavere, con un referto di "morte per insufficienza cardio respiratoria". (Allora si diceva così "Gli si è fermato il cuore").
Franco Serantini era un orfano e nessuno poteva chiedere indagini in nome suo. Però, in base ad una vecchia legge, un comitato cittadino ebbe il permesso di far partecipare un perito di parte all'autopsia. Quel perito fu il professor Durante, dell'Università di Roma. Quando lo incontrai, molti anni dopo, e gli chiesi che cosa aveva visto sul corpo di Serantini, mi disse "In tutta la mia carriera, io non ho mai visto un cadavere così intriso di sangue, con ecchimosi così vaste e diffuse". Franco Serantini era stato picchiato nella questura di Pisa, poi trasportato in carcere senza cure e lì era stato lasciato morire.
Il 13 maggio 1972 a Pisa si parlava di questo, dolorosamente. Le manifestazioni erano due una del Pci, con un comizio di Giancarlo Pajetta, una di Lotta Continua e degli anarchici, con comizio di Adriano Sofri. Pajetta aveva allora 61 anni; Franco Serantini 18; Adriano Sofri, 29 anni. Quel giomo piovve insistentemente e fortemente per tutto il tempo delle manifestazioni, cosa che tutti ancora oggi ricordano, ma che stranamente Marino non ha mai ricordato.
Quattro giomi dopo, alle 9,15 di mattina, a Milano, uno sconosciuto uccise per strada il commissario di polizia Luigi Calabresi. La vittima era nota da tre anni al grande pubblico aveva condotto le indagini per la bomba di piazza Fontana indirizzandole contro gli anarchici, non si sa ancora oggi se per suo errore personale o per ordini dall'alto. Nel pomeriggio del 12 dicembre era andato a prelevare uno degli esponenti anarchici più noti a Milano, il ferroviere Giuseppe Pinelli, e l'aveva portato in questura. Lì l'avevano tenuto per settantasei ore senza dormire e con poco mangiare, accusandolo di aver messo la bomba alla banca. Il 16 dicembre, a mezzanotte, venne comunicato dal questore Guida e dal commissario Calabresi, che un certo Pinelli - fortemente indiziato - si era lanciato dalla finestra del quarto piano della questura di Milano, gridando "è la fine dell'anarchia". Non era vero. Negli stessi giorni la questura confezionava un colpevole per la bomba, l'anarchico Pietro Valpreda. Il movimento Lotta Continua, allora appena nato, fu il più attivo (anche temerario, data la codardia della stampa di allora) nel condurre una battaglia di informazione contro quella che definimmo allora "strage di Stato". Sembra proprio - anche dalle notizie di oggi - che avevamo ragione. Chi vuole trovare, per esempio, negli articoli di allora, il nome Delfo Zorzi, oggi sulle prime pagine, lo trova. Il giornale Lotta Continua pubblicò - spesso con linguaggio truce e inaccettabile, vignette e articoli contro il commissario Calabresi, sfidandolo alla denuncia per diffamazione, che alla fine gli fu imposta dai suoi superiori. Si andò al processo e l'avvocato Lehner, difensore del commissario Calabresi, ricusò il giudice Biotti sostenendo che aveva già comunicato ad altri la sua convinzione colpevolezza per Calabresi nella morte di Pinelli. La sentenza finale di quel processo venne solo tre anni dopo l'omicidio del commissario, nel 1975, a firma D'Ambrosio vi si legge che Pinelli morì per "malore attivo" (definizione che non compare nei testi di medicina) dopo tre giorni di maltrattamenti, che Luigi Calabresi era innocente e che contro il questore Allegra non si procedeva solo per sopraggiunta amnistia.
Il 6 novembre 1995, nella sua dichiarazione finale, Sofri aveva raccontato - per l'ennesima volta, ma questa volta con la voce rotta - tutte le colossali incongruenze del racconto di Marino e aveva chiesto alla Corte che cosa, umanamente, avrebbe dovuto fare di più per provare la sua innocenza. Aveva infine aggiunto "Non cercate una via di uscita concedendomi delle attenuanti; se mi volete condannare, fatelo apertamente. Ma quando scriverete le motivazioni, visto che non potrete dire di avere delle prove, per favore scrivete così di riffa o di raffa, Sofri è colpevole". I due giudici togati ascoltavano attenti, i giurati popolari prendevano appunti.
Io sono amico di Adriano Sofri da un quarto di secolo e quindi non chiedetemi se lo considero colpevole o innocente. E' innocente. Non è il mandante dell'omicidio Calabresi, non ha mai dato un mandato di uccidere a nessuno, lo so per certo. Se lo avesse fatto, allora, lo avrebbe detto. Il mio stupore per la sentenza di sabato scorso nasce anche da questo che, guardando le espressioni dei giurati, davvero mi sembrava che fossero anche loro convinti. Mi dicevo penseranno che è un arrogante perché prende di petto la Corte; penseranno che è esasperato dopo sette anni di processi, ma non possono non accorgersi che è sincero. Mi sono sbagliato nella fisiognomica, tutto qui.
Temo di sapere che cosa sarà scritto nella motivazione della sentenza. Ci sarà scritto che la seconda Corte d'Assise d'Appello di Milano è stata chiamata dalla Cassazione a riformulare la precedente sentenza perché illogica. La precedente sentenza aveva assolto tutti, l'accusatore Leonardo Marino compreso, ma aveva motivato quella decisione in maniera volutamente assurda per 125 pagine sostenendo che il pentito Marino era del tutto attendibile, nelle ultime cinque dicendo che però non si erano raggiunte prove della partecipazione di Marino all'omicidio Calabresi, visto che i testimoni oculari avevano raccontato tutt'altro svolgimento dei fatti. 125 pagine contro cinque, ha concluso la Corte di Cassazione, quindi l'illogicità sta nelle ultime cinque. Quella motivazione di sentenza, firmata dal giudice a latere Pincioni lasciò tutti di stuccco, non solo me. Il giudice Pincioni era stato in realtà messo in minoranza dal resto della Corte ma fu proprio lui a scrivere le motivazioni, stilando quella che in Sicilia è nota come "la sentenza suicida", quella che si scrive apposta perché non superi il vaglio di merito della Cassazione. Ora quindi il giudice De Ruggiero - conosciuto a Milano come intelligente, sensibile e garantista - incaricato della nuova motivazione, scriverà che, come ha autorevolmente dettato la Cassazione, Marino deve essere considerato credibile e quindi le prove devono essere considerate sufficienti. Tutto questo avverrà in nome del popolo italiano, che sul caso Calabresi è stato piuttosto ondivago. In Corte d'Assise e poi in Corte d'Appello ha volto il pollice in basso, condannando; poi le Sezioni unite della Cassazione hanno detto che un pentito come Marino vale, giuridicamente, meno di niente; nella successiva Corte d'Appello ha assolto (motivando - in nome del popolo italiano - come abbiamo visto); poi una nuova corte di Cassazione (inferiore per prestigio a quella delle Sezioni unite) ha detto che, no, il pentito è buono e una ulteriore Corte d'Appello ha appena detto che Sofri, Bompressi e Pietrostefani si devono fare 22 anni di galera. Da sette anni non c'è alcun atto nuovo in questo processo, accusatori e difensori ripetono gli stessi argomenti. Mi sembra di capire che esistono perlomeno due popoli italiani. E che vige il maggioritario, anche in giustizia. Una volta governi tu, una volta governo io. Peccato che quando assolvono Sofri, poi invalidino il risultato.
Leonardo Marino (ufficialmente prescritto e quindi ormai intoccabile) è riuscito in un'opera notevole ha fatto giurisprudenza. Lui, dichiarato inattendibile dalle Sezioni unite della Cassazione, è ora non solo attendibile, ma l'incarnazione della verità. D'ora in poi la sentenza di Milano potrà essere usata come precedente per avallare condanne sulla sola parola, sui ricordi dubbiosi, sulla personalità ambigua di una sola persona, peraltro ufficialmente non più perseguibile. Mi chiedo se negli annali della magistratura nell'Italia repubblicana esistano casi, nello stesso tempo così diabolici e loschi, come quello appena descritto. Se ci sono, non ci fanno certo onore. Oppure ditemi se, nell'attuale Italia giudiziaria - da Tangentopoli ai processi per mafia - esistono inchieste e processi in cui si viene condannati sulla base di un solo chiamante in correità, della fatta di Marino, per giunta.
Pur essendo un esperto, ho qualche domanda da fare un magistrato che stende una sentenza suicida, come viene considerato? Viene sanzionato o questo diventerà uno dei punti di merito della sua carriera? I giurati popolari che vedono stravolto il resoconto del dibattimento cui hanno partecipato, possono protestare? E se no, come possono fare sapere che cosa veramente è successo? Il Csm non dovrebbe esaminare tutto il caso? Non dovrebbe convocare i giurati popolari e ascoltarli? Ci sono forse, a proposito del processo Calabresi meccanismi di potere nel palazzo di giustizia di Milano che vincolano i collegi giudicanti all'impostazione originaria della Procura? Nel 1988, quando tutta questa storia cominciò, io sentii parlare dell' esistenza di una prova di accusa definitiva ma "non ostensibile". Ne ha sentito parlare qualcun altro? Se sì, perché non lo dice?
Adriano Sofri, nei sette anni di questo processo, è sempre stato sincero. Non gli è mai stata contestata una menzogna, mentre menzogne su di lui ne sono state dette tante. Ha ricostruito - spesso in solitudine e con sofferenza - clima dell'epoca, convinzioni personali poi mutate, andamento dei fatti. E' stato puntiglioso fino alla minuzia e non è mai stato smentito. Il suo accusatore, come tutti riconoscono, si è invece contraddetto e ha più volte ammesso di aver detto il falso. Qualcuno mi può quindi spiegare perché Sofri è stato condannato? Nella scorsa motivazione è stato scritto che non potevano esserci prove certe della presenza di Marino sul luogo dell'omicidio e che la sua versone era contraddetta dai testi oculari. Ora dovranno scrivere, senza nessun fatto nuovo emerso, che i testimoni oculari si sbagliarono. Coraggio, signor giudice relatore. Ma, ripeto, se qualcuno mi spiega bene che è giusto che sia così, me ne farò una ragione. Tempo due o tre giorni e tutta questa storia sparirà dai giomali. L'interesse per il caso è effimero, è passato molto tempo e nessuno si ricorda bene che cosa succedeva in Italia a quel tempo. A me piacerebbe, invece, che si ricordasse con precisione. Che si arrivasse alla verità sulla bomba, sul perché vennero pervicacemente perseguitati gli anarchici, sull'omicidio del commissario Luigi Calabresi una verità che non è quella di Leonardo Marino.
Ma sono piuttosto pessimista, perché, in questa Italia 1995, la verità su quegli anni è ormai autorizzato a dettarla proprio Leonardo Marino. Lui l'hanno prescritto, ma purtroppo lo stanno prescrivendo anche a me, come una medicina che dovrò prendere ogni giorno, come antidoto alla possibilità che i miei ricordi continuino a sbagliarsi.
Marco Pannella “Dietro lo sciopero della fame deve esserci speranza, non disperazione”
Fernando Proietti
dal Corriere della Sera, 31 ottobre 1997
ROMA – “Uno sciopero della fame non violento deve essere una scelta di speranza e non di disperazione”.
Marco Pannella parla con pacatezza e anche con sofferenza di Adriano Sofri, recluso insieme a Ovidio Bompressi e Giorgio Pietrostefani nel carcere di Pisa. Tutti e tre oggi sono in attesa di una grazia, forse impossibile, e di un indulto che sembra sempre più lontano nel tempo. E chi meglio di lui, il radicale che quasi per "una autentica pulsione intellettuale" volle adottare l'effigie del mahatma Ghandi per il suo partito (come scrive Massimo Teodori nel suo libro su Pannella "eretico liberale"), sembra autorizzato a dire la sua su forme di lotta politica, come lo sciopero della fame, inusuali nel nostro Paese. Una scelta nonviolenta impensabile per quella generazione che ha attraversato la stagione turbolenta e spesso anche violenta del Sessantotto. Quanto alla vicenda Sofri-Calabresi, Pannella sollecita un "bagno di verità" da parte di chi sa, e magari è stato pure testimone ("sono tantissimi", rileva Marco), sulle morti di Pinelli e Calabresi. E a giudizio di Pannella la via maestra per soddisfare questo “bisogno” di verita è solo una la revisione del processo.
Allora, Pannella, cosa ha da imparare Sofri dalla lunga serie di scioperi della fame e della sete, tra cui uno particolarmente drammatico nel '71, da lei messi in atto per rompere il muro del silenzio che circondava l'azione dei radicali?
"Adriano è forse l'unico politico e giornalista italiano che, almeno a partire dal '76, abbia riflettuto, scritto, e da par suo, sui nostri e sui miei scioperi della fame. Spesso ci è stato accanto, ci ha difeso. Per quel che riesco a comprendere, oggi la loro iniziativa nonviolenta è di straordinaria mitezza e forza".
Perché parla di iniziativa "mite"?
"Perché Sofri, apparentemente, non chiede nulla. O nulla di preciso. Chiede, semmai, che siano lo Stato e gli altri, in nome dei quali la sentenza è stata pronunciata, a trovare una soluzione precisa ai problemi posti da una vicenda violenta e condotta da istituzioni civili e giudiziarie altrettanto violente. Ecco, direi che Sofri si rivolge a tutti coloro che sanno, che conoscono, tutta o in parte, la verità storica di quegli anni. E chiede che questa verità storica diventi anche verità giudiziaria. Insomma tocca agli altri, anche allo Stato deviato, imporre la revisione del processo".
Ma cosa può suggerire Pannella a Sofri di fronte a una forma di protesta che alla fine potrebbe avere anche un esito tragico?
"Uno sciopero della fame deve essere una scelta di speranza e non di disperazione. Quindi si tratta di una scelta sicuramente intransigente e rigorosa ma, al tempo stesso, Sofri e i suoi amici debbono guardarsi bene dal pericolo di finire in quella che io definisco una sorta di accanimento psicologico, di voglia di solitudine a cui, e lo so bene, può portarti il digiuno. Per questo penso abbiano un grande valore gli atti di amicizia, di dialogo e di solidarietà nei confronti di chi effettua un digiuno nonviolento".
Ma Sofri e i suoi compagni come potranno evitare di entrare in quello che lei chiama una sorta di "accanimento psicologico" autodistruttivo?
"I consigli si danno, oppure no, soltanto se richiesti. Anche quelli tecnici di sopravvivenza. Io posso dire che amo Sofri e ho fiducia nella sua tenuta psicologica e in quella dei suoi compagni. Ad Adriano, inoltre, porto molta riconoscenza. Il consiglio a dire tutta la verità posso rivolgerlo, invece, agli altri. In primo luogo a quanti hanno operato nelle istituzioni della giustizia e della polizia. Penso, inoltre, alle decine di persone che sono state, necessariamente, testimoni dell'accanimento, se non dei reati, che poi sono risultati determinanti per trasformare il processo Sofri in una vera e propria esecuzione da parte di giustizieri violenti e, a volte, anche vili. Ma la verità va ricercata pure sulla morte per omicidio, preterintenzionale o premeditato, di Pino Pinelli. Abbiamo grande bisogno di verità contro l'Italia di ieri e di adesso".
Quella sentenza surreale che ci lascia in carcere
di ADRIANO SOFRI
Caro direttore, benché non avessi pronunciato una parola sulla sentenza che lo scorso 18 marzo rigettò la nostra richiesta di revisione del processo, la "Repubblica" del 21 marzo mi attribuì fra virgolette due aggettivi "arrogante e proterva". Ne fui infastidito più del normale. Potrei infatti quasi condividere la frase che ripetono tanti altri. I quali dicono "Le sentenze vanno rispettate". Io penso che gli aggettivi vadano rispettati. Meglio risparmiarli.
Dopo la sentenza, io ho ancora una volta un insieme di indizi per farmi un'idea dei suoi autori, cioè dei tre giudici di cui fino a quel giorno conoscevo poco più dei nomi. Dunque penso ora che quei tre giudici siano "arroganti e protervi"? Non lo penso, e del resto quel genere di definizione non avrebbe alcun interesse. Che cosa penso, piuttosto? Proverò a spiegarmelo, e prima riassumerò le minime notizie che avevo ricevuto prima del giudizio. Del presidente, Riccardi, che è un emiliano. Del consigliere Franciosi che è persona eccentrica, come mostrò nel suo momento di notorietà, quando escluse l'illecito nel comportamento del giudice Crivelli (quello che disse al pm Colombo la frase sull'impiego del "bastone e della carota", e poi decise comunque di astenersi dal presiedere il processo contro Berlusconi e la Finanza) Franciosi si divertì a deplorare il comportamento del collega, procurandosi un procedimento disciplinare da parte di Flick. Dimenticavo si dice anche di Franciosi che sia aderente alla massoneria, circostanza che, secondo una recentissima Cassazione, autorizza gli imputati a ricusare i giudici. A noi non era sembrato che ce ne fosse ragione.
Il terzo giudice, Budano, è un cattolico, preso a prestito per questa occasione dal Tribunale civile, cui appartiene, dopo aver fatto parte del Tribunale di sorveglianza, raccogliendo in quella funzione stima e apprezzamento. Questo è tutto.
Qualcosa di più, anzi, dettagli forse illuminanti, sono venuti poi dagli articoli di giornale successivi alla sentenza. Un po' come quando, finito lo spettacolo, gli attori appena struccati compaiono a prendere gli applausi e si mostrano nelle loro fisionomie ordinarie. Ma passiamo prima attraverso la sentenza.
Cominciamo dal passo che si è guadagnato le citazioni di tutti, incredule o costernate quello in cui si spiega la convinzione di un testimone oculare di aver visto una donna coi capelli lisci al volante dell'auto dell'attentato, con i folti baffi posseduti da Marino. "Neppure è assurdo ritenere che - in un flash-back - Pappini si sia fatto l'idea della particolare acconciatura del conducente dalla percezione visiva dei baffi di Marino". Che cosa penseremo della decisione dei giudici di scrivere una simile frase? Che fanno sul serio? Così sembrerebbe, dal momento che hanno voluto premettere quel "non è assurdo", che guasta la pienezza dell'assurdità; come chi, invece di dire "Un asino vola", ripiegasse su "Neppure è assurdo ritenere che un asino voli". D'altra parte è escluso che tre persone adulte e in buona salute sottoscrivano seriamente quella freddura. Dunque, per ora, dobbiamo concludere che si siano mescolate una vena di sciocchezza surreale con una di provocazione.
Ma vediamo come la sentenza risponde alla questione del giudice Lombardi e del capitano dei Ros Dell'Anna. Nel 1992 quest'ultimo aveva consegnato al pm di Trapani un rapporto in cui riferiva di aver conferito a Milano con Lombardi. Lombardi, già giudice istruttore nel nostro processo, gli avrebbe detto che Mauro Rostagno era stato ucciso per impedirgli di parlare contro i suoi compagni nell'indagine su Calabresi, che lui era certo della responsabilità nostra e che disponeva di una fonte confidenziale. Quando, nel 1996, quell'infame rapporto emerse dalle carte dell'istruttoria trapanese, Lombardi smentì con veemenza, affidandosi all'Ansa, tutto il resoconto dell'ufficiale dei carabinieri, accusandolo di averlo inventato di sana pianta. Io denunciai ambedue denuncia che non è avanzata di un millimetro, né a Trapani, né a Brescia - competente per il giudice. L'istanza di revisione sollevava l'enormità del caso. Se si fosse accertata vera la smentita di Lombardi, era provata la fabbricazione di un documento falso e calunnioso da parte di un alto ufficiale dell'Arma. Se si fosse accertato vero il racconto dell'ufficiale, era provato che il giudice istruttore Lombardi, negandolo pubblicamente, si era fatto guidare da un pregiudizio falso e gravissimo contro i suoi imputati, aveva accreditato fonti confidenziali "non ostensibili" e sottratte a ogni verifica processuale, e aveva infine mentito sconfessando il rapporto del capitano.
La gravità irrimediabile dell'episodio è evidente, almeno quanto quella del suo mancato seguito, da due anni a questa parte. Che cosa dicono i tre giudici della revisione? Che non c'è problema... "Sembra quasi che formulare ipotesi investigative costituisca un comportamento riprovevole (...). Se, nell'oscuro contesto dell'epoca (sic!) il dottor Lombardi ha ricollegato i delitti Rostagno e Calabresi, ha fatto uso nulla più che del suo potere/dovere (...). Perché, poi, il Lombardi abbia ritenuto di smentire il contenuto del colloquio col capitano Dell'Anna è fatto che riguarda lui solo e potrebbe essere stato determinato dalle più svariate ragioni di opportunità".
Così, dopo aver aspettato invano per due anni, vengo a sapere che i giudici della revisione smentiscono il giudice Lombardi che aveva smentito il capitano Dell' Anna, e che questi non sono fatti miei. Forse proterva (ma che importa), questa risposta mi sorprende a prima vista perché rinuncia a negare ciò che viene da noi denunciato, e, con una notevole disinvoltura, lo ammette, per aggiungere subito dopo e allora? Un giudice istruttore dà per sicure accuse gravissime e calunniose, evoca una fonte confidenziale, dice dettagliatamente il falso sul comportamento di Rostagno all'indomani del nostro arresto nel 1988 (e del suo coinvolgimento), e quattro anni dopo nega di aver mai detto niente al carabiniere e allora?
Vediamo subito che questo non è un caso singolo i tre giudici hanno seguito questo metodo, che chiamerò del "sì, e allora?", in altre e non lievi circostanze. Principale, quella che riguarda Antonia Bistolfi, compagna di Marino. Da dieci anni, io argomento le seguenti cose a) che la Bistolfi mente quando dice di aver appreso solo nel luglio 1988 che Marino si dichiarava coinvolto nell'omicidio Calabresi; b) che c'era un chiaro parallelismo fra le mosse di Marino e della Bistolfi che avevano preceduto e preparato la "confessione"; c) che i racconti della Bistolfi erano inficiati da una evidente esaltazione.
Per dieci anni i giudici favorevoli all'accusa hanno risposto a) che la Bistolfi diceva il vero quando si dichiarava ignara di ogni preteso coinvolgimento di Marino; b) che non c'era alcun "parallelismo" fra i due (nei colloqui rispettivi col senatore Bertone e con l'avvocato Zolezzi, nei rapporti coi carabinieri, ecc.); c) che la Bistolfi era del tutto affidabile e dunque che la Bistolfi era un'autentica fonte indipendente a riscontro di Marino, e non, come nelle mie "insinuazioni", compartecipe della costruzione della sua accusa.
Nell'istanza di revisione, abbiamo esibito un diario della Bistolfi risalente alla primavera del 1988, che consente di valutare con un'inedita abbondanza e certezza di documentazione tutti i punti citati. Risposta dei tre giudici della revisione a) "tutto è possibile, ma la Corte è propensa a credere che i due si fossero confidati e, addirittura, che la confessione sia maturata in ambito familiare"; b) "Vi è un indubbio parallelismo temporale tra il comportamento del Marino e quello della Bistolfi"; c) non si può diagnosticare l'equilibrio di una persona "sulla base dell'esame di scritti che riportano elucubrazioni poetiche (invero un po' esaltate)".
"Elucubrazioni poetiche" a parte (si tratta di un diario quotidiano di annotazioni astrologiche, erotiche, analitiche), su tutti i tre punti i giudici della revisione voltano tranquillamente una pagina lunga dieci anni e danno ragione a tutti i miei argomenti. "Un po'" di ragione. "E allora?". Farò solo un altro esempio, per ragioni di spazio, e perché delle questioni principali si occupa la nostra difesa. L'ultima sentenza di appello (1995, quella resa poi definitiva dalla Cassazione) aveva scritto che Marino non sarebbe venuto alla manifestazione di Pisa del 13 maggio 1972, quella per Serantini, se non per ricevere il mio mandato, dato che non risultavano altri militanti venuti da fuori regione; e questo era un riscontro a Marino. In verità questo era uno strafalcione dei giudici, che non si erano neanche accorti del fatto che, per venire a Pisa, Marino stesso aveva raccontato di aver preso un passaggio su un'auto di altri militanti di Torino. Così come figuravano nelle carte di polizia persone e gruppi venuti da altre zone d'Italia. I tre giudici della revisione dicono subito che la sentenza d'appello 1995 ha compiuto "una considerazione errata" ma per aggiungere che è irrilevante, dato che la sentenza di primo grado, cinque anni prima, aveva scritto esattamente il contrario "Quella manifestazinoe aveva un carattere nazionale...". Tanto, che Marino fosse venuto a Pisa, era dimostrato. Già ma il "riscontro" dichiarato dalla Corte d'appello pretendeva di riguardare le ragioni per cui Marino era venuto. In generale, c'è qui uno degli innumerevoli esempi in cui le sentenze, pur di condannare, hanno scritto tutto e il contrario di tutto (è successo platealmente per le ricostruzioni dei miei movimenti dopo il comizio pisano, in particolare).
Ora, quando i giudici della revisione spiegano, con un certo fastidio professionale, che la revisione non può riferirsi alla sentenza poi passata in giudicato, ma deve confrontarsi con ciò che è stato detto in tutte le sentenze, una conseguenza è chiara è stato detto tutto e il contrario di tutto. Socrate fu accusato, a torto, di far apparire forti le ragioni più deboli. Ora, questo può ancora essere ammesso per i discorsi delle parti dell'accusa, della difesa, mai dei giudici. Facciamo il caso ("nemmeno tanto assurdo") che dei testimoni oculari dell'omicidio Calabresi avessero visto al volante dell'auto degli attentatori un uomo coi capelli scuri e folti baffi neri, e che sedici anni dopo una donna bionda si fosse presentata a sostenere di essere la guidatrice di quell'auto - su mio ordine, naturalmente. I tre giudici della revisione avrebbero scritto "Neppure è assurdo ritenere che - in un flash-back - Pappini si sia fatto l'idea della particolare acconciatura della conducente, cioè dei capelli neri a cespuglio e dei folti baffi neri, dalla percezione visiva dei capelli biondi, lisci e svasati della rea confessa". Avrebbero potuto scriverlo? L'hanno scritto. Per completezza, ricordo che, nel tempo, una serie di donne sono state sospettate e indagate come l'autista dell'attentato, e una arrestata e a lungo incarcerata.
Dunque, che idea mi faccio di giudici che procedono in questo modo? Ancora non so rispondere. Essi mostrano di essere disposti a ricorrere agli argomenti opposti e perfino all'assurdità per giustificare una conclusione così perentoria come la dichiarazione di inammissibilità di una revisione processuale. È chiaro - per me è chiaro - che non si deve fare così. Ma che cosa li ispiri, è più difficile capire. Probabilmente, sono convinti che Marino dica la verità, e che noi siamo colpevoli. Però questo non giustifica il ricorso ad argomenti manipolatori o apertamente assurdi. Non lo giustifica in una sentenza dopo un processo, tanto meno in un esame preliminare di ammissibilità di una revisione processuale. Esistono per questo regole e criteri per i giudici, senza le quali la loro presunzione di colpevolezza, o di innocenza, per sincera che sia, può agire come il più irresistibile degli arbìtri e dei pregiudizi. Inoltre, è umano immaginare che i tre giudici sentano il peso di doversi pronunciare sull'operato di loro colleghi e superiori della porta accanto, e forse di loro amici. In particolare, nel nostro tortuoso caso, si sono impegnati nell'accusa contro di noi, in modo formale e compatto, sia la Procura che la Procura generale, alcuni giudici togati d'assise, e ben tre (cioè tutte) Corti d'assise d'appello per giunta con strascichi polemici e giudiziari durissimi, come a proposito della sentenza suicida, o del pregiudizio del presidente dell'ultima Corte d'appello, indagato a Brescia su mia denuncia. Che tutto questo contesto, questo "ambiente", non influenzi i tre giudici della revisione, è del tutto possibile, ma non del tutto probabile. Si può dire, che per accogliere la nostra istanza, i giudici avrebbero dovuto ricorrere a un di più di serenità e di indipendenza personale.
Ce l'avevano? Due giorni dopo il deposito della sentenza, "Il Giornale" - che aveva condotto una vera campagna contro l'eventualità della revisione - pubblica un articolo che nel sommario promette "il racconto dei magistrati che hanno bocciato la revisione". Il titolo è "Noi, assediati nel bunker della Corte d'appello". Il cronista, Stefano Zurlo, spiega che "rompere l'assedio era impossibile, ma almeno un tentativo per uscire dall'isolamento del bunker i giudici l'hanno fatto". Il 17 marzo, alla vigilia del deposito annunciato della sentenza, il presidente Giorgio Riccardi ha telefonato - è lui a raccontare - alla titolare dell'Associazione magistrati di Milano, Nunzia Ciaravolo. Le chiedeva di intervenire contro la trasmissione dello spettacolo di Fo, e di solidarizzare coi giudici della revisione, com'era avvenuto quando Gherardo Colombo si era trovato al centro delle critiche. "La Ciaravolo mi ha detto che non ritenevano opportuno un comunicato. E così siamo arrivati al gran finale". Sono stato molto colpito da questo articolo. Altro che sentenza "proterva, arrogante". I tre giudici di Milano si sentivano loro "assediati, circondati, isolati". Lo studio degli atti è stato per loro "un incubo". Stritolati dalle pressioni, e lasciati senza neanche un comunicato di solidarietà da parte della loro Associazione. Mi chiedo se si siano sentiti davvero così, e tendo a crederci.
La morsa che da dieci anni la mia lobby stringe attorno alla libertà dei miei giudici, e che mi ha portato fin qui, stava per sopraffare i giudici della revisione, che hanno avuto bisogno di un di più di coraggio e di indipendenza per respingere il nostro ricorso. Per saper vedere un baffo nero sotto i capelli di una donna bionda. Forse, in questa paradossale manifestazione di vittimismo, c'è la rivelazione di qualcosa che eccede il nostro povero caso, e riguarda più generalmente la situazione di buona parte della magistratura, milanese e non solo. Ancora in quell'articolo, si cita il giudice Franciosi (il terzo, Budano, non è menzionato) che "lascia la stanza, come uscisse da un rifugio antiaereo" "tenere in galera tre persone non fa piacere a nessuno". Su questo ho qualche dubbio in più sto leggendo il capitolo su Socrate di Gerusalemme e Atene di Leo Strauss, appena tradotto, e ho trovato questa frase "Perché ama condannare gli imputati".
(26 marzo 1998)