Il libro (250 pagine) è stato scritto da me e stampato da "Stampa Alternativa" in 1000 copie; sarà poi stampata una versione più agile e meno "militante".
Nel libro ricostruisco, sotto forma di diario, il caso "Telekom Serbia" attraverso le notizie di stampa, i comunicati e le iniziative radicali, i documenti della Telecom; particolare attenzione ho dedicato a mettere in risalto le responsabilità politiche di Carlo Azeglio Ciampi, nel 1997 ministro del Tesoro del governo Prodi e, in tale veste,"padrone" di una Telecom non ancora privatizzata.
Le prime copie sono state vendute (5 euro) al Congresso radicale di Tirana.
I punti di riferimento radicali che fossero interessati ad averne un po' di copie per i tavoli possono contattare, alla
sede di Roma, Michele De Lucia (che, tra l'altro, potrà inviarvi anche il suo libro sugli aiuti di Stato alla Fiat e quello sulla lotta di Luca Coscioni).
Per le richieste singole contattate il sottoscritto (manfredi61@hotmail.com - 011/2309004).
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L'Euroscandalo degli emendamenti mirati ita
Alvise Armellini | Bruxelles
24 marzo 2011
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Europarlamento
100.000 euro all'anno, come consulenza, per pilotare l'approvazione di emendamenti a direttive Ue. Giornalisti del Sunday Times si fingono lobbisti ed inchiodano, tra gli altri, l'ex vicepremier romeno Adrian Severin e l'ex ministro degli Esteri sloveno Zoran Thaler
Adrian Severin era uno dei parlamentari più in vista al Parlamento europeo. Vicepremier romeno nell'immediato dopo-Ceausescu, ministro delle Privatizzazioni e agli Esteri nel corso degli anni '90, a Bruxelles era stato nominato vicepresidente dei Socialisti e Democratici (SD) e portavoce del gruppo sulle questioni internazionali.
Oggi è un uomo dall'immagine distrutta, che rifiuta di mollare la poltrona dopo essere stato beccato con le mani nella marmellata da una clamorosa inchiesta del Sunday Times.
Falsi lobbisti
Nel corso di otto mesi, un team di reporter del settimanale britannico ha contattato 60 parlamentari europei fingendosi lobbisti pronti a offrire contratti di 'consulenza' da 100.000 euro l'anno in cambio della presentazione di emendamenti 'mirati.' E Severin ci è cascato, insieme al collega SD Zoran Thaler – ex ministro degli Esteri sloveno – e all'austriaco conservatore Ernst Strasser, già ministro degli Interni.
I tre sono stati registrati e filmati mentre raccontavano come avevano convinto colleghi a introdurre le modifiche suggerite dai lobbisti ad una direttiva Ue che dovrebbe garantire i risparmiatori in caso di fallimenti delle banche.
Nel caso di Severin, il 'prestanome' era addirittura dello schieramento opposto, perché il gruppo SD aveva espresso parere contrario sull'emendamento incriminato. “Quindi fanno 12.000 euro?” gli chiede uno dei reporter dopo l'impresa, riferendosi alla prima 'tranche' dei pagamenti promessi. “Si',” risponde. Strasser e Thaler si sono dimessi nel giro di 24 ore dalla pubblicazione delle accuse, pur sostenendo di aver capito di avere di fronte lobbisti fasulli e di aver fatto finta di accettare le loro mazzette per capire fino a che punto sarebbe arrivato il gioco.
L'ex vicepremier romeno, invece, ha deciso di non mollare la poltrona. “Non ho fatto niente che sia, diciamo, illegale o contro la prassi che abbiamo qui,” ha dichiarato al Sunday Times quando gli autori dell'inchiesta gli hanno chiesto spiegazioni sulla sua condotta.
Le reazioni dei colleghi
Ma i suoi colleghi di partito non l'hanno bevuta: il capogruppo Martin Schulz – già famoso per gli scontri con il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi – lo ha immediatamente scaricato. “Auspico che lasci il Parlamento europeo ed eviti ulteriori danni all'istituzione,” ha detto.
Mercoledì i deputati SD lo hanno espulso dal loro gruppo, ma Severin li aveva anticipati il giorno prima, passando al 'gruppo misto.' Da lì sembra deciso a difendersi dalle inchieste che Parlamento europeo, Ufficio europeo anti-frode (Olaf) e Direzione nazionale anticorruzione romena (DNA) hanno avviato nei suoi confronti.
Nel frattempo, al Parlamento europeo si temono altre scosse: all'amo dei giornalisti del Sunday Times avrebbero abboccato altri 11 deputati, che si pensa verranno rivelati nel corso delle prossime edizioni del giornale. “Ho sentito che li pubblicheranno tre alla volta,” ha raccontato a OBC un eurodeputato italiano, il quale si è detto pronto a scommettere che nessun connazionale verrà coinvolto nello scandalo. “Non so – racconta con una punta di cinismo - cosa si possa fare con centomila euro in Romania, ma per un italiano sono decisamente troppo pochi per sputtanarsi la reputazione”.
http://www.balcanicaucaso.org/aree/Serbia/Disoccupazione-e-poverta-in-Serbia-91157
Disoccupazione e povertà in Serbia ita
Sanja Lučić
25 marzo 2011
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Belgrado, foto: Daniele Dainelli
Mangiano male e sono sovrappeso, fumano e bevono troppo, lo stipendio non basta per coprire i bisogni più essenziali e soprattutto molti non hanno lavoro. Da una serie di indagini rese pubbliche in questi mesi in Serbia emerge una società in forte crisi
Come dimostra una recente indagine dell’Istituto nazionale per le statistiche, il numero dei disoccupati in Serbia è salito dall’ottobre del 2008 all’ottobre del 2010 da 457.205 a 565.880 unità. L'indagine - commissionata dall’Agenzia internazionale per il lavoro e dall’Agenzia della comunità europea per la statistica, Eurostat - mostra come il tasso di disoccupazione sia aumentato in due anni dal 14% al 20%. Per gli uomini è cresciuto dal 12,1% al 19% mentre per le donne dal 16,5% al 21,2%.
Dati diversi dall’Ufficio nazionale di collocamento
L’Ufficio nazionale di collocamento offre dati che mostrano un’immagine ancora peggiore. Secondo le loro informazioni, in Serbia vi sarebbero circa 730.000 disoccupati. Ma molti media nel Paese affermano che il loro numero si attesterebbe sul milione di persone.
All’Ufficio nazionale di collocamento intanto c’è grande aspettativa per i nuovi programmi statali messi in campo per creare nuovi posti di lavoro, per i quali si è passati da un budget di 36 milioni di euro del 2010 a 54 milioni per il 2011. Dejan Jovanović, direttore dell’Ufficio nazionale di collocamento, si augura che almeno 60.000 persone quest’anno otterranno un nuovo impiego, grazie ai programmi finanziati col budget statale.
È già stato avviato un programma orientato ai giovani, chiamato “La prima occasione”, che dovrebbe garantire loro un primo impiego e molte agevolazioni alle aziende che li assumono. All'inizio del 2011 è stato introdotto anche un nuovo programma chiamato “Pratica professionale” (Stručna praksa) rivolto a 5.000 giovani di età inferiore ai 30 anni nel quale, oltre alle aziende del settore privato, saranno incluse anche quelle statali.
Jovanović sostiene che ci saranno inoltre risorse speciali messe a disposizione dei giovani imprenditori. “Noi vogliamo sostenere la piccola imprenditoria in Serbia e per questo programma spenderemo 300 milioni di dinari (circa 3 milioni di euro) – spiega Jovanović – prevediamo l’apertura di 2.000 negozi da parte di persone iscritte sulla nostra lista di collocamento. Siamo in grado di garantire 160.000 dinari a tutti quelli che avranno voglia di avviare un’impresa ma prima li dobbiamo istruire per farlo. Una delle idee di questa agenzia è anche di aiutare i comuni poco sviluppati dove il datore di lavoro riceverà tra i 300.000 (circa 3.000 euro) e i 400.000 dinari (circa 3800 euro) per ogni nuovo dipendente assunto”.
Al programma ha preso parte un’azienda tedesca a Vranje, Serbia meridionale, presso la quale entro la fine del 2011 400 persone otterranno un nuovo posto di lavoro. “È molto importante che in questa parte del Paese si offrano nuovi posti di lavoro perché è sottosviluppata", ha dichiarato il premier Mirko Cvetković. Ma per il presidente dell’Associazione delle piccole e medie imprese, Milan Knežević, questi programmi sono solo parziali e non rappresentano una vera soluzione ai problemi. La sfida per il Paese a suo avviso è piuttosto quella di creare l’ambiente dove gli investitori esteri ma anche locali possano creare nuovi posti di lavoro. “Le misure a breve termine non potranno mai dare risultati soddisfacenti. Si tratta solo di improvvisazione e spesso questo serve per affermare la forza politica, l’abuso di potere, il guadagno e la promozione personale”, ha aggiunto Knežević.
Un potere d’acquisto quasi inesistente
Dai dati dell'Istituto nazionale di statistica emerge come il potere d’acquisto dei cittadini serbi, nel 2010, è notevolmente diminuito: i prezzi per il cibo sono saliti del 20%, l’abbigliamento aumentato del 6% e il prezzo della benzina del 10%. E le buste paga sono rimaste “magre”.
Saša Đogović, economista dell’Istituto per le indagini di mercato (IZIT), spiega che i cittadini serbi spendono più della metà del proprio per il cibo e la casa. “Circa il 56% dello stipendio se ne va per i bisogni essenziali, solo per il cibo spendono il 41%. In Bulgaria per esempio la cifra è minore, è circa del 34,7% e questo mostra che la Serbia, rispetto agli altri paesi balcanici, si trova in una pessima posizione”, afferma Đogović.
I dati dell'Istituto per le indagini di mercato dimostrano che per comprare cibo al supermercato all’inizio del 2010 servivano circa 4.500 dinari a settimana (44 euro circa), mentre adesso la cifra è aumentata a 6.000 dinari (circa 58 euro).
Negli ultimi due anni a Belgrado (che ha un livello di vita più alto delle altre città) sono aumentate le cucine popolari dove mangiano 10.185 belgradesi. Il segretario per la protezione sociale della città di Belgrado, Vladan Ðukić, ammette che le cucine popolari sono ormai 46, raddoppiate rispetto all’anno scorso. “Nelle città europee le persone muoiono di fame per la strada, da noi ancora non è successo”, tiene però a precisare.
Non si prevede, tra l'altro, che l'attuale tasso di inflazione, pari al 10,3%, diminuirà nei prossimi 6 mesi. In queste condizioni non sono solo i disoccupati in difficoltà, ma anche chi lavora, per non parlare dei pensionati, non può permettersi che acquistare generi di prima necessità. Il portale B92 ha intervistato alcuni cittadini di Belgrado che hanno detto che non comprano assolutamente nulla. Altri affermano: “Spendo per i figli e basta. Spendo solo per il cibo, se dovessi aver bisogno di qualcos’altro dovrei chiedere il mutuo o un prestito”. Che non rimane davvero niente per il resto lo dimostrano anche i dati statistici forniti dalla stessa emittente: solo lo 0,7% del reddito va per l’educazione e il 4,5% per la salute. E se si pensa che lo stipendio medio in Serbia è di 34.444 (335 euro circa) dinari è fuori di dubbio che resta molto poco per gli extra.
Gli unici non in crisi sono i matrimoni
I cittadini della Serbia, come dimostrano i dati dell’Istituto nazionale di statistica, nel 2010 si sposavano come nel 2009 ma sono calati il numero dei divorzi. Questo non vuol dire che i serbi abbiano imparato ad apprezzare di più la famiglia ma si tratta della sicurezza economica che è più stabile in due. Come afferma il sociologo Ognjen Radonjić della Facoltà di filosofia, è normale che la crisi matrimoniale sia maggiore nei Paesi più ricchi e quindi non è strano che da noi i matrimoni resistano. “La pessima situazione economica influenza le persone che non decidono così facilmente di divorziare”, dice Radonjić. “In generale, la mancanza di soldi influenza tutti gli aspetti della vita. C’è troppa differenza tra i ricchi e i poveri e la povertà spesso è seguita dalla criminalità e dalla mancanza di valori. E non c’è neanche la solidarietà tra le generazioni, perché col passare degli anni siamo sempre più tirchi ed egoisti”.
La salute peggiora, troppa preoccupazione
L’anno scorso lo stress era la diagnosi più diffusa in Serbia e un quarto dei cittadini abusavano di alcool. “La causa del peggioramento della salute è sicuramente l’alcool e il cibo pesante e unto – sostiene il dottor Petar Božović dell’Istituto per la salute pubblica Dr Milan Jovanović Batut - molte più persone soffrono di malattie al fegato ma almeno, con la legge che proibisce il fumo nei luoghi pubblici si spera che diminuirà il numero delle persone che fumano. Sulla tavola si trovano cibi di poca qualità, non c’è frutta e verdura, tutto è troppo grasso e condito. Quindi non sorprende che le persone siano sovrappeso e che le malattie come il diabete siano in aumento.”
Debiti fino al collo e aiuti statali
E se non ci sono soldi, ci si indebita. Da dati dell'Istituto nazionale di statistica emerge come i serbi si stanno indebitando, nel 2011, del 29% in più rispetto all’anno precedente ed ora il debito complessivo con le banche ammonta a oltre 5 miliardi di euro.
Lo Stato aiuta quotidianamente circa 800.000 persone con vari mezzi: denaro, pasti caldi, servizi vari. A gennaio di quest’anno il numero delle famiglie che hanno ricevuto aiuto per i propri figli è cresciuto del 5% rispetto alla media dell’anno scorso. Ed anche se questi 2.034 dinari (circa 20 euro) al mese, stanziati dal ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, non sembrano una cifra significativa, ad essi non rinunciano i genitori di 395.000 bambini della Serbia.
“Le cifre stanziate in aiuto di famiglie con figli sono davvero una cosa simbolica ma sono comunque rilevanti per il nostro budget”, ha dichiarato Zoran Martinović, segretario di Stato per il ministero del Lavoro e le Politiche sociali. “Vista la situazione non è immaginabile aumentare questa cifra nei prossimi mesi”, ha concluso.
Emblematica la chiosa di un recente articolo pubblicato da B92: “Neanche quest’anno è successo il miracolo, siamo ancora la nazione più vecchia, non abbiamo avuto un grande numero di nascite dei bambini e le previsioni di sociologi, medici ed economisti non sono rosee. Dicono che quest’anno sarà ugualmente brutto come quello precedente.”
"La Repubblica", VENERDÌ, 25 MARZO 2011
Al Colonnello, del resto, i Paesi della ex Yugoslavia e l´Albania si presentano come pozzi apparentemente senza fondo. Sono freschi di guerre. Hanno reti di traffico che si sono consolidate nel tempo e che costituiscono il core business di potentissime e violentissime mafie. Sono da sempre il primo mercato delle industrie belliche russa e cinese e dunque collettori privilegiati della merce che in queste settimane può soddisfare la domanda libica: fucili d´assalto russi Ak-47 (i kalashnikov) e cinesi Type 56. Pistole semiautomatiche Makarov calibro 9, visori notturni, mortai leggeri e munizionamento. Soprattutto, nei Balcani, la rotta nera delle armi dispone di almeno un porto sottratto a qualsivoglia controllo degno di questo nome: Bar, nella repubblica del Montenegro. Quel che accade sulle sue banchine, da tempo non è più un mistero per nessuno. Un anno fa, Goran Stanjevic, già rappresentante dell´Agenzia per gli investimenti esteri del Montenegro, lo ha raccontato ai magistrati della Procura distrettuale antimafia di Bari: «Da quanto so, a Bar ci sono magazzini pieni di armi. Le vendono alla Libia, alla Siria, ai Paesi arabi. E in quei magazzini so anche che lavorano anche tra i 500 e i 600 italiani».
Scendendo a sud, lungo le coste albanesi, i porti di Durazzo e Valona, valgono quello di Bar. E le oltre 100 mila tonnellate di armi di fabbricazione cinese ancora mal custodite nei vecchi arsenali di Enver Hoxha, sono un´altra ghiotta fonte di approvvigionamento. Il governo di Tirana ha sempre smentito con forza che il Paese sia sulla rotta delle armi di contrabbando per Tripoli. Ma è un fatto (come ha documentato recentemente il giornale albanese "Shekulli") che, lo scorso anno, un cargo di 150 mila proiettili da mortaio da 82 millimetri prese il mare per il porto libico di Ras Lanuf. Così come è un fatto che in questi ultimi anni di guerre centro-africane, armi di fabbricazione cinese ritrovate in Sudan o in Ciad siano risultate di provenienza albanese, evidentemente perché triangolate dal Colonnello.
I cargo che partono dall´Adriatico - nelle ricostruzioni proposte nei loro rapporti dalle intelligence italiana, francese, inglese, ma anche israeliana - costeggiano la Grecia, talvolta fanno scalo in Turchia, approdano sulla costa occidentale egiziana, dove i carichi vengono introdotti in Libia, lungo la sguarnita frontiera desertica. Spesso sovrapponendosi alle rotte che, da settimane ormai, riforniscono clandestinamente di armi gli insorti di Bengasi. «In questo momento - spiega ancora la fonte della nostra intelligence militare - la porta egiziana è particolarmente permeabile. E, per altro, assorbe non solo le rotte di traffico dai Balcani, ma anche quella che parte dalla Siria». Già, perché Israele, e con lei Washington sono convinte che Damasco non sia fuori dalla partita del contrabbando di armi con il Colonnello. Che la rotta di armi per la Jamahiryia combaci oggi con quella storicamente utilizzata dai siriani per rifornire, sempre via Egitto, i palestinesi della striscia di Gaza. E che l´origine dell´armamento sia iraniano.
Per sostenerlo, in queste ultime settimane, le intelligence americana e israeliana hanno incrociato due circostanze. La prima: il passaggio dello stretto di Suez, a fine febbraio, di due navi da guerra iraniane (una fregata e una nave appoggio), ufficialmente invitate a partecipare a esercitazioni congiunte nelle acque territoriali siriane. La seconda: il recente abbordaggio israeliano in acque internazionali del mercantile "Victoria", con la scoperta di un carico di 2.500 granate di mortaio, 75 mila proiettili e sei missili antinave. «Armi destinate ai militanti palestinesi», ha sostenuto Israele. E tuttavia caricate nel porto siriano di Latakia e dirette in Egitto, la nuova porta del contrabbando verso la guerra di Libia.
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"La Repubblica", MARTEDÌ, 22 MARZO 2011
dal nostro corrispondente
BERLINO - «Attenti, ragazzi, chi scende in piazza contro la missione internazionale cerca magari una terza via ma di fatto non è neutrale, bensì con Gheddafi. Perché niente cortei quando Gheddafi massacrava il suo popolo? Ricordate Francia e Gran Bretagna del ‘36, che lasciarono sola la Repubblica spagnola contro Franco, Hitler e Mussolini». Daniel Cohn-Bendit, leader verde europeo, è durissimo.
In piazza per la pace: solo in Italia o anche altrove?
«In Germania si va in piazza contro l´atomo. Vedo appelli anti-raid aerei solo in Italia, o in Grecia dai neostalinisti. Finiscono per schierarsi con la Cina, Putin e Chavez. Sono prigionieri delle categorie degli anni ‘50».
Insomma, la ricerca di una "terza via" non la convince?
«In Italia vedo appelli a protestare mossi dall´ossessione assoluta e accecante della mitica lotta contro l´imperialismo americano. Come fa Vendola a dire né con Gheddafi né con le bombe? Non faccio paragoni col triste slogan "né con lo Stato né con le Br", ma mi ricordo del 1936. Madrid democratica fu lasciata sola contro Franco, la Legion Condor di Hitler e i reparti di Mussolini. Risultato: stragi, 50 anni di franchismo, e nel ‘39 la seconda guerra mondiale».
Scusi, ma la voglia di pace, di un´altra via tra la guerra e il tiranno, non è importante?
«Arriva il momento in cui bisogna fare scelte. La Resistenza italiana, francese o jugoslava fu giusta, ma sanguinosa. Gli Alleati non la lasciarono sola. Che lo voglia o no, chi vuol lasciare soli i rivoluzionari libici è con Gheddafi, non è neutrale. E schiavo di miti come l´ossessione della pace a ogni costo che a Monaco 1938 portò Londra e Parigi a cedere a Hitler. O il mito del patto Molotov-Ribbentrop, giustificato dall´Urss perché anti-imperialista».
E la nonviolenza alla Gandhi?
«Gandhi vinse contro un imperialismo democratico, non contro un tiranno sanguinario pronto a sterminare il suo popolo. Gandhi poté trovare una terza via, per i rivoluzionari libici la terza via non esiste sul campo. È triste che non lo si capisca. Agire è giusto, come lo fu contro Milosevic e i suoi massacri in Bosnia e in Kosovo. La guerra è sanguinosa, lo fu anche la Resistenza nell´Europa occupata dall´Asse. Ma allora gli italiani dovrebbero rinnegare la Resistenza? I jet occidentali hanno fermato i Panzer di Gheddafi che puntavano su Bengasi per un bagno di sangue. E in Tunisia ed Egitto la rivoluzione ha vinto perché gli Usa, influenti sulle forze armate locali, le hanno convinte a non fare stragi. In Libia è diverso».
La voglia della "terza via" però è forte in una parte dell´opinione pubblica? Perché, secondo lei?
«Per i precedenti della guerra in Iraq, dove non c´era un movimento rivoluzionario da appoggiare, e perché in Afghanistan la situazione è difficile. Ma ricordiamo che dopo la prima guerra alleata in Iraq (contro l´occupazione irachena del Kuwait-ndr), prima ci fu la no-fly zone, poi Saddam massacrò 500mila sciiti e sterminò col gas un´intera città curda. Spesso chi protesta nel mondo del benessere non s´immagina cosa sia vivere sotto dittatori come Gheddafi. Ciò ha a che fare con ideologie marxiste-leniniste: il mondo diviso in cattivi e buoni, l´imperialismo cattivo e tutti i suoi nemici buoni».
Come giudica la non partecipazione della Germania alla coalizione anti-Gheddafi?
«Merkel e Westerwelle sono opportunisti, fiutano aria di pacifismo e temono per le elezioni di domenica. Potrei capirli solo se criticassero l´amicizia passata di Berlusconi e Sarkozy con Gheddafi, ma non lo fanno. In troppi amano solo le rivolte che vengono sconfitte, facile poi chiudere gli occhi davanti alla repressione, come con la Spagna lasciata a Franco».
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"La Stampa", 21/03/11
Intervista
“La No fly zone modello Bosnia rischia di fallire”
Kaplan: temo si arriverà allo stallo
MAURIZIO MOLINARI INVIATO A RIO DE JANEIRO
Stanno tentando di far cadere Gheddafi come avvenne con Milosevic negli Anni Novanta»: Robert Kaplan, stratega militare del «Center for New American Security» di Washington legge così le mosse della coalizione, precisando però che «questa volta potremmo fallire».
Da dove viene il parallelo fra Gheddafi e Milosevic?
«Dal tipo di operazione militare condotta dagli alleati. In Libia vogliono imporre una no fly zone come la Nato fece nel 1994 sui cieli della Bosnia e anche nel 1999 sul Kosovo, conducendo una campagna aerea di 99 giorni. Ma quelle due operazioni militari non portarono alla caduta di Milosevic perché una no fly zone non è in grado di innescare cambiamenti di regime».
Dunque Gheddafi potrebbe rimanere in sella...
«Le no fly zone nei Balcani indebolirono Slobodan Milosevic, presidente della Federazione ex Jugoslava, fino al punto di innescare una dinamica interna alla Serbia che portò ad un cambio di regime a Belgrado. Da quanto appare in Libia l’intento è simile, indebolire militarmente Gheddafi fino al punto da portare qualcuno del suo campo a prendere l’iniziativa per eliminarlo o allontanarlo dal potere».
Può funzionare?
«Devo ammettere che ho qualche dubbio. La Libia non è la Serbia: non ha la stessa identità unitaria di Stato e non ha forze politiche interne. La Libia in realtà come Stato non esiste perché a prevalere sono piuttosto le identità regionali in Tripolitania, Cirenaica e Fezzan. Dunque se la no fly zone riesce a salvare Bengasi e indebolire Gheddafi in Cirenaica non significa che ciò avverrà anche in Tripolitania. Per non parlare del Fezzan, una grande regione desertica della quale nessuno sta parlando».
Ciò significa andare incontro a una nazione divisa?
«Il rischio per la coalizione alleata che ha lanciato l’attacco è di portare ad una situazione di stallo: la Cirenaica in mano ai ribelli, la Tripolitania a Gheddafi e il Fezzan senza governo».
Quali sono le opzioni che Barack Obama ha per scongiurare tale scenario?
«Obama finora è stato molto abile. Sostenere la coalizione senza guidarla significa mettersi al riparo dal rischio di un fallimento. Se l’operazione dovesse non riuscire, o portare ad uno stallo, non sarà Washington ad avere la responsabilità di gestirla ma gli alleati europei, a cominciare da Parigi e Londra, che più hanno premuto per lanciare l’attacco».
Cosa pensa delle indiscrezioni che circolano sull’impegno di truppe speciali occidentali contro le forze di Gheddafi?
«È quanto venne fatto in Afghanistan nel 2001 con l’invio di centinaia di uomini divisi in squadre di 12 unità a sostegno dell’Alleanza del Nord contro i taleban. Ma questa volta il Presidente si è impegnato con gli americani a non mandare truppe di terra, dunque se avesse ordinato l’impiego di unità speciali avrebbe mentito alla nazione. E mi pare improbabile».
Lo stratega ROBERT KAPLAN ANALISTA MILITARE DEL CENTER FOR NEW AMERICAN SECURITY DI WASHINGTON SAGGISTA HA SCRITTO UNA DECINA DI LIBRI DIVENTATI BEST SELLERS
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"La Repubblica", DOMENICA, 20 MARZO 2011
Il presidente Tadic è stato accompagnato in visita al Centro stile Fiat, inaugurato nel 2007 nell´Officina 83, un edificio industriale totalmente ristrutturato all´interno del comprensorio di Mirafiori. Un laboratorio che riunisce le attività di ricerca e design dei marchi Fiat, Lancia, Alfa Romeo, Fiat Professional, Abarth e Maserati.
Nel corso della visita il presidente Tadic ha potuto vedere i futuri modelli di Fiat Group Automobiles e, tra gli altri, anche il nuovo veicolo del segmento L0 che sarà realizzato nelle versioni a cinque e sette posti nello stabilimento serbo di Kragujevac nell´ambito della joint venture siglata nel 2008 tra Fiat e Serbia. L´ad Marchionne ha spiegato a Tadic che entro la fine di quest´anno comincerà la produzione del nuovo modello, che inizialmente era stato pensato per Mirafiori.
(r.t.)
LIBIA/MANFREDI (RADICALI ITALIANI): NEI CONFRONTI DI GHEDDAFI LA STESSA COMPLICITA' AVUTA CON MILOSEVIC. LA STORIA NON INSEGNA NULLA. MENO MALE CHE NAPOLITANO C'E'!
Giulio Manfredi (vice-presidente Comitato nazionale Radicali Italiani, presidente Associazione Radicale Adelaide Aglietta):
L'Europa (e l'Italia in particolare) ha finora percorso nei confronti del dittatore libico, passo dopo passo, tutti gli errori compiuti nell'ultimo decennio del secolo scorso nei confronti del dittatore serbo Milosevic; prima l'ha ritenuto un elemento di stabilità dell'area mediterranea (come ritenne per ben 11 anni Milosevic un elemento di stabilità dell'area balcanica), ci ha fatto affari, l'ha blandito e reso sempre più forte e tracotante; alla fine, si è dovuti arrivare alla minaccia di un nuovo genocidio (come quello incardinato da Milosevic in Kosovo, parte integrante della Serbia, nel 1999) perchè Francia e Gran Bretagna (con l'Italia tirata per i capelli e la Germania alla finestra) si decidessero ad intervenire, con l'implicito avallo americano.
E la presa di posizione del governo italiano (tranne la Lega, che, ricordiamolo, è sempre quella del “Meglio Milosevic che Culosevic”) è dovuta in gran parte alla netta e limpida presa di posizione del presidente Napolitano, riassunta magistralmente nel suo discorso di ieri a Torino; un discorso storico nel senso migliore del termine: non una rivisitazione nostalgica e introiettata su se stessa ma una valorizzazione del meglio dei nostri 150 anni rivolta al futuro e capace di abbracciare l'intero bacino del Mediterraneo. Di grande spessore intellettuale e di grande visione politica quel recupero da parte del Presidente di quel “...Noi non siamo insensibili al grido di dolore che da tante parti d'Italia si leva verso di Noi...” pronunciato il 10 gennaio 1859 da Re Vittorio Emanuele II nel Parlamento subalpino e reso attuale e drammaticamente urgente proprio oggi che l'Italia è scesa finalmente in campo contro Gheddafi, a sostegno del “Risorgimento arabo”.
Torino, 19 marzo 2011
www.associazioneaglietta.it
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"La Stampa", 15/03/11
Sentenza dell’Alta corte di Parigi
Karadzic deve pagare i danni a famiglia di esiliati bosniaci
L'ex leader serbo bosniaco Radovan Karadzic, attualmente processato dal Tribunale internazionale dell’Aja, e l'ex presidente dei serbi di Bosnia, Biljana Plavsic (la prima e unica donna a essere condannata dal Tpi per crimini contro l’umanità), sono stati condannati dalla giustizia francese a risarcire una famiglia bosniaca per le umiliazioni subite nel 1992 durante la guerra civile. La somma stabilita è di 200.000 euro. La sentenza emessa dall'Alta corte di Parigi è la prima nel suo genere e chiude la battaglia legale avviata nel 2005 dalla famiglia bosniaco musulmana Kovac, torturata dalle truppe serbo-bosniache prima della fuga in Francia.
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Divjak libero ita
Piero Del Giudice
9 marzo 2011
10 Commenti
Jovan Divjak (Foto Danilo Krstanović)
Jovan Divjak è stato rilasciato su cauzione nel pomeriggio di ieri e si troverebbe ora nella residenza dell'ambasciatore di Bosnia Erzegovina a Vienna. Resterà in Austria fino alla conclusione del procedimento che lo riguarda. Un ritratto del generale in pensione, una riflessione sul lato oscuro della guerra bosniaca
Jovan Divjak è il comandante della Difesa territoriale di Sarajevo quando, il 5-6 aprile 1992, inizia l’attacco congiunto alla capitale bosniaca. Prima i cecchini sparano all’improvviso su un grande corteo per la pace che sfila per la città, poi compaiono le formazioni paramilitari serbo-nazionaliste, infine l’attacco della Jna (l’esercito federale jugoslavo).
Se per ogni abitante di Sarajevo è il momento delle decisioni finali – combattere, difendere la propria città, fuggirne – Divjak è chiamato a scelte radicali, drammatiche, vitali. Perché è un militare di carriera dell’esercito, cresciuto nelle accademie dello Stato federale e perché è serbo. “Il serbo che difende Sarajevo”. La sua presenza, come la scelta di rimanere di altre decine di migliaia di cittadini di origine serba, è determinante per affermare la difesa della multiculturalità di Sarajevo. Così come rimangono i croati guidati dal vescovo Vinko Puljć - presenza determinante, garantisce con le sue scelte, insieme ai francescani della provincia orientale (“Srebrena”), l’unità territoriale e culturale minima alla Repubblica di Bosnia Erzegovina. I croati di Mostar invece sono secessionisti, così come i serbi delle regioni della Drina, e le repubbliche della ex-Jugoslavia implodono, attraversate dalle linee di due “visioni” territoriali a lungo perseguite, la Grande Serbia e la Grande Croazia.
Divjak come Vešović
Jovan Divjak dunque fa la stessa scelta di Marko Vešović, lo scrittore e poeta montenegrino in Sarajevo assediata, senza sosta testimone delle ragioni e dei diritti dei suoi abitanti, forte narratore - Scusate se vi parlo di Sarajevo (Sperling&Kupfer) - delle infinite vicende, tragiche e eroiche e criminali, che stanno dentro la saga sanguinosa dell’assedio e della difesa della città. In una poesia della raccolta Poljska Konjca (La cavalleria polacca), Vešović scrive: “Noi che abbiamo vissuto l'assedio di Sarajevo/ non ne ricaveremo, si capisce, alcun profitto [...] questa conoscenza è la spada che non sguaineremo/ in ogni momento [ma] io almeno terrò sempre la mano/ sul suo manico.”
Stare con Sarajevo, stare dalla parte delle vittime.
Le cadenze delle guerre balcaniche sigillano con il sangue il secolo e aprono al terzo millennio con le nuove guerre: per “nazioni”, a sfondo etnico-religioso. Sarajevo ne è il capitolo più drammatico. L’assedio alla città dura quattro inverni, le cronache dell’assedio alzano il palco di un teatro di solidarietà inaspettate, risorse umane inattese, capacità di sacrificio degli abitanti e inaudite ferocie.
“Portammo dei cecchini in una cantina, li pestammo a pugni e a calci. Poi li uccidemmo e, con una sciabola, decapitammo Nikolić. Infine portammo via i due cadaveri per gettarli in un burrone di Kazane.” E’ la testimonianza di un ufficiale dell’esercito bosniaco riportata da Divjak in Sarajevo mon amour (Infinito edizioni), trecento pagine di dettagliate risposte a una lunga intervista sugli anni dell’assedio e del dopoguerra condotta da Florence La Bruyère.
La novità sta nel fatto che Divjak ripercorre le tappe della guerra di Bosnia per “linee interne” alle prime formazioni di difesa della città, al processo di strutturazione del nucleo originario dell’esercito della repubblica (“Armija”), alla finale musulmanizzazione di questa e altre istituzioni (di pari passo con l’impoverimento culturale generale).
In controluce
Divjak va letto soprattutto in controluce. Neanche lui - democratico e illuminista, estraneo ai bizantismi balcanici - può farci leggere in chiaro le anomalie originarie e fondanti della neorepubblica. Le figure di profilo criminale così presenti nel primi due anni della difesa della città, le bande guidate dagli Juka Pražina, dai Caco, dai Ćelo. Juka, che guida la battaglia della “fabbrica del cioccolato”, espulso dalla città promette di rientrarvi “su un cavallo bianco”. Verrà trovato ucciso con un colpo alla nuca alla periferia di una città belga; Caco - comandante “popolare” legato a Izetbegović - guida la battaglia della “fabbrica della birra” (la Pivara) massacrando con le sue mani sette soldati dell’Armija, verrà ucciso “mentre tenta la fuga” dentro una macchina della polizia; Ćelo che può tenere in ostaggio interi quartieri della città assediata, uccide civili serbi, contrabbanda lungo le linee della difesa, ucciso poco tempo fa in un agguato nell’androne della casa dell’amante ufficialmente dalla “mafia albanese”.
Né più vasti lati oscuri possono essere illuminati: il genocidio di Srebrenica comunque annunciato nei preaccordi di spartizione della Bosnia Erzegovina (le enclaves lungo la Drina ai nazionalisti serbi in cambio dei quartieri di Sarajevo); la presenza e il ruolo delle brigate musulmane internazionali in quella guerra di Bosnia.
Divjak - comandante in carica - subì il carcere, il ricatto dell’arresto di un figlio, minacce da ogni parte, nonché un grave attentato diretto.
Silenzi, i suoi, eloquenti.
Nel libro-intervista della La Bruyère, la sua voce si libera invece spregiudicata nell’analisi dei dopoguerra in Bosnia e nella ex-Jugoslavia, e nel racconto della sua nuova passione umanitaria: l’aiuto agli orfani della guerra.
http://www.balcanicaucaso.org/aree/Serbia/Belgrado-9-marzo-1991-90306
Belgrado, 9 marzo 1991 ita bhs
Danijela Nenadić | Belgrado
9 marzo 2011
5 Commenti
Dragana Milojević, durante le manifestazioni del 9 marzo 1991
Venti anni fa, a Belgrado, la prima grande manifestazione contro il regime di Milošević. Inizia con questa data il nostro dossier sui vent'anni dall'inizio della guerra in Jugoslavia. Il racconto di chi allora era ancora una ragazzina, ma che il 9 marzo del 1991 iniziò, per la prima volta, a manifestare per una Serbia diversa
“Mi ricordo che era marzo,
per molti di voi un giorno del tutto normale,
ma nel mio cuore è rimasta una traccia”.
Dža ili Bu, gruppo punk belgradese
Quando Luka Zanoni alcune settimane fa mi ha chiesto di scrivere un testo sui miei ricordi del 9 marzo, ho accettato senza esitazione, felice di poter ricordare le mie numerose battaglie contro il regime di allora. Non immaginavo nemmeno che sarebbe stato per me sino ad oggi uno dei testi più difficili da scrivere.
Avevo sedici anni. Sono cresciuta in una famiglia di jugoslavi che rifiutavano di credere che le guerre stavano bussando alla porta di casa e che il sistema, l’unico che conoscevano, si stava sgretolando alla velocità della luce. Non ricordo nemmeno che i miei genitori abbiano votato alle cosiddette prime elezioni multipartitiche in Serbia. Non riesco a ricordare quando in casa nostra sono iniziate le discussioni di politica e quando sono iniziati i conflitti tra me e loro. I miei non mi hanno mai vietato nulla e nemmeno lo hanno fatto quando ho iniziato, probabilmente inconsapevole di quello che dicevo, a chiedere che mettessero in discussione tutto quello in cui avevano creduto fino a quel momento, quando per settimane li avvertivo che eravamo minacciati da un abisso collettivo, il tutto impiegando grandi parole come: regime autoritario, sistema multipartitico, liberalismo, terrore, guerre, diritti umani e libertà. Scavo nella mia coscienza e non trovo da dove mi siano venute quelle parole e dove le ho udite per la prima volta.
Dossier
Mi ricordo
Nel 1991 iniziava la disgregazione violenta della Jugoslavia. A vent'anni da allora abbiamo chiesto di raccontare alcuni giorni di quella tragica prima metà degli anni '90 a chi, in questi anni, ha scritto e collaborato con Osservatorio Balcani e Caucaso
Sintesi storica
Vai ad una scheda di approfondimento sulle manifestazioni del 9 marzo 1991 a Belgrado
Vai alle immagini d'archivio di quella giornata
Riesco solo a ricordare lo shock sui loro volti quando la loro figlia ancora minorenne iniziò la sua personale campagna politica in casa Nenadić. Quotidianamente li “incitavo”, chiedevo che ci ripensassero, chiedevo che mi seguissero, li investivo con discorsi sul mio futuro, dicevo loro che a causa mia dovevano cambiare e non capivo per niente di quale tipo di paura mi stessero parlando.
C’è qualcosa che però ricordo chiaramente. Ero al corrente delle dimostrazioni fissate per il 9 marzo. A scuola alcuni di noi “politicamente consapevoli” si erano divisi tra i simpatizzanti del Movimento per il rinnovamento serbo (SPO) e il suo leader Vuk Drašković e il Partito democratico (DS). Io ero in questo secondo gruppo. Parlavamo della partecipazione alla manifestazione, anche se non avevamo la minima idea di cosa fosse e nemmeno del motivo esatto per cui si organizzava. Non c’era nessuno che mi informasse. La televisione era controllata dal regime e il poco che ero riuscita ad ascoltare alla Radio B92 non era sufficiente per farmene un'idea. Ai miei non avevo detto nulla fino al mattino del 9 marzo. Loro pensavano che ci saremmo momentaneamente recati dalla nonna, in paese. Suonava così: quello che non vedo non mi riguarda.
Per giorni avevano sussurrato tra loro, negli angoli della casa, pensando che non sentissi, che ci sarebbe stato caos per le vie della città e che quindi una figlia giovane e inesperta va portata lontano. Io non volevo sentirne di andare via. Alla fine accettarono di rimanere a Belgrado, probabilmente non immaginando che mi sarebbe venuto in mente di uscire di casa quel 9 marzo. Più tardi hanno imparato, poveri i miei genitori, che non ci sarebbe più stata una sola dimostrazione a cui la loro figlia non sarebbe andata.
Mattina del 9 marzo 1991. Mamma e papà guardano la televisione. Al solo ricordo di cosa dicevano i giornalisti dell’allora RTB (Radio televisione di Belgrado) mi si rivolta lo stomaco. A questo non c’è cura, nemmeno dopo vent'anni. Sin dal mattino la polizia era per le strade, dicevano che i dimostranti sono forze dell’oscurità e del male. Sto in piedi davanti a miei genitori e dico che vado alla manifestazione. Ricordo lo shock. Mia madre cerca di controbattere, anche se sa che non cederò. Allora si mette a piangere. E poi mi minaccia. Mio padre tace, il suo cuore di genitore va in frantumi, arrabbiato e furibondo. lo vedo, ma capisco che non è arrabbiato con me, si sente impotente, sa bene che il nostro mondo sta cambiando e non sa come affrontarlo. Non credono ai divieti. E ora, come possono dirmi di non andare? Hanno il terrore che ci siano grandi scontri, come possono lasciarmi andare? Hanno sentito dire che verranno filmati tutti i partecipanti alla manifestazione e si chiedono come possono venire con me se poi magari rimarranno senza posto di lavoro, con grave danno per tutta la famiglia. Qual è la scelta migliore? Si scervellano i miei genitori. E io li capisco solo adesso.
Vado alla manifestazione con altri tre compagni di scuola. Non siamo andati molto lontano. La polizia è a tutti gli ingressi per Piazza della Repubblica. Vediamo come picchiano le persone. I dimostranti urlano “Si è svegliata la Serbia”. Folti gruppi si dirigono verso il centro della città. Ad ogni angolo la polizia. I dimostranti giocano a scacchi con le forze dell’ordine, si ritirano nelle viuzze e cercano dei passaggi. Sento la voce di un amico che urla “fuggite, arrivano i cannoni ad acqua!”. I dimostranti più coraggiosi, incitati dalle urla di Vuk Drašković “Avanti, eroi”, saltano sui mezzi blindati e vi infilano bandiere. Mi prende il panico, ad un tratto sono come paralizzata e non so cosa fare. Gli amici mi trascinano sul marciapiede e poi a casa. La mia prima esperienza da manifestante dura in tutto mezz’ora.
A casa in silenzio guardiamo la televisione. Tutt’oggi ricordo bene l’immagine di una donna che orgogliosamente impettita con le tre dita alzate fronteggia il cannone ad acqua. Riconosco Dragana Milojević, una vicina che di passaggio mi aveva detto che fra poco sarebbe arrivata la libertà. La sera le vie della mia città sono occupate dai carri armati. Vado a letto piena di rabbia e di paura. Per la prima volta decido consapevolmente che la mia lotta per un’altra Serbia è iniziata. Con i miei genitori ho lottato ancora un anno, finché anche loro non sono passati all’opposizione. Contro il regime, insieme a centinaia di migliaia di altre persone, ho lottato per altri nove anni.
Il giorno successivo (10 marzo) sono a Terazije, partecipo alla “rivoluzione di peluche” organizzata dagli studenti dell’Università di Belgrado, e così chiamata per sottolinearne l’aspetto pacifico. Avverto la speranza, attorniata da gente che la pensa come me. Il 9 marzo diventerà uno spartiacque nella mia vita.
Se solo avessi saputo quanto avremmo dovuto aspettare per un’altra occasione, se solo avessi avuto qualche anno in più, se solo non mi fossi spaventata, se solo non fossero rimasti sorpresi e scioccati tutti quelli che quel giorno erano per le vie di Belgrado, se fossero stati più organizzati, se Vuk Drašković avesse saputo come reagire, se non avessero richiesto le dimissioni dei redattori della RTS ma piuttosto quelle di Milošević, se Dragoljub Mićunović non avesse invitato i simpatizzanti del DS a ritirarsi perché era già scorso abbastanza sangue, se fossi, se fossero, se fosse... ma non ho, non hanno, non è... ecco perché abbiamo aspettato fino al 5 ottobre 2000.
Ed ecco perché non mi viene una conclusione intelligente per questa storia sul 9 marzo. Questa data l’ho sotterrata, mi è difficile ricordarla, mi prende la nausea a pensare a tutti quegli anni perduti, ma più di tutto mi fa male sapere che l’insuccesso della manifestazione del 9 marzo aprì la porta alle guerre, alle uccisioni, ai bombardamenti e a quegli anni bui in cui noi non esistevamo.
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Contro Gheddafi ma con Saddam
Articolo di pubblicato su Il Giornale, il 07/03/11
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