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Il ritiro di AT&T dall'offerta per Telecom non stupisce. Quel che meraviglia è l'ingenuità dell'azienda americana di credere di potersi barcamenare nei meandri del capitalismo italiano troppo contiguo con il potere politico, come dimostrano i continui richiami a un non ben definito «interesse del Paese» e non meglio precisate cordate nazionali. Stupisce poi che anche gli azionisti di minoranza, che avrebbero potuto guadagnare da una gestione più efficiente, si siano aggiunti alle file di coloro che protestavano contro l'invasione straniera.
Ma una cordata nazionale sarebbe la soluzione più favorevole all'interesse del Paese? Ma che cos'è «il Paese»? Nel Paese esistono interessi generali e particolaristici. Tra i portatori dei primi, ci sono gli utenti e i contribuenti. Tra i portatori dei secondi, quelli particolaristici, ci sono gli azionisti di Telecom e i suoi dipendenti. Chi perde e chi vince nelle diverse ipotesi di riassetto di Telecom? Per rispondere consideriamo tre possibilità: la vendita di Telecom a un operatore con esperienza nel settore, indipendentemente dalla sua nazionalità; l'intervento, non sgradito alla politica, di investitori italiani riuniti in una cordata che "salvi" Telecom dagli stranieri; una nazionalizzazione o un intervento dello Stato nella gestione della rete.
Gli utenti telefonici italiani (non sono essi «il Paese»?) sono interessati a un servizio efficiente, economico e innovativo. Se questo servizio è fornito da italiani o stranieri non importa. L'entrata di nuovi operatori garantisce un abbassamento dei costi grazie alla competizione generata nel settore. Per esempio, la tariffa di una telefonata da Roma a Milano si è ridotta del 40% negli ultimi quattro anni grazie a un aumento della concorrenza nella telefonia mobile dove la maggior parte degli operatori è straniera. Ma Telecom ha un potere monopolistico sulla rete e chiunque la acquisirà vorrà sfruttarlo, così come ha sempre fatto Telecom stessa. Per esempio, negli ultimi quattro anni, mentre il costo delle telefonate, che è soggetto a una maggiore concorrenza, è diminuito, i servizi offerti da Telecom in settori dove c'è meno concorrenza hanno avuto qualità inferiore e prezzi più alti.
Molti concorrenti di Telecom sono costretti a utilizzare parte della rete e Telecom può ritardare l'allacciamento alla rete e la manutenzione della stessa o scoraggiare gli utenti che, per esempio, vogliono attivare un adsl in assenza dì una linea voce Telecom. Non a caso Telecom ha l’87% del mercato broadband in Italia.
Questo potere monopolistico — un problema reale, sia che Telecom rimanga italiana sia che diventi straniera — verrà necessariamente trasferito assieme alla proprietà di Telecom. Come ha ben spiegato Guido Tabellini su questo giornale (si veda «Il Sole-24 Ore» dell'8 aprile), un'appropriata regolamentazione può impedire lo sfruttamento di posizioni monopolistiche. Anzi, imporre regole anti-monopolistiche è più facile con un investitore estero che con gli "amici" capitalisti italiani. Mentre se lo Stato fosse direttamente o indirettamente monopolista, che interesse avrebbe a controllare se stesso? Naturalmente la regolamentazione deve servire a proteggere i consumatori, non a spaventare potenziali compratori, soprattutto stranieri, come è sembrato avvenire nelle ultime settimane.
Tra le paure ricorrenti in questi giorni c'è quella che una vendita di Telecom agli stranieri significherebbe abbandonare la ricerca in Italia. Non è vero. Il gruppo Motorola, americano come AT&T, ha aperto a Torino un centro di ricerca e sviluppo dove impiega 300 dipendenti italiani. Torino è oggi uno dei principali centri di eccellenza Motorola, anche grazie alla collaborazione con 0 Politecnico. Si badi che Motorola ha deciso di investire in Italia non perché un governo glielo abbia imposto, ma perché ne ha trovato convenienza.
I contribuenti (non sono anch'essi «il Paese»?) sono interessati a non esser tassati per garantire i profitti di questo o quel gruppo finanziario e dei rispettivi azionisti. L'AT&T aveva offerto un premio del 30% all'azionista di maggioranza. Nazionalizzare la rete se non addirittura il servizio finirebbe per costare ai contribuenti più di quanto avesse offerto AT&T, dato che l'azionista di maggioranza di Telecom vorrà massimizzare i profitti e un 30% di margine era già sul tappeto. In cambio di cosa dovrebbero sobbarcarsi tale onere?
Gli azionisti hanno come obiettivo la massimizzazione del valore delle azioni Telecom, ma gli interessi degli azionisti di maggioranza e di minoranza possono essere molto diversi. Nell'ultimo anno il titolo Telecom Italia ha fornito uno dei peggiori risultati nel settore delle telecomunicazioni europee: il suo valore si è ridotto del 6%, mentre la capitalizzazione del settore delle telecomunicazioni (misurato dall'indice DJ Stoxx Telecom) ha registrato un aumento del 14 per cento.
Per resistere alla "conquista" straniera una parte della politica italiana è tentata di organizzare una cordata nazionale (con quale esperienza nel settore?) e a cui parteciperebbero anche le stesse istituzioni finanziarie che sono corresponsabili della performance mediocre dell'attuale gestione. Se questo nuovo soggetto offrirà un prezzo superiore rispetto alla quotazione attuale, l'azionista di controllo (Olimpia) che vende tutta la sua quota ci guadagnerà. L'azionista di minoranza dovrà invece sperare che il nuovo management migliori l'andamento del titolo. Quindi, l'azionista di minoranza dovrebbe scegliere non tra un acquirente italiano o uno straniero, ma semplicemente chi ha il migliore piano industriale.
Nel caso estremo di una vera e propria "nazionalizzazione" della rete, l'effetto sulle azioni Telecom dipenderebbe dal prezzo pagato dallo Stato. Se fosse molto elevato, per evitare che la rete "cada" in mani estere, l'azionista Telecom ci guadagnerebbe parecchio (a spese dei contribuenti).
Per i dipendenti Telecom è possibile che una ristrutturazione dell'azienda da parte di un nuovo proprietario, magari straniero, implichi dei licenziamenti. Ma come ormai si è detto e ripetuto ad nauseam, la risposta a questi problemi non è mantenere in vita posti di lavoro inefficienti, il cui costo ricade sugli utenti. Bisognerebbe invece agevolare il passaggio dei dipendenti Telecom ad altri lavori con un sistema di ammortizzatori sociali che funzioni. Ma tutti, governo dopo governo, sembrano restii a mettere in piedi questi meccanismi. Perché? Ecco una risposta: senza di essi si può con più pathos indicare la potenziale perdita dei posti di lavoro per giustificare questa o quella cordata italiana che eviti l'ingresso di investitori stranieri capaci di massimizzare davvero l'efficienza.
MILANO - Mentre in Piazzetta Cuccia si continua a lavorare al dossier Olimpia in attesa di un incontro formale con Intesa Sanpaolo, il centro d´attenzione del gruppo di telefonia si sposta un´altra volta in Sudamerica dove, oltre ai nuovi problemi sorti su Entel Bolivia, il gruppo italiano si trova impegnato su vari fronti. E segue da vicino le mosse di Telefonica che insieme a Portugal Telecom starebbe ridiscutendo i termini della joint venture paritetica in Vivo, primo operatore di telefonia mobile carioca insidiato da vicino proprio da Tim Brasil. Da Madrid non hanno voluto fare commenti sui futuri assetti di Vivo mentre da Lisbona sono arrivate alcune conferme. «La trattativa con Telefonica è complessa- ha spiegato il presidente di Portugal Telecom Hernique Granadeiro - tutto è possibile, potremmo rilevare il 100% di Vivo, cedere il nostro 50% agli spagnoli, oppure rinnovare la nostra partnership con Telefonica».
La decisione di Telefonica su Vivo - per cui si parla di un esborso di 3 miliardi di euro - si incrocia inevitabilmente con le riflessioni in corso su Olimpia. Telefonica potrebbe entrare con una quota di minoranza in una cordata italiana volta a rilevare il 18% di Telecom Italia. E cercare di sviluppare sinergie in Sudamerica con Tim Brasil, la cui rete è più avanzata tecnologicamente. Entrare in Olimpia, per Telefonica, significherebbe contrastare definitivamente l´incursione dell´altro grande operatore sudamericano, America Movìl, che potrebbe formulare una nuova offerta per Olimpia. Le banche italiane che sono al lavoro per definire la cordata attendono un´indicazione di massima da Telefonica verso la fine di questa settimana in modo da poter formulare una proposta alla Pirelli.
Nei loro conti, inoltre, i banchieri dovranno tener conto di un equity swap su 124 milioni di azioni Telecom Italia (iscritto nel bilancio Pirelli) che garantisce a Olimpia un´opzione a salire dal 17,99 al 18,92% del gruppo di telefonia. Il contratto stipulato con Caboto e Ubm, ovvero i broker che fanno capo rispettivamente a Intesa Sanpaolo e Unicredito, scadrà il prossimo ottobre. Ma il prezzo pattuito per questo pacchetto risulta superiore rispetto ai valori che esprime il mercato: ben 2,9 euro per ogni azione contro 2,21 del prezzo di ieri.
Infine è da segnalare un incidente di percorso in cui è incappato il neo presidente di Telecom Italia Pasquale Pistorio. Un´inchiesta giudiziaria condotta in Svizzera su un ammanco dalle casse di Stm di 28,5 milioni di franchi in otto anni ha portato all´arresto di Pietro Paolo Mosconi, ex tesoriere della società e uomo di fiducia di Pistorio. Nel corso di un interrogatorio avvenuto nel dicembre 2006, e rivelato nei giorni scorsi dal settimanale luganese Il Caffè, l´attuale presidente di Telecom ha ammesso di aver firmato, senza esaminarne il contenuto, alcuni documento sottopostigli da Mosconi. Pistorio ha smentito la costituzione di fondi neri nella società di cui è ancora presidente onorario ma nello stesso tempo ha messo a disposizione degli inquirenti 200 mila euro frutto di una vendita di azioni in tandem con Mosconi avvenuta nel luglio scorso.
TELECOMAFIA IN MANO AI SERVIZZI POLITICI CLERICAL MAFIOSI. E' DAGLI ANNI 60 CHE SONO SOTTO OSSERVAZIONE ,DI QUESTA FINTA DEMOCRAZIA.A QUELL'EPOCA ERO SOTTO OSSERVAZIONE DALLA PROCURA DELLA REPUBBLICA. DI MILANO.ESSENDO STATO PERSEGUITATO. DAI CARABINIRI DEL PALAZZO CHE SONO RIUSCITI A TERRORIZARE MIA MOGLIE E MIA SUOCERA FINCHE MI SONO DECISO DI METTERMI IN COMUNICAZIONE TELEFONANDO AL PROCURATORE DELLA REPUBBLICA DEL PALAZZO DI GIUSTIZZIA. DA ALL'ORA NON MI ANNO PIU DISTURBATO. MA SONO CONTINUAMENTE SOTTO OSSERVAZIONE
SE UN LAVORATORE ESCE FUORI DAL SUO GREGGE, E SI METTE A FARE POLITICA LIBERA ., VIENE IMMEDIATAMENTE SEGNALATO, E TENUTO D'OCCHIO PER TUTTA LA SUA VITA.
Tronchetti, scuse per le intercettazioni: "Su Telecom troppe interferenze"
di Redazione - lunedì 23 aprile 2007, 14:11
Milano - "Campagna mediatica" e "fattori esterni" che hanno influito nel negoziato con Murdoch. "Interferenze, interne ed esterne" nelle trattative con Telefonica. "Interferenze" anche nel negoziato con AT&T. Il rosario delle lagnanze di Marco Tronchetti Provera sul caso della cessione di Telecom è lungo così. La vicenda, ha ricordato Tronchetti, illustrando i fatti oggi durante l'assemblea degli azionisti, prende l'avvio nella primavera scorsa, quando "finito il ciclo della fusione Tim-Telecom avevamo organizzato un percorso di allargamento. Abbiamo avvicinato il più grande operatore al mondo nei media, avviando contatti con Murdoch che sono andati bene per un certo periodo; poi c'è stata una fase anomala dal punto di vista mediatico, Telecom ha iniziato a essere sotto pressione con iniziative per la separazione della rete o con la sottolineatura di un debito eccessivo, che peraltro stava scendendo. La campagna mediatica non favoriva un negoziato difficile, e quando sono intervenuti altri fattori esterni ho deciso di lasciare la presidenza di Telecom per non permettere uno scontro tra vertici dell'azienda e istituzioni. Con la presidenza Rossi la situazione si è normalizzata".
Nessuna scissione di Pirelli/"Non esistono a oggi progetti in merito" ha detto Tronchetti su un'eventuale scissione di Pirelli quale possibile soluzione al riassetto azionario di Telecom. "È inutile commentare - aggiunge - sono progetti inesistenti. Comunque non accetteremmo mai progetti che non mettano tutti gli azionisti nelle stesse condizioni. Non ci saranno privilegi per nessuno".
Interferenze/ Chiusa la vicenda Murdoch, si apre il capitolo Telefonica: "Abbiamo avuto dei contatti con Telefonica - spiega Tronchetti - che negoziava anche con Telecom. Delle interferenze, esterne e interne, hanno fatto sì che il negoziato cadesse nel vuoto. A questo punto in consiglio abbiamo valutato che non eravamo in condizione di dare il nostro contributo a Telecom, e abbiamo preso la decisione di valutare la vendita in toto della partecipazione in Olimpia, non a qualsiasi prezzo, ma a un prezzo che valorizzasse la partecipazione in Telecom. Abbiamo avuto molti interlocutori, e i più seri e importanti, portatori di tecnologia e di una presenza in America Latina, ci hanno avvicinati. In questo negoziato ci sono però state delle interferenze, che la stessa At&T ha stigmatizzato, decidendo di lasciare. C'erano troppe incertezze dal punto di vista normativo, non facilmente comprensibili da interlocutori stranieri".
Le scuse sulle intercettazioni/ "Voglio esprimere le mie personali scuse ai dirigenti e agli amministratori della società. Potrà sembrare poca cosa, ma è una manifestazione sincera". Tronchetti Provera, apprendo l'assemblea dei soci della Bicocca, ha parlato anche di intercettazioni illegali. Il presidente di Pirelli ha definito "grave ciò che è accaduto", ma ha sottolineato che i valori della società rimarranno "l'etica, la trasparenza, il senso di appartenenza e la voglia di continuare a fare industria". Quanto alle indagini della magistratura, Tronchetti ha ribadito che da Telecom "c'è stata la massima collaborazione e continuerà a contribuire alle attività di indagine senza reticenze e senza proteggere nessuno".
Evitare clima da campagna elettorale/Della vicenda Telecom bisogna parlare con "competenza" e su tavoli adeguati ed evitare un clima da "campagna elettorale". Tronchetti Provera ribadisce la sua "disponibilità al dialogo nell'interesse del Paese", ma pone dei paletti. "Ognuno deve svolgere il proprio ruolo nel rispetto di quello degli altri. È importante la collaborazione. Bisogna parlare in modo serio e a tavoli attorno ai quali si discute con competenza perchè invece spesso si usano strumenti da campagna elettorale; le imprese richiedono competenza ed è triste sentire commenti fatti con la stessa logica degli slogan politici".
«Esistono le leggi». Sono laconiche e criptiche, da Riad dove è in visita, le parole del premier Romano Prodi sulla possibilità che nel riassetto Telecom figuri anche la firma di Silvio Berlusconi e della sua Mediaset. Dopo le aperture, soprattutto a marchio Ds e di qualche ala dei Dl, a un impegno del Cavaliere, arrivano nuovi altolà. Proprio mentre Intesa Sanpaolo e Mediobanca discutono con il Biscione allo scopo di coniugare un partner industriale estero come Telefonica a un gruppo di imprenditori e istituzioni finanziarie di stampo italiano. Se Prodi si limita a poche parole, più esplicito è il ministro della Difesa (e prodiano della prima ora) Arturo Parisi, secondo cui un intervento di Berlusconi «potrebbe solo peggiorare la situazione del conflitto di interessi. Lo invitiamo quindi a scegliere». «La situazione va vigilata» perché l’arrivo del Cavaliere «rimescolerebbe le carte in modo negativo».
Alla frenata di Prodi e dei prodiani, si aggiungono gli strali della sinistra radicale, che insiste sull’opportunità di un «governo pubblico» delle reti. Così Franco Giordano, segretario di Rifondazione Comunista, che sul Cavaliere è netto: «Penso che Mediaset non possa entrare nella vicenda». Piuttosto «c’è bisogno di una legge adeguata per risolvere il conflitto d’interessi». A stretto giro il leader dei Comunisti Italiani, Oliviero Diliberto, declina il suo no al Cavaliere telefonico: «Sarei terrorizzato, da cittadino e non da dirigente politico, dall’idea che Berlusconi metta le mani sulla più gigantesca rete di informazioni, quale è la rete Telecom». Un fuoco di fila che tiene la barra del dibattito sul possibile ruolo che Mediaset potrebbe giocare per mantenere forte la presenza italiana nel riassetto di Telecom accanto alle istituzioni finanziarie, tra cui le Generali e alcune fondazioni, imprenditori come Roberto Colaninno e la famiglia Benetton, già presente in Olimpia.
Le «leggi» cui Prodi fa riferimento sono il più grande nemico di un intervento di Mediaset nella vicenda. C’è anzitutto la legge Gasparri e i limiti che pone all’intreccio tra operatori tv e telefonici; c’è il disegno di legge di Gentiloni che di nuovo metterebbe in difficoltà un connubio tra i due colossi. E, infine, il più volte ricordato nodo del conflitto di interessi. Un gioco a incastri che, a seconda degli scenari, potrebbe quantomeno costringere una Telecom «mediasettizzata» a dover cedere i suoi canali Tv, La7 e Mtv, se non a costringere il Cavaliere a una plateale rinuncia.
Nel frattempo, mentre continuano i contatti tra le due banche capofila e tutti i possibili attori della cordata, la settimana riserva appuntamenti importanti. Il primo è oggi: l’assemblea di Pirelli che segue di pochi giorni il patto di blocco dove Mediobanca e Generali hanno chiesto e ottenuto maggiore collegialità nelle scelte strategiche. Intanto si attendono le mosse di Telefonica. L’operatore spagnolo potrebbe ufficializzare un proprio interesse per la partita italiana entro la settimana, in attesa di capire i prossimi passi di America Movil, unica sopravvissuta dell’originale cordata tex-mex, in bilico tra un rilancio e la definitiva ritirata.
MILANO - Un ingresso di Mediaset nella cordata italiana per Telecom? «Esistono le leggi», commenta lapidario il presidente del Consiglio Romano Prodi a margine di una conferenza stampa tenuta a Riad. L´intervento che si sta ipotizzando rientra comunque nei limiti della legge. Il 10% di una scatola che controlla il 18% porterebbe il controllo diretto di Mediaset su Telecom all´1,8%, un livello che non infrange alcun tetto legislativo. Ma anche se tutto rientrasse nei limiti legali i problemi derivanti da un ingresso di Berlusconi e Mediaset in Telecom non sarebbero di poco conto. I tessitori della cordata italiana, Colaninno in primis, qualora il progetto andasse in porto, si sarebbero già impegnati a vendere a terzi Telecom Italia Media, la società del gruppo che controlla due televisioni, La7 e Mtv. Questo per rispondere alle esigenze del centrosinistra di dar vita per davvero a un terzo polo televisivo, non come quello che negli ultimi sei anni è stato narcotizzato da Marco Tronchetti Provera per non disturbare Rai e Mediaset. E dunque per il gruppo di Berlusconi da questa operazione potrebbero derivare più danni che benefici, questi ultimi da ricercarsi nelle sinergie da sviluppare con l´operatore telefonico attraverso la banda larga. Mentre l´eventuale formazione di un agguerrito terzo polo tv potrebbe andare a incidere sulla torta pubblicitaria fin qui appannaggio di Mediaset. Un potenziale ingresso di Berlusconi in Telecom al fianco di banche e imprenditori è stato poi commentato negativamente da Arturo Parisi, ministro della Difesa. «Potrebbe solo peggiorare la situazione del conflitto di interessi. Lo invitiamo quindi a scegliere, la situazione va vigilata», ha detto intervenendo alla trasmissione "In mezz´ora" su Rai3.
Intanto, problemi televisivi a parte, proseguono i lavori per far avanzare la cordata italiana che nelle intenzioni dovrebbe rilevare da Pirelli il controllo di Olimpia. Tra oggi e domani si dovrebbe conoscere meglio l´orientamento di Intesa Sanpaolo, candidata a rilevare una quota importante della holding, mentre gli spagnoli di Telefonica pare non abbiano eccessiva fretta nel ripresentarsi alla corte di Telecom. Se il partner estero di minoranza, che tra l´altro dovrebbe pagare un premio di maggioranza, non dovesse palesarsi in tempi rapidi potrebbe prendere piede una sorta di soluzione B. Gli italiani rilevano da Pirelli la maggioranza di Olimpia, quindi provvedono a sostituire il management di Telecom il quale come prima missione dovrà definire se la società ha effettivamente bisogno di un partner estero e quale sarebbe il compagno di strada ideale.
L´azienda Telecom sta dunque vivendo una difficile fase di transizione che dovrebbe portare a un azionariato più stabile e a strategie più precise. Ma nel frattempo il neo presidente Pasquale Pistorio, che nei giorni scorsi ha incontrato Francesco Rutelli al convegno della Margherita, ha cominciato a prendere in mano il bastone del comando avviando un confronto serrato con il vicepresidente Carlo Buora. Quest´ultimo, nel consiglio successivo all´assemblea, aveva addirittura presentato una lettera di dimissioni per non aver ricevuto anche le deleghe relative alle strategie, affidate dall´azionista Olimpia a Pistorio. E un successivo chiarimento, richiesto dallo stesso Buora, con Marco Tronchetti Provera e Gilberto Benetton non ha portato ad alcuna correzione di rotta. Nei prossimi giorni, inoltre, Pistorio pigerà sull´acceleratore, dopo aver confermato negli incarichi sia Franco Brescia per l´area dei rapporti con le istituzioni, sia Francesco Chiappetta per la parte legale. Il presidente ha già convocato un cda per l´8 maggio in cui vorrà ottenere i poteri di firma sulle deleghe che gli sono state assegnate. E, secondo alcune voci che girano in azienda, ha intenzione di avocare a sè anche la comunicazione del gruppo che, secondo l´azionista Pirelli, negli ultimi mesi si è resa troppo autonoma dai soci di controllo.
Il caso Telecom non faccia rinascere nostalgie stataliste
Le barricate americane? Bush si è chiamato fuori e non sono state cambiate le regole
In una coraggiosa intervista a Orazio Carabini (Sole 24 Ore di domenica scorsa) l' ex capo della Fiat (ed ex editore di questo giornale) Cesare Romiti, ha criticato i capitalisti italiani «che non rischiano più niente» ed ha attribuito anche a se stesso errori importanti: negli anni 80 Romiti si battè affinché l' Iri cedesse l' Alfa Romeo alla Fiat, anziché agli americani, ma «oggi, col senno di poi, riconosco che probabilmente sarebbe stato meglio per la Fiat se la Ford fosse venuta a farci concorrenza in casa nostra». Nella polemica sul futuro della Telecom, cresciuta di tono col ritiro dell' offerta At&t, questo aspetto - la necessità di far crescere ovunque meccanismi concorrenziali all' interno di una cornice di regole certe - continua a restare sullo sfondo. Non che i temi che catalizzano l' attenzione (l' ipotesi Berlusconi e le condizioni dell' uscita di scena di chi ha fin qui gestito il gruppo in modo non certo brillante) siano secondari. Ma la necessità di soluzioni che (salvaguardando la rete) rispondano a meccanismi di mercato, non può finire nel dimenticatoio. Invece molti nella maggioranza e nello stesso governo parlano con disinvoltura di ipotesi di «ripubblicizzazione» più o meno parziale delle telecomunicazioni e il caso della Telecom viene usato anche per «bocciare» in blocco 15 anni di privatizzazioni. È senz' altro vero che il vecchio gioco delle «scatole cinesi» continua a prosperare e che la cessione delle aziende di Stato non ha fatto crescere, come si sperava, nuovi protagonisti dell' imprenditoria italiana, capaci di diventare giganti sulle ceneri di Iri ed Efim. Ma due cose non vanno dimenticate: 1) All' inizio degli anni 90 l' Italia era sull' orlo di una crisi finanziaria di tipo «argentino». La bancarotta fu evitata anche grazie ai miliardi affluiti nelle casse dello Stato con le privatizzazioni. 2) La Telecom, che nelle acque del mercato ha affrontato varie tempeste, faceva parte di un mondo delle Partecipazioni statali farcito di aziende di Stato ed enti abituati a perdere migliaia di miliardi di lire ogni anno. O a guadagnare imponendo agli utenti tariffe esorbitanti. Perfino l' Eni, il gruppo pubblico più redditizio e meglio gestito, arrivò a bruciare 1.500 miliardi nell' anno dello scontro più duro tra manager democristiani e socialisti. Oggi l' Eni - come del resto Enel e (in misura minore) Finmeccanica - guadagna vari miliardi di euro l' anno ed è spinto dagli azionisti italiani ed esteri a fare sempre meglio. Due giorni fa ho scritto sul Corriere che le interferenze politiche che hanno spinto l' At&t a ritirare la sua offerta fanno perdere credibilità all' Italia. Alcuni lettori mi hanno obiettato che anche l' America ha alzato barricate davanti a cinesi e arabi che volevano comprare rispettivamente Unocal (petrolio) e sei scali marittimi Usa. Attenti a non fare confusione: in quei due casi il governo (cioè Bush) non si è opposto né ha cercato di cambiare le regole. C' è stata una reazione dell' opinione pubblica (e di una parte del Congresso) dettata, nel caso dei porti, all' incubo-terrorismo nel quale l' America è ormai sprofondata dal 2001. Quanto a Unocal, ha pesato la natura tuttora comunista della Cina e la mancanza di reciprocità. Nonostante ciò l' Ibm ha venduto il suo settore computer ai cinesi di Lenovo. E, ancora, Lucent e Laboratori Bell, un tempo cuore tecnologico di At&t, sono passati ai francesi di Alcatel, mentre T-mobile, grande operatore Usa di telefonia cellulare, è tedesca. Di nuovo: è lecito chiedersi se At&t sia il partner giusto per Telecom (non sono così certo che sia l' impresa straordinaria descritta ieri sul Corriere dall' ambasciatore Ronald Spogli, visti i dubbi sulla lungimiranza delle sue strategie avanzati da diversi analisti Usa); ma non si possono invocare interventi contro l' «invasore».
Berlusconi: se c’è polemica pronto a un passo indietro
il caso
L’ipotesi Mediaset deve fare i conti con i veti della politica
ALESSANDRO BARBERA
ROMA
Se c’è bisogno, siamo lì. Se non c’è bisogno, non c’è nessuna volontà di intralcio». Se non ci consentiranno di investire, «chi se ne frega, non è così importante». Silvio Berlusconi e Telecom, atto secondo. Giovedì al congresso Ds l’apertura «a difesa dell’italianità», ieri la mezza marcia indietro fra i delegati della Margherita. Mentre a Milano proseguono fitti gli incontri per costruire una cordata (forse) italo-ispanica, a Roma le quotazioni di un ingresso di Mediaset (con una quota, è l’ipotesi, attorno al 5%) sono già in discesa. La richiesta - si dice - di Roberto Colaninno e delle banche, sostenuta da Fedele Confalonieri e dai figli dell’ex premier, deve far già i conti con i veti della politica e i divieti della legge. Berlusconi l’ha chiaro e mette le mani avanti. Ascolta la promessa di «non interferenza» da parte di Francesco Rutelli su tutta la partita, poi dice la sua: «Io non mi occupo di queste cose», figuriamoci, dice l’ex premier. Il pallino c’è l’hanno Fedele Confalonieri e i figli Marina e Piersilvio. Ma a quanto risulta al Cavaliere «Mediaset e Fininvest hanno solo «risposto a una domanda» e «non è stata ancora manifestata alcuna precisa volontà». Certo, se poi «si levano voci sul conflitto di interesse» o sul fatto che sarebbe una cosa «politicamente inaccettabile», allora «Fininvest si tirerà sicuramente indietro senza rimpianto alcuno». In ogni caso, «il mercato è il mercato».
Fra i pesi massimi della maggioranza non si odono né sussulti né grida. Nel governo da un paio di giorni a questa parte circola una specie di parola d’ordine: «Non cadere nel trappolone». Nessuno si fida di una disponibilità che sembra - dicono - costruita ad arte per essere smontata. «Nella migliore delle ipotesi vuole farsi dir di no», argomenta un’autorevole fonte di governo. «Oppure il non detto è la richiesta di modifica della legge Gentiloni sui tetti a frequenze e pubblicità. E questo non si può fare». E così, mentre Rutelli parla al massimo di scatole cinesi e Vannino Chiti di «regole e basta», ieri il no a Berlusconi è arrivato da un inedito asse fra gli ex ministri delle Comunicazioni Gasparri e Maccanico, Goldman Sachs e la sinistra radicale del governo.
I primi due hanno ricordato che è la stessa legge ancora in vigore, quella varata appunto dall’allora ministro di An, a porre seri paletti alla possibilità di Mediaset di investire contemporaneamente nelle televisioni e nella telefonia. Come va dicendo da giorni il ministro Paolo Gentiloni, anche se la partecipazione fosse di minoranza e inferiore al 10% consentito, Antitrust, Autorità per le Comunicazioni e Commissione europea potrebbero eccepire «il potere di influenza» nel settore. In una nota su Telecom, poi, la banca d’affari americana Goldman Sachs si è detta «scettica» sui benefici strategici dell’acquisto di una quota che per di più, comprendendo La7 e Mtv (controllate da Telecom), farebbe sforare i tetti di legge per la raccolta pubblicitaria. Gasparri va oltre: l’ingresso del Biscione in Telecom è «politicamente inopportuno». Più o meno quel che dice tutta l’ala sinistra del governo, radicali e non: fra gli altri Sergio D’Antoni della Margherita, il verde Angelo Bonelli, i Comunisti italiani e l’Italia dei Valori. Dal palco del congresso dei Democratici di Sinistra dicono no i leader delle due correnti alternative alla mozione Fassino, ossia Fabio Mussi e Gavino Angius. Il ministro della Ricerca dice che di Berlusconi basta «la tendenza all’abuso di posizione dominante nel mercato politico». Gavino Angius, dal canto suo, non lo vede «nei panni del salvatore della patria». Il leader di Rifondazione Comunista Franco Giordano invoca «una nuova legge sul conflitto di interessi»
SI STA COMPONENDO IL PUZZLE PER IL CONTROLLO DELL’AZIENDA
Telecom, Colaninno a piazzetta Cuccia
È la cordata italiana
Guzzetti (Cariplo):
«Se ci verranno presentate proposte, le valuteremo»
Gli americani di At&t restano alla finestra, ma in pochi puntano su un loro rilancio
ARMANDO ZENI
MILANO
Una visita veloce, poco più di un’ora ieri mattina in Mediobanca, ma quanto basta per confermare che qualcosa si sta pian piano muovendo attorno al progetto di costruire una cordata italiana per rilevare il controllo di Telecom Italia.
Visita veloce, ma tutt’altro che occasionale, insomma, quella di Roberto Colaninno, patron della Piaggio e dell’Immsi, accompagnato da Ruggero Magnoni, vicepresidente di Lehman Brothers, banchiere d’affari di fiducia di Colaninno e soprattutto il banchiere, particolare niente affatto secondario, che ha appoggiato fin dall’inizio quella famosa opa di Olivetti su Telecom che portò l’imprenditore mantovano al vertice del gruppo telefonico prima di cederlo a Marco Tronchetti Provera. Dopo la disponibilità a partecipare pronunciata da Silvio Berlusconi - che ieri ha ribadito: «Siamo pronti a fare la nostra parte a parità con altri imprenditori», ma ha anche confermato che Fininvest «si tirerebbe indietro senza alcun rimpianto» se l’idea fosse considerata politicamente inaccettabile - ecco il segnale di Colaninno con la sua visita in Mediobanca. Lavori in corso, dunque. Con Mediobanca e Intesa Sanpaolo, i due big finanziari che stanno impegnandosi nella regia dell’operazione che fino a qualche giorno fa sembravano battere percorsi diversi ma che adesso, soprattutto dopo l’abbandono del progetto di scissione di Pirelli che era la via individuata dagli uomini di piazzetta Cuccia per acquisire il controllo di Olimpia-Telecom, sembrano pronti a una convergenza inevitabile.
Sullo sfondo, l’offerta per il 33% di Olimpia a 2,92 euro per azione presentata dal miliardario Carlos Slim per conto della sua America Movil: le trattative tra l’advisor del gruppo messicano, la JpMorgan, e la Pirelli non si sono interrotte come invece è capitato con At&t e fino al 30 aprile, sulla carta, America Movil ha tempo per decidere cosa fare. Ma sono in pochi a ritenere possibile un acquisto messicano. Così come in pochi, nonostante la parziale retromarcia di At&t, ad immaginare che il colosso texano possa realmente concretizzare con una nuova offerta il suo ripensamento. Anche perchè, nel frattempo, è un altro l’operatore straniero di tlc che si è fatto avanti candidandosi apertamente a fare da partner azionario e industriale in Telecom Italia: gli spagnoli di Telefonica che, per chiudere l’accordo, sarebbero pronti a sborsare 3 euro per azione e hanno da giorni fatto sapere della loro disponibilità a Mediobanca e a Pirelli.
Insomma, il grande puzzle si sta lentamente componendo. Ma servono ancora alcuni passi decisivi anche se la rinuncia di Mediobanca all’ipotesi della scissione di Pirelli può certo favorire quel progetto di cordata unica con Intesa che è nelle aspettative di quanti auspicano una soluzione che garantisca un controllo italiano a Telecom. Il modello preferito da Intesa resta quello di far acquisire il controllo di Telecom da Olimpia per poi passarlo a un gruppo di investitori composto da imprenditori, fondazioni (ieri il presidente della fondazione Cariplo Giuseppe Guzzetti ha confermato che, «se ci sono delle proposte che ci vengono presentate, le valuteremo») e banche con un partner internazionale come Telefonica. Mentre Mediobanca, archiviata la scissione Pirelli, preferirebbe una public company dove riunire una quota il più vicina possibile al 30% del capitale Telecom suddivisa tra gruppi imprenditoriali (Mediaset, Colaninno, Benetton, Leonardo Del Vecchio), istituzioni finanziarie (Mediobanca, Generali, Hopa), banche e fondazioni.
At&t non chiude le porte a Telecom. Il direttore generale del colosso americano dei telefoni, Randall Stephenson, ha fatto sapere che per il momento «c'è troppa incertezza per poter investire capitali in quel Paese [l'Italia, ndr], c'è un'enorme agitazione». Ed ha poi aggiunto: «Se quelle cose non ci saranno più e un domani si presenterà una nuova opportunità, bene». Se dunque le resistenze dello stagnante mondo politico ed economico italiano hanno finora ostacolato l'accordo, è forse possibile immaginare, dopo queste parole, che At&t non archivierà definitivamente la pratica Telecom, con buona pace di coloro che avevano cominciato a preoccuparsi un po' troppo presto della fuga degli americani, cadendo involontariamente nella trappola di chi ha interesse a far crollare i titoli in Borsa, per rendere alla fine il gioco più appetibile. E sono in molti ad aspettare il momento giusto per "scendere in campo". A scendere in campo, lo si sa, è ormai tradizione nel nostro paese, è Silvio Berlusconi, che con un occhio compiaciuto ai congressi di Ds e Margherita che concluderanno le loro strade convolando a nozze, fa sapere che se si tratta di fare un affare del genere, a condizioni vantaggiose, non sarà certo lui il primo a tirarsi indietro.
Intanto si torna a discutere della questione "rete", ma poco o nulla si dice del danno arrecato finora, non solo al mercato, con lo stato attuale delle telecomunicazioni. Dopo che meritoriamente è stato preso ad esempio il modello inglese per una possibile evoluzione in senso liberista del nostro mercato, è arrivata una nota del Garante in cui si annuncia che il documento da sottoporre a consultazione pubblica per la separazione funzionale della rete Telecom sarà deliberato dall'Autorità per le Comunicazioni il 2 maggio prossimo.
Pare dunque che l'Authority punti a chiudere la partita entro l'estate per arrivare a fine anno alla conclusione del procedimento sulla separazione funzionale della rete Telecom. Se lo scorporo della rete non scivolerà verso una inutile e costosissima rinazionalizzazione della rete, allora saremo vicini a una soluzione del problema, mettendo il paese al riparo dalle logiche monopolistiche. Se sarà seguito il modello inglese occorrerà ricordare che esso non si basa sul carattere di bene pubblico della rete fissa, ma pone regole molto strette a chi la gestisce e a chi ne usa i servizi.
Openreach, che è nata nel 2006, è una divisione di British Telecom, separata solo operativamente dall'azienda, a cui fanno capo appunto le attività della rete. Il suo compito è quello di garantire un accesso alla rete libero e a pari condizioni per tutti gli operatori di telecomunicazioni del paese: tutto questo sotto la supervisione di Ofcom, l'autorità regolatoria di settore.
Se si seguirà la strada di Openreach ci saranno però altri nodi da sciogliere. Occore infatti capire come porre mano su quanto è avvenuto finora in Italia in termini di concorrenza tra le reti, con alcuni operatori che hanno costruito le proprie infrastrutture alternative. E qui si tratterà di smettere di pensare al modello (inglese), e occorrerà cercare di far funzionare il modello, adattandolo alla nostra realtà.
D’Alema è stufo di parlare di Telecom, così ha detto ieri al PalaMandela di Firenze mentre quel che resta della sinistra marxista offriva il suo obolo alla costruzione di un partito "democratico", nome americano per una formazione politica pluralista in cui destra sinistra e centro sono d'accordo almeno su una cosa: che i problemi contano più delle ideologie, e che il radicamento culturale liberai, progressista, non deve accecare le classi dirigenti quando si tratti di far funzionare una moderna democrazia capitalistica (della stessa opinione sono i laburisti inglesi di Tony Blair).
Con una sua noticina, la Farnesina ha cercato penosamente di edulcorare agli italiani il senso della sculacciata di robusta mano che questo governo impiccione e bananiero ha ricevuto ieri dall'ambasciatore degli Stati Uniti a Roma, Ronald Spogli, mediante una lettera al Corriere della Sera. Non c'era bisogno dell'ermeneutica farnesiniana. Dalla lettera di Spogli, ennesima agenda del buonsenso dopo quelle di Francesco Giavazzi e dei volenterosi, compresi molti diessini ed ex diessini con la testa sulle spalle, si capisce tutto quel che c'è da capire. Non c'è impresa senza capitali, i capitali si orientano più o meno secondo la legge del mercato, in Italia ne entrano pochi, siamo agli ultimi posti in Europa perché i partiti mettono le mani sul mercato e si fanno le regole cucite addosso, rendendole "imprevedibili" e variabili in ogni momento, come afferma in sintonia con gli americani la Commissione di Bruxelles inorridita dal protezionismo declamatorio di un governo che si rende esperto nella turbativa degli incanti non appena appare un'offerta di compravendita. E' vero, come dimostrano i casi olandese e spagnolo (Barclay's vs Abn Ambro sotto il tiro della Banca centrale e Consob spagnola contro Enel per l'opa su Endesa), che non siamo gli unici, ma sicuramente siamo i peggiori. Ricordare Autostrade.
L'accanimento verso Pirelli e Telecom, l'impasto lobbistico in cui parte dei media e della magistratura mettono continuamente le loro rozze mani, è stato provvisoriamente fermato dall'offerta tex-mex per i nostri telefoni, che ha rovesciato la tendenza al solito esproprio a basso prezzo mascherato da consociazione bancocentrica all'insegna dell'italianità. Ora i ministri propalatori di decreti e leggi e nuove norme ad hoc, gli stessi che ieri tuonavano contro la Gasparri e oggi la invocano con effetti ridicoli notevoli, cercano di nuovo le vie della controffensiva contro un'azienda che sarebbe opaca nella sua catena di controllo. Pubblichiamo il grafico che mostra la trasparenza della catena di controllo del gruppo che possiede l'impero editoriale leader nella crociata anti Telecom, il gruppo dell'ottimo ingegner De Benedetti. Il grafico campeggiava ieri sulle pagine del confindustriale Sole 24 Ore, in tutto il suo effetto provocatorio. Buon segno. Forse il "capitalismo impresentabile" del presidente della Camera, che ha usato una formula utile a molti ma non al proletariato di cui assume la tutela, ha deciso di presentarsi all’appuntamento con le conventicole bananiere, per una volta con le mani libere.
La vicenda Telecom ha scatenato uno degli usuali psicodrammi nazionali e ha evidenziato alcuni atteggiamenti deplorevoli, tra cui un po' di nazionalismo maccheronico, una voglia di interventismo dirigista e soprattutto il vizio di voler riscrivere le regole in corso di partita per raggiungere un determinato fine politico.
Franco De Benedetti ha già brillantemente ridicolizzato in altre sedi la voglia di "retinite" che ha contagiato il mondo politico e delle autorità indipendenti, tutti protesi a scorporare la Rete Telecom proprio quando sono arrivate le offerte dei gringos.
Un altro aspetto sul quale si è concentrata l'attenzione soprattutto di Antonio Di Pietro, riguarda il diritto societario. Il ministro delle Infrastrutture lamenta che in Italia sia difficile raccogliere le deleghe dei piccoli azionisti per andare in assemblea delle società quotate, che con una minoranza delle azioni si possa ottenere la maggioranza dei consiglieri di amministrazione e che ancora esistano le famose scatole cinesi le quali consentono con poco investimento di controllare grandi società.
L'ex pm vorrebbe introdurre norme che prevedano una rappresentanza proporzionale nel consiglio di amministrazione ("70% degli amministratori col 70% delle azioni" ), facilitare la raccolta deleghe, debellare le scatole cinesi. Anche nel caso dell'approccio di Di Pietro, non si capisce perché, avendo il Governo emanato solo poche settimane fa il decreto correttivo del Testo Unico della Finanza e di quello Bancario, ora ci sia urgenza di nuove regole: possibile che si debba legiferare solo quando i barbari sono alle porte a seconda delle idiosincrasie dell'uno o l'altro politico?
E questo ci porta al discorso delle scatole cinesi. È vero che in Italia il fenomeno è diffuso e altrove no, soprattutto nei mercati più trasparenti come quelli anglo-americani, ed è indubbio che pur investendo poco denaro la holding in cima alla catena di controllo si assicura i benefici privati del controllo (come alti stipendi e stock optino per gli amministratori espressione dell'azionista dominante). In un recente libro, Salvatore Bragantini ha riassunto bene tutti gli svantaggi del sistema. È altrettanto vero però che in altri Paesi (in Scandinavia e negli Stati Uniti, ad esempio) attraverso le azioni con voto multiplo o altre forme di privilegio basta spendere pochissimo per governare una società (il New York Times ne è un esempio). Se si tratta di pochi casi, però, non è per le regole (né in America nè in Gran Bretagna le catene di controllo sono proibite) ma perché è il mercato che rifiuta la pratica, defalcando il valore delle azioni delle società "impure", atteggiamento questo che comincia ad affacciarsi anche in Italia. Piuttosto, è importante avere buone norme di governance che impediscano le operazioni con parti correlate svantaggiose perla società, diano potere di azione e rappresentanza ai soci di minoranza, puniscano severamente le manipolazioni di mercato, assicurino la trasparenza dei conti Nel Belpaese ora tutto questo c'è: ciò che da noi è storicamente mancato è l'attuazione delle regole e il dialogo tra Authority e mercato quando vengono emanati nuovi regolamenti.
Diverso è il caso di società come Telecom, ove basterebbe che qualcuno comprasse il 20% per prendere il controllo (attualmente Olimpia ha il 18%). Lì il problema non sono le scatole cinesi, ma la politica: alcune imprese sono a rischio di scossa elettrica mortale e nessuno si azzarda a toccarle senza il beneplacito del Governo. Perché arrischiare capitali quando un domani Diliberto o Bersani mi possono far perdere miliardi intervenendo sulla regolamentazione del mercato? Il ritiro di At&T conferma appieno la supposizione. Per venire alla proposta più bizzarra, quella della rappresentanza proporzionale in cda, se una regola di questo tenore dovesse essere introdotta, credo che la Borsa italiana dovrebbe chiudere per mancanza di società quotate. In primis l'Italia sarebbe l'unico Paese al mondo a dotarsi di una tale norma. In secondo luogo, i soci si dividono tra quelli che investono come risparmiatori, e se non sono contenti della governance o dei risultati aziendali vendono le azioni, e coloro i quali dirigono la società Quest'ultima richiede controlli ma anche unitarietà di azione, tutto il contrario di quello che un cda-arlecchino è in grado di garantire. Infine, se le società volessero, potrebbero già oggi dotarsi di uno statuto che prevede la proporzionalità, eppure nessuna impresa quotata al mondo, nemmeno quelle operanti in contesti ad azionariato diffuso, lo ha fatto. Possibile che Di Pietro sappia meglio di tutti gli operatori economici, le associazioni di azionisti, i fondi di investimento, i fondi pensione, o gli odiati hedge fund cosa è meglio per governare una società? Anzi un prototipo c'è ed è quello del famoso numero telefonico di Bettino Craxi. Ricordate? A chi gli chiedeva con che criteri di professionalità veniva formato il cda della Rai ai tempi della Prima Repubblica, Craxi rispondeva con il numero telefonico 643111: sei democristiani, quattro socialisti, tre comunisti e uno ciascuno ai partiti laici. Bell'esempio per chi la Prima Repubblica ha contribuito a seppellire.
«Noi siamo stati semplicemente richiesti nel caso di una cordata italiana e il mio gruppo ha detto che per mantenere l'italianità di un'azienda così importante siamo disponibili a parità di intervento di altri imprenditori». L'azienda così importante si chiama Telecom; il gruppo che si muove a compassione per il rischio di perdere l'italianità è Fininvest-Mediaset; il dichiarante, naturalmente, è Silvio Berlusconi.
Dopo giorni di voci e smentite, di ipotesi e suggestioni, è direttamente il fondatore del Biscione a esporre la posizione del gruppo, scegliendo con cura platea e parole. È stato un imprenditore esperto e un politico assai accorto, infatti, il Silvio Berlusconi che così ha parlato, rispondendo alle domande dei cronisti, prima di godersi lo spettacolo dell'ultimo congresso dei Ds dal posto in prima fila riservatogli. L'interesse dell'imprenditore Berlusconi per un pezzettino sinergico di Telecom è così arrivato forte e chiaro a una platea diessina che, nei giorni scorsi, è riuscita ad agitarsi da subito, appena il suo nome è stato accostato alla Telecom di domani. Naturalmente, quella stessa platea, quello stesso mondo politico, di fronte all'ipotesi di un suo ingresso - anche laterale o marginale - nel nocciolino italiano che potrebbe essere domani, ha già mostrato, ieri, di potersi sgretolare in mille pezzi ancora una volta. Come sempre quando c'è di mezzo il Cavaliere e il suo conflitto d'interessi.
Ma il vero capolavoro tattico di Silvio sta tutto in una parola: italianità. Basta raccogliere e antologizzare tutte le dichiarazioni di governo e maggioranza, da Romano Prodi fino all'ultimo sottosegretario, da Massimo D'Alema fino all'ultimo peones, per capire che il Cavaliere, come quasi sempre, ha preso bene la mira. Telecom? Un'azienda strategica che deve restare italiana. Telecom? Un patrimonio di questo paese che non possiamo permetterci di perdere. Telecom? Una grande e redditizia azienda che non può non fare gola alla nostra imprenditoria. Al netto del mercatismo internazionalista di Daniele Capezzone, o dell'acuta osservazione sulla «italianità di Tavaroli» di Emma Bonino, insomma, un coro a mille voci che canta Fratelli d'Italia sulle reti telefoniche.
E così, carico dell'italianità di tutto il centrosinistra, e anche e soprattutto di quella del premier, Silvio Berlusconi ha buttato sul tavolo una fiche pesantissima. Perché dopo settimane di tam-tam tricolore, lungo l'affaticata cinghia di trasmissione che ancora parte dai vertici per arrivare alla base della sinistra italiana, l'argomento non si può smontare con due parole veloci sul Cavaliere né, tantomeno, sul suo sempre verde e mai affrontato - pesa quasi ripeterlo ancora una volta - conflitto d'interessi. A contattare il gruppo nell'affannosa ricerca di costruire una filiera italiana decente, peraltro, sarebbe stata direttamente Intesa-Sanpaolo, non certo una banca antiprodiana.
Poi, naturalmente, c'è l'interesse di un gruppo, Mediaset, a mettere le mani su nuovi asset strategici, a sviluppare concretamente sinergie positive per un futuro industriale che altrimenti non sarebbe poi così roseo, magari a portarsi a casa Alice per far correre su internet i suoi contenuti e, semmai tra poco, quelli accresciuti dall'eventuale acquisto di Endemol per cui sta lavorando in Spagna. Mosse strategiche importanti, per il più grande gruppo televisivo italiano - sottolineiamo: italiano - che mira probabilmente a darsi un futuro competitivo sulle tecnologie che decideranno domani, spendendo assai meno di quanto costerebbe, sul mercato. E contribuendo in modo importante a lasciare in mani italiane - italiane - la prima azienda di tlc, cioè la Telecom. Tutti contenti, fratelli d'Italia?
(Da "Notizie Radicali", quotidiano telematico di Radicali italiani)
La giungla del copia-incolla delle intercettazioni
di Michele Lembo
La Commissione europea deve «rimanere vigile» sulla vicenda Telecom Italia, una vicenda che dimostra che in Italia permangono «pressioni protezionistiche» nel settore delle telecomunicazioni. È quanto chiede il Commissario europeo alla Società dell'informazione e dei media Viviane Reding in una lettera inviata a tre commissari Ue (Kroes, McCreevy e Piebalgs) e al presidente della Commissione Ue, Josè Manuel Barroso. Questo uno degli ultimi atti della vicenda Telecom.
Intanto la Camera dei Deputati ha approvato il disegno di legge sulle intercettazioni telefoniche. Trenta giorni di carcere o, in alternativa, una multa da 10mila a 100mila euro per chi pubblica o diffonde il contenuto di atti di indagine e di intercettazioni telefoniche, anche se non più coperte dal segreto, prima che sia cominciato il dibattimento. Il testo di legge, oltre a introdurre una serie di divieti per evitare la diffusione di notizie lesive della privacy (soprattutto di chi non è coinvolto nelle indagini), prevede anche altre novità sul fronte del ricorso alle intercettazioni da parte della magistratura. Ad esempio una su tutte: entro il 31 marzo di ogni anno, il procuratore dovrà inviare al ministro della giustizia una relazione sulle spese di gestione e amministrazione riguardanti le intercettazioni dell'anno precedente e il ministro dovrà girare la relazione alla Corte dei conti per il controllo sulla gestione amministrativa. Tutto ciò per contenere il ricorso massiccio alle intercettazioni.
Con il via libera della Camera al provvedimento, non hanno tardato a palesarsi le rimostranze della Fnsi e dell'Ordine dei giornalisti, che hanno parlato di forti limitazioni della libertà di stampa, e il direttore de "Il Giornale", Maurizio Belpietro, ha voluto ironicamente accomiatarsi dai suoi lettori dichiarando che, con tali disposizioni, si impedisce sostanzialmente al giornalista di fare il suo mestiere.
Rimane tuttavia del tutto rimosso, sepolto nella discussione pubblica, il tema del ruolo del monopolista, e per quel che riguarda gli anni passati, il ruolo di Telecom. Sarebbe utile ad esempio discutere sull'aspetto tecnologico con il quale si realizzano e si sono realizzati i controlli. Sappiamo che il Cgag è stato l'organo all'interno di Telecom Italia deputato ad avere a che fare con la magistratura. Il magistrato disponeva l'intercettato e il Cnag se ne occupava, mettendo a disposizione degli inquirenti i supporti tecnologici con i quali effettuare l' "ascolto".
Secondo quanto hanno riferito giornali e televisioni negli ultimi mesi, almeno fin dal 1995 la tecnologia usata per realizzare le intercettazioni non è stata più quella delle audiocassette, quella delle "bobine", come usò dire D'Alema nei giorni della bufera Unipol, che sembrava aver travolto anche lui. Il vantaggio della tecnologia antiquata, quella delle bobine appunto, stava nel fatto che ogni copia del materiale intercettato poteva in qualche modo essere identificata, esisteva di fatto materialmente una bobina, da tenere in mano, da mettere in una tasca, e distruggendola, si poteva avere una qualche certezza che si sarebbe garantito il cosiddetto diritto alla riservatezza delle persone intercettate.
Con la tecnologia digitale, con l'uso dei file, sappiamo che in ogni passaggio da un computer all'altro, da una casella di posta elettronica all'altra, è possibile fare una copia del materiale intercettato, e dell'operazione di copia non rimane alcuna traccia effettiva, se non nel computer dove viene effettuata la copia. Materialmente poi è praticamente impossibile rintracciare una copia in un computer, in cui un utente abile può creare un tale labirinto di cartelle e sottocartelle, dove difficilmente ci si può raccapezzare. È inoltre molto facile far passare un file da un pc in una redazione, in un ufficio, ad un pc di casa.
Questo significa, in parole povere, che siamo probabilmente ancora esposti al rischio che coloro che per conto del Cnag, e per conto della magistratura, realizzano il lavoro della intercettazione telefonica, possano ancora in qualche modo conservare copia del materiale intercettato, che può essere utilizzato dunque in qualsiasi modo. Esiste inoltre un altro scenario. La tecnologia attuale consente tagliuzzamenti e "copia incolla" del materiale intercettato nemmeno immaginabili con la tecnologia delle "bobine" di dalemiana memoria.
In tutto questo non pare sia intervenuto alcun elemento decisivo di regolamentazione, è dunque possibile che si vedrà ancora una volta, magari in un contesto particolarmente critico politicamente, ancora una volta, come ad esempio abbiamo visto nei giorni di "calciopoli", di Unipol o del caso Fazio, le redazioni dei giornali, magari quelli che avranno a che fare con la nuova proprietà Telecom, inondate del materiale intercettato.
Telecom. Capezzone: sconcertante nota Farnesina. Da giorni fuoco di fila del Governo contro presenza non italiana...
Se andiamo avanti così, peggioreremo il nostro 98° posto nell'attrazione di investimenti esteri...
19 aprile 2007
• Dichiarazione di Daniele Capezzone, Presiodente della Commissione attività produttive della Camera:
In tutta franchezza, appare piuttosto sconcertante la nota della Farnesina in risposta all'Ambasciatore americano Ronald Spogli.
Sembra che al Ministero degli Esteri sia stata smarrita la rassegna stampa delle ultime due-tre settimane, con un vero e proprio fuoco di fila del GOverno contro At&T: il Premier, il Ministro degli Esteri, il MInistro dello Sviluppo, il Ministro delle Comunicazioni, il Ministro delle infrastrutture, più -a rinforzo- il Presidente della Camera e una mezza dozzina di leader politici.
E se penso, in aggiunta, al fatto che prima di At&T si è detto no a Murdoch e alla spagnola Telefonica, e -su un altro piano- alla vicenda Autostrade-Abertis, temo che molto presto peggioreremo il già deprimente 98° posto nel mondo dell'Italia nella classifica della attrazione degli investimenti esteri...
A pagina 127, il programma dell'Unione deplorava la cosa (cioè questa maglia nera in classifica), ma ora mi pare che si voglia aggravare la situazione...
Insomma, chi porterà un euro, un dollaro, una sterlina in Italia se continuiamo a muoverci così?
«Sarebbe ingeneroso considerare le iniziative del Governo italiano come volte ad ostacolare gli investimenti stranieri» in Italia, perchè «l'interesse primario dell'Italia è quello di attrarre investimenti». Così il portavoce della Farnesina Pasquale Ferrara commenta la lettera dell'ambasciatore Usa Ronald Spogli pubblicata oggi dal Corriere della sera in merito alla vicenda Telecom.
Beh... se l'interesse primario di questo governo è attrarre investimenti e questi sono i risultati, è evidente che questo governo ha fallito, ma proprio di brutto!
Ora possono scegliere: incapaci o bugiardi?
In ogni caso farebbero bene a togliere il disturbo.
• da Corriere della Sera del 19 aprile 2007, pag. 1
di Ronald P. Spogli
Caro direttore,
la decisione di At&t, una delle più grandi aziende statunitensi e leader mondiale nel settore delle telecomunicazioni, di ritirare la sua proposta d'investimento in Italia, ha suscitato tanti commenti e molte discussioni. L'Italia ha perso l'interesse da parte di un'impresa di altissimo livello, capace di migliorare i servizi di telecomunicazione, ridurre i costi per gli utenti italiani e aumentare il valore di un'azienda nazionale.
Allo stesso tempo, ciò che è accaduto è stato utile ad attirare l'attenzione sul possibile ruolo degli investitori esteri per la crescita economica dell' Italia. L'episodio Telecom Italia-At&t permette infatti un'analisi più ampia. Da oltre un anno sto promuovendo un'iniziativa dell'ambasciata degli Stati Uniti in Italia chiamata Partnership for Growth. L'obiettivo è quello di stimolare le grandi potenzialità dell'economia italiana, che spesso non vengono pienamente sfruttate.
L'iniziativa si è concentrata soprattutto sull'imprenditoria e sull'innovazione come forze trainanti della crescita. Tra le varie attività, abbiamo analizzato con diversi interlocutori italiani la necessità di ampliare il mercato dei capitali e di promuovere strumenti finanziari che possano aiutare gli imprenditori a creare nuove imprese e a far crescere e rendere più competitive quelle già esistenti. Senza accesso ai capitali, ovvero agli investimenti, l'imprenditoria rimane solo un'idea. Come noto, gli investimenti in aziende nuove o già esistenti in Italia sono scarsi.
Si preferisce investire nelle proprietà immobiliari, o nella casa per il figlio, piuttosto che scommettere su una nuova azienda promettente. Spesso, inoltre, vengono innalzate barriere nei confronti delle imprese straniere che intendono investire in Italia. Sia che si tratti di investimenti in infrastrutture (autostrade o aziende di telecomunicazione), in servizi finanziari (una grande banca) o nei trasporti (una compagnia aerea), una delle prime reazioni all'interessamento da parte di un'azienda straniera è la sottolineatura che deve prevalere l'interesse nazionale.
Qual è il risultato di questo approccio poco aperto nei confronti dei capitali stranieri? Un rapido confronto con gli altri Paesi europei può essere molto illuminante. Secondo i dati dell'Unctad, la Conferenza delle Nazioni Unite per il Commercio e lo Sviluppo, nel 2005 l'Italia ha attirato circa 20 miliardi di dollari di nuovi investimenti stranieri. La Francia oltre 60 miliardi. La Gran Bretagna, leader tra i Paesi più industrializzati, 165 miliardi.
In qualità di ambasciatore degli Stati Uniti, mi interesso maggiormente degli investimenti del mio Paese, e anche in questo caso la situazione non è confortante. Fino al 2005 il totale degli investimenti americani in Italia ammontava a poco meno di 26 miliardi di dollari, ben al di sotto dei 324 miliardi in Gran Bretagna, degli 86 miliardi in Germania, dei 61 miliardi in Francia e perfino dei 43 miliardi in Spagna. Questi dati dovrebbero far riflettere. Gli investimenti non arrivano dove non sono ben accolti, dove le regole del mercato vengono cambiate continuamente.
Modificare le regole aumenta il livello di rischio e rende molto difficile programmare le azioni future di un'impresa o di un singolo cittadino. Non conosco i dettagli della trattativa per Telecom, ma la lettera di rinuncia di At&t esprime chiaramente il timore di investire in un mercato dove le regole sono imprevedibili. Credo che sia un timore comprensibile, che la maggioranza degli italiani condividerebbe.
Bisognerebbe concentrarsi meno su chi vuole investire e maggiormente sul fatto che l'Italia è agli ultimi posti tra i Paesi europei in termini di crescita del Pil e aumento dei salari e della produttività. Esiste un chiaro legame tra questi dati e lo scarso livello degli investimenti. Per assicurare la giusta priorità alla crescita e alla produttività, occorre valutare attentamente e senza pregiudizi le proposte di investimento.
Le aziende otterranno maggiori fondi e diverranno più competitive? Il cambiamento aggiungerà valore? I servizi miglioreranno? I consumatori, a Roma, Milano o Lecce, avranno benefici? Queste sono le domande da porsi, ricordando sempre che tutto ciò che stimola gli investimenti esteri ha un impatto positivo anche sugli investimenti interni. Per questo motivo, c'è bisogno di una visione più positiva.
L'Italia deve crescere e competere con successo nel mercato globale per sostenere il suo modello sociale e per offrire nuove opportunità ai giovani. Un atteggiamento più aperto nei confronti degli investimenti può senza dubbio aiutare a raggiungere questi importanti obiettivi.
Devastato e impresentabile. Non ha trovato di meglio Fausto Bertinotti, presidente della Camera, per definire il capitalismo italiano. Un linguaggio che andava bene quando era leader di «Essere sindacato», non la terza carica dello Stato. Colpisce il deragliamento nei toni di chi in altre occasioni invece era stato capace di sorvegliare il linguaggio. Tutte le crìtiche sono legittime (in questo stesso giornale a pagina 11diamo conto di una polemica proprio sui rapporti tra politica e imprese), ma da un'alta carica istituzionale non ci si aspetta questo linguaggio in un momento in cui, tra l'altro, l'immagine del Paese nel mondo è profondamente sotto scacco. L'Italia si sta distinguendo per lo scarso rispetto delle regole del mercato e dell'economia: gli investitori esteri sono in fuga. Le parole di Bertinotti sono l'ennesima prova del clima anti-impresa che serpeggia nel Paese. E certo non sono un buon viatico (soprattutto se non troveranno una presa di distanza) per il doppio appuntamento congressuale che dovrebbe dare vita al Partito democratico.
• da Corriere della Sera on line del 19 aprile 2007
di Federico De Rosa
At&t non chiude il dossier Telecom. Anzi, per certi aspetti lo riapre a sorpresa. Il compito è toccato al direttore generale del colosso americani, Randall Stephenson, che parlando ieri al club dei dirigenti del Boston College ha ammesso che «c’era troppa incertezza per poter investire ora capitali in quel Paese. C’era un’enorme agitazione». Ed ha poi aggiunto che «se quelle cose non ci saranno più e un domani si presenterà una nuova opportunità, bene». Un riferimento persino ovvio alla politica, che ha ostacolato fin dal principio l’offerta lanciata dal gruppo di San Antonio, Texas, per acquisire un terzo del capitale di Olimpia (la holding all’80% di Pirelli e al 20% di Benetton che detiene il 18% di Telecom) diventando così l’azionista dominante della maggiore compagnia italiana di telecomunicazioni. Stephenson non ha lasciato spazio all’immaginazione: «Le resistenze politiche hanno sinora bloccato l’accordo», ha concesso. Insomma, At&t non archivia la pratica e potrebbe «in futuro, se si presenterà un’altra occasione» tornare alla carica. Tantopiù che, come ha ribadito il direttore generale, «Telecom è una buona società, con ottimi asset e grande capacità nelle tecnologie di telecomunicazioni cellulari».
I MOVIMENTI ITALIANI — Lo scenario sembra insomma ancora in pieno movimento. Ieri la Consob è tornata ad accendere un faro sui movimenti attorno al gruppo telefonico. Lamberto Cardia si è fatto vivo con Intesa Sanpaolo e Mediobanca, per avere chiarimenti. Ci sono «contatti con più parti a vario titolo interessate all’eventuale operazione—ha risposto Ca’ de Sass—e sulla base dell’attuale stato interlocutorio di tali contatti non è possibile formulare indicazioni in merito al loro possibile esito». Analogo il comunicato di Piazzetta Cuccia, che ha confermato «di avere tuttora in corso contatti generici con potenziali investitori in Olimpia» ma di non poter «esprimere alcun giudizio in ordine al loro possibile esito né alle modalità attuative di eventuali operazioni».
I CANDIDATI «INDUSTRIALI» — Stavolta, però, la Consob ha fatto un passo avanti rivolgendosi anche a Roberto Colaninno e Fedele Confalonieri, i cui nomi sono stati associati alle due banche per un possibile ingresso in Olimpia. Il patron dell’Immsi «pur seguendo con attenzione le vicende relative al gruppo Telecom» ha fatto sapere che «non sono in corso trattative». E ancheMediaset «non ha in corso trattative riferibili all’eventuale cessione di quote della società Olimpia». Una precisazione, quella del Biscione, che non ferma tuttavia le critiche sollevate dall’ipotesi di ingresso nella cassaforte del gruppo telefonico. Ieri il ministro delle Comunicazioni, Paolo Gentiloni, ha chiarito che la Legge Gasparri esclude «non solo il controllo ma anche il collegamento tra le due aziende» che scatterebbe se Mediaset dovesse assumere in Telecom una «partecipazione dal 10% in su».
IL DEBUTTO DEL PRESIDENTE—Il puzzle del riassetto Telecom, comunque, sembra ancora lontano dall’esser completato. In più, adesso, oltre al possibile ritorno di At&t, c’è anche un’altra variante da tener presente: l’arrivo di Pasquale Pistorio, che ieri si è insediato nel suo ufficio di Piazza Affari. «E’ stata una prima giornata di presa di contatto con la società», ha spiegato ai cronisti che lo hanno intercettato al termine del primo giorno di lavoro da presidente di Telecom. Nessun contatto con le banche ma «solo con l’azienda, l’unica cosa che mi interessa», ha precisato. L’arrivo dell’ex numero uno di StMicroelectronics segna per il momento una svolta importante. Pistorio non voleva un ruolo di mera rappresentanza, ma pieni poteri. Emercoledì li ha avuti dal consiglio che gli ha assegnato anche la delega sulle strategie, prima in mano al vicepresidente operativo Carlo Buora. Il quale, prima della riunione del board, avrebbe avuto un faccia a faccia con Marco Tronchetti Provera.
IL DIBATTITO IN CONSIGLIO—Sulla proposta di distribuzione dei poteri, presentata al board dal consigliere anziano Luigi Fausti, ci sarebbe stata discussione in consiglio. Terminata con l’assegnazione delle strategie al neopresidente, che l’8 marzo si era astenuto dal votare il piano di sviluppo proposto da Rossi, Buora e Riccardo Ruggiero. Ora, con Pistorio alla testa dell’azienda, quel business plan sarà quasi certamente rivisto. Il board dovrebbe tornare a riunirsi l’8 maggio con all’ordine del giorno la nomina dei comitati interni per le strategie e il controllo.
Un leitmotiv attraversa il drammone Telecom: il “tema della rete” Lo espongono violini e ottoni, coprendo il sordo agitarsi di violoncelli e legni, che raccontano di lotte vere, di potere e di danaro. Lo ripetono sempre variato. Alla fine sarebbe irriconoscibile, se non fosse per lo stile inconfondibile del compositore.
Variazione prima, à la manière de Rovati. Andante maestoso. La rete è quella fissa più quella mobile; la separazione è totale, nel senso che viene venduta alla Cassa Depositi e Prestiti. Strategico è che la rete resti dov’è, come un’autostrada. A Rovati non hanno detto che la rete è un sistema informatico, una piattaforma logica che, levati servizi e partecipazioni, sostanzialmente coincide con Telecom Italia. L’italianità è salva, ma al prezzo di ripubblicizzare Telecom: imbarazzante.
Variazione seconda, texan – messicana. Agitato. Il Governo in fibrillazione. Se non tutta la rete, si separi almeno l’ultimo miglio, l’han fatto pure in Inghilterra: Openreach, Openreach! La rete si riduce ai doppini telefonici, strategica è la qualità, l’italianità significa “banda larga per tutti”: Qualcuno fa notare che proprietà e utili restano di British Telecom, che quindi quella inglese non è una separazione societaria, ma un’organizzazione concordata con il regolatore Ofcom.
Variazione terza, su un tema popolare inglese. Pizzicato. Openreach è un contratto, offerto da British Telecom, che in cambio di vantaggi sulla rete fissa accetta un controllo stringente sulle attività commerciali nell’ultimo miglio. Bruxelles è già lì col ditino alzato, la nostra AGcom si ricorda che dovrebbe essere indipendente, e che spetta a lei decidere. Al Governo resta l’ultima trincea: una legge per dare ad AGcom maggiori poteri. “Una misura di garanzia”, dice Prodi, Ma era partito col voler garantire l’“italianità”, finisce col garantire la libertà dei concorrenti (tutti stranieri) di accedere senza discriminazioni a un pezzo di una rete di proprietà, probabilmente, straniera. Il leitmotiv è irriconoscibile.
Ma riconoscibilissimo è lo stile del compositore: la diffidenza per il mercato in cui le parti liberamente si incontrano e stipulano contratti; l’idea illiberale di ingabbiarlo con la legge. Era incominciato che il Governo voleva usare il suo potere contro la proprietà, rinazionalizzando. Finisce che lo usa per mortificare le Autorità, che sono indipendenti proprio per sottrarre allo strumento coercitivo della legge uno spazio in cui i mercati, dandosi proprie regole, possano svilupparsi.
Telecom, Prodi. Capezzone: sorprendenti dichiarazioni di Prodi. Chi, se non il Governo, ha creato un'atmosfera ostile agli operatori stranieri? In tre si sono (o sono stati) fermati: Murdoch, telefonica e At&T
Se a parlare, e a parlare in modo ostile o comunque frenando, sono il Primo Ministro, il Ministro degli Esteri, il Ministro delle Comunicazioni, il Ministro dello Sviluppo, il Ministro delle Infrastrutture, con -per sovrammercato- il Presidente della Camera e una mezza dozzina di leader politici, come si può pensare che tutto questo resti senza effetti?
18 aprile 2007
• Dichiarazione di Daniele Capezzone, Presidente della Commissione attività produttive della Camera:
Ho ascoltato con un certo stupore le dichiarazioni odierne del Primo Ministro sull'affaire Telecom.
Dice il Premier: non siamo "intervenuti"; finora, ci sono state soltanto parole da parte di esponenti del Governo.
Ma se a parlare, e a parlare in modo ostile o comunque franando, sono il Primo Ministro, il Ministro degli Esteri, il Ministro delle Comunicazioni, il Ministro dello Sviluppo, il Ministro delle Infrastrutture, con -per sovrammercato- il Presidente della Camera e una mezza dozzina di leader politici, come si può pensare che tutto questo resti senza effetti?
Chi, se non il Governo e "la politica", ha creato un'atmosfera ostile agli operatori stranieri?
E infatti, in tre si sono (o sono stati) fermati: Murdoch prima, poi la spagnola Telefonica, e infine At&T.
Telecom. Capezzone: politica faccia tesoro delle parole dell'ambasciatore Usa Spogli e del presidente Montezemolo.
Non spetta a Governo fare e disfare cordate. Italia rischia di pagare prezzo alto a tentazioni neodirigiste e neoirizzanti.
Roma, 18 aprile 2007
• Dichiarazione di Daniele Capezzone, Presidente della Commissione attività produttive della Camera:
Spero che la politica italiana, dopo tanti errori, voglia e possa fare tesoro delle parole di ieri dell'Ambasciatore americano Spogli e del Presidente di Confindustria Montezemolo.
Non spetta al Governo né alla politica in generale fare e disfare cordate, assecondare od ostacolare competitori, o, peggio ancora, dosare bastone e carota nei confronti degli uni o degli altri.
Qualcuno confonde ancora il ruolo dello stato-regolatore (di cui abbiamo necessità) con quello dello stato-giocatore o dello stato-imprenditore, che è un'anticaglia del passato (a dire poco) e un residuo di decenni di politiche assai criticabili.
L'Italia rischia di pagare un prezzo molto, troppo alto alle tentazioni neodirigiste e neoirizzanti di un pezzo del Governo e della politica: sta ai liberali dei due schieramenti lavorare per scongiurare gli scenari peggiori.
AT&T non è scappata dall’affare Telecom sulla base di «valutazioni riguardanti il business», come si è sostenuto ieri in Italia. Il timore di un cambiamento "in corsa" delle regole è stato invece determinante. L'ambiente delle normative mobili, dei due pesi e delle due misure e delle intimidazioni politiche non appartiene alla cultura di un gruppo industriale che opera in una democrazia di mercato avanzata. E ci sono già, chiare e misurabili, le conseguenze di questo ritiro (anticipato) del gruppo americano: il gelo nel rapporto politico fra Italia e Stati Uniti, che allarga ulteriormente l'Atlantico. Gruppi industriali potenzialmente alternativi ad AT&T si tengono prudentemente ai margini; il "premio" per l'investimento diretto nel rischio Italia aumenta. E il pericolo per Roma di essere marginalizzata dai grandi flussi internazionali di capitale, cultura e innovazione cresce invece di diminuire.
AT&T, come riferiscono al Sole-24 Ore fonti americane bene informate, aveva un progetto industriale ben definito: avrebbe portato il suo know-how di azienda globale, protagonista delle telecomunicazioni anche in comparti specifici dove l'Italia è in ritardo, come — per fare un esempio — la logistica per installare rapidamente le linee Dsl e rendere molto più rapido il traffico su internet.
La società texana aveva ben chiaro che con il gruppo Telecom non avrebbe fatto un investimento di controllo assoluto, visto che in ballo c'era soltanto un 18% circa, per di più da dividere con altri. Ma sapeva che avrebbe costituito una piattaforma europea.
Quanto a i conti, Telecom Italia ha un Ebidta del 40%, contro il 28-35% di altri gruppi europei inclusa British Telecom. Ha davanti a sé, come tutti, problemi di crescita. E, proprio per questo, ha bisogno dell'intervento di un partner industriale che la tenga agganciata, al contesto dello sviluppo mondiale delle tlc. In teoria — è la percezione americana — dovrebbe essere nell'interesse dell'Italia e dei suoi governanti auspicare che un progetto di respiro europeo parta dal Paese e vi resti ancorato.
In pratica prevalgono altri interessi. E su tutto prevale la politica. Basta leggere l'articolo di fondo ieri sul «Corriere della Sera», firmato da Sergio Romano, sugli intrecci di partito che si nascondono dietro l'affare Telecom. Ed è facile capire, anche per chi è lontano da queste logiche, che non era in gioco l'interesse nazionale di un settore strategico, ma la gestione di equilibri interni della maggioranza.
Per questo altri gruppi industriali, e fra questi c'è la spagnola Telefonica, pur essendo interessati, si tengono ai margini. E comunque questi sono meccanismi che l'investitore americano non capirà mai. Se si tratta di un fondo di private equity potrà prendere il rischio, ma applicherà, come sta già capitando a Wall Street, un premio più elevato.
Ed è vero che negli Stati Uniti ci sono stati casi di ostruzionismo per gli investimenti stranieri, ma è anche vero che ci sono regole fisse e non mobili.
Lo ha detto ieri alle agenzie di stampa l'ambasciatore americano a Roma, Ronald Spogli: «Da noi si vive in una società dove il Governo stabilisce delle regole che in certi settori sono molto importanti e molto dure... In Italia invece c'è una lunga tradizione di intervento pubblico nell'economia con una presenza molto forte del Governo». E ha osservato che lo stock di investimenti americano in Italia è molto basso rispetto a Gran Bretagna, Francia, Germania e persino alla Spagna. Le cifre sono preoccupanti: dalla fine della Seconda Guerra mondiale al 2005 gli Usa hanno registrato questo stock di investimenti in Europa: in Gran Bretagna 324 miliardi di dollari; in Germania 86; in Francia 61; in Spagna (che pure è "partita" con grande ritardo) 43; in Italia 26 miliardi. E il fanalino di coda.
A Washington la temperatura sale: perché acquistare elicotteri da un Paese dove nella coalizione di Governo emergono professioni di antiamericanismo?
È per queste ragioni che deve squillare l'allarme. L'intervento di Spogli dà voce a un sentimento diffuso negli Stati Uniti. In questo contesto, l'Italia sarà sempre più tagliata fuori dai grandi canali della globalizzazione, superata anche dalla Polonia o dall'Ungheria. E rischia di trovarsi più indietro nella corsa competitiva in cui sono impegnate tutte le grandi democrazie mondiali.
Da giorni, da quando è stato dato l'annuncio delle trattative tra Pirelli e At&T/America Movil, non passa ora che non vi sia una dichiarazione degli esponenti della sinistra per chiedere un intervento di legge sulla rete di Telecom Italia. E ora che gli americani si sono ritirati, quel mondo politico insisterà, perché per questi signori il problema non è lo straniero, ma la gestione degli investimenti sulla rete. S'invocano decreti e disegni di legge per separarla o scorporarla, escludendo a parole una rinazionalizzazione precedentemente proposta da Palazzo Grigi con la scandalosa vicenda del "piano Rovati". Come sappiamo, allora, le cose andarono male e la merchant bank di Palazzo Chigi non riuscì nel tentativo di togliere la proprietà della rete a una società privata e quotata in Borsa.
L'approssimazione politica e l’ignoranza specifica impediscono anche di capire il vero significato del recente voto del Parlamento Europeo con il quale si chiede l'abbassamento e poi l'azzeramento delle tariffe di roaming: la rete è una sola ed è europea. Questa è la ragione per cui non si dovrebbe pagare diversamente a seconda che una telefonata la si riceva a Catania o a Lione. Ed è assurdo che mentre questo avviene in Europa, in Italia si discuta sul valore strategico della rete nazionale, un concetto fuorviante ed antiquato.
La persistenza e la costante volontà del governo Prodi, nel tentare di scorporare la rete Telecom, questa volta, però, ha incuriosito (e forse preoccupato) la commissaria europea Viviane Reding, responsabile per la società dell'informazione e i media e, quindi, del settore delle telecomunicazioni. Possiamo immaginare la confusione nel gabinetto della commissaria, poco abituata alle contraddittorie esternazioni degli esponenti di governo e della maggioranza di centro-sinistra. Noi siamo purtroppo quotidianamente sommersi da dichiarazioni di questo o di quel ministro in contrasto con quelle di un suo qualsiasi collega di governo o di un qualche leader della variegata maggioranza che li sostiene. Ma a Bruxelles no. Tant'è che è giunta una telefonata della Reding al ministro Gentiloni per avere chiarimenti.
Una cortesia, quella della commissaria, fatta direttamente al ministro, con lo scopo d'informarlo dell'esistenza delle norme comunitarie che regolano il settore delle telecomunicazioni. Immaginiamo che per prima cosa da Bruxelles sia giunta la notizia che non spetta al governo decidere sulle sorti della rete Telecom, meno che mai con decreto. Esiste, infatti, un "Pacchetto Telecom", in vigore già dal 2002, formato da 5 direttive, che dispone il quadro normativo di riferimento dentro al quale le Autorità per le telecomunicazioni svolgono le loro funzioni, nel rispetto dei princìpi di indipendenza e autonomia. Quel pacchetto, poi, è figlio del libro verde delle telecomunicazioni e delle prime direttive sulla rete aperta, datate fine anni Ottanta.
La direttiva e l’Agcom
In particolare, le autorità nazionali di regolamentazione devono promuovere la concorrenza nella fornitura delle reti e dei servizi di comunicazione elettronica, assicurando che gli utenti ne traggano il massimo beneficio sul piano della scelta, del prezzo e della qualità: incoraggiano investimenti efficienti in materia di infrastrutture e promuovono l'innovazione. Inoltre, e sempre compito delle Autorità nazionali contribuire allo sviluppo del mercato interno, incoraggiando la messa in atto e lo sviluppo di reti transeuropee e l'interoperabilità dei servizi paneuropei; garantire che non vi siano discriminazioni nel trattamento delle imprese che forniscono reti e servizi di comunicazione elettronica; e, non da ultimo, garantire l'applicazione coerente del quadro normativo relativo al settore delle telecomunicazioni.
Tra le direttive del "Pacchetto Telecom", quella relativa all'accesso alle reti di comunicazione elettronica, alle risorse correlate, e all'interconnessione delle medesime (direttiva che porta il nome di tal Brunetta) è assai chiara. In questo testo viene ribadito, di fatto, il ruolo particolarmente strategico delleAutorità di regolamentazione nazionali, cui spetta, secondo l'articolo 8 (già recepita nel diritto interno italiano con decreto legislativo n° 259 dell’agosto 2003 - Codice delle Comunicazioni Elettroniche), il giudizio circa il livello di competitività del mercato, la conseguente individuazione e notifica degli operatori aventi significativo potere di mercato, l'elencazione degli obblighi specifici derivanti ad ogni singolo operatore, nonché la decisione di introduzione o di mancata introduzione delle misure di soft law (linee guida).
Allora, nel 2002, si osservava che alcuni di questi compiti evidenziavano uno spazio di discrezionalità estremamente elevato, con il rischio di creare situazioni di disomogeneità tra i diversi Stati dell'Unione. Il timore era che le diverse Autorità di regolamentazione interpretassero in maniera anche sensibilmente diversa il proprio ruolo. Proprio a tal scopo venne esplicitamente previsto che gli Stati dovessero tutelare le imprese con la possibilità di ricorrere alla giustizia ordinaria, contro le decisioni della Autorità, in caso le si ritenessero danneggiate.
Un'altra norma all'articolo 8 (comma 3) della direttiva "Accesso" prevede, poi, che "in circostanze eccezionali" l'Autorità nazionale abbia la l'acuità di chiedere alla Commissione europea di autorizzare o impedire obblighi in materia di accesso diversi daquelli stabili ti negli articoli da 9 a 13 e, cioè, relativi a trasparenza, non discriminazione, separazione contabile, controllo dei prezzi e di contabilità dei costi. Dunque, se per l'Autorità nazionale c'è necessità per separare (o aprire di più) la rete Telecom, perché non ha esercitato prima questa sua prerogativa? Perché tanta sollecitudine da parte della nostra Autorità nei confronti del governo? È questo il modo di esercitare autonomia e indipendenza?
Le cose, in Italia, sono andate male e la nostra Agcom si è dimostrata non all'altezza del compito. Se al quadro delle norme europee si fosse data corretta applicazione, se la politica avesse consapevolezza di cosa significano e dì quanto siano rilevanti dal punto di vista dell'integrazione europea,, oggi non discuteremmo oziosamente sulla proprietà della rete, e non si tirerebbe in ballo, senza conoscerla, l'esperienza inglese, perché proprio quella è a sua volta figlia dei riferimenti europei.
Consumatori beffati
Sono quasi venti anni che i gestori della rete dovrebbero essere obbligati a praticare tariffe orientate ai costi. E come volete che siano noti i costi se non con una contabilità che li metta in evidenza? Non lo sapevano, le nostre Autorità? Ma non basta, perché la rete si evolve in continuazione e in altre parti d'Europa sono già operanti sistemi di trasmissione a larga banda in radiofrequenza, come il WiMax, che da noi restano sconosciuti proprio per inadempienza delle Autorità di governo e di controllo. È chiaro che l'ex monopolista difende il valore della vecchia rete, ed è chiaro che avversa la partenza di sistemi che le tolgono centralità, ma da noi è mancata la lucidità e la volontà politica di non sottostare a quegli interessi, che sono una rendita, e di far entrare nel mercato nuovi protagonisti.
Se ora si prendesse la vecchia rete fissa e la si portasse in qualche modo sotto le ali della politica (si pensi al possibile impegno della Cassa Depositi e Prestiti) si farebbe un salto indietro, accentuando l'arretratezza dell'Italia, che è un costo per gli operatori economici e per i cittadini.
Siccome il quadro normativo di riferimento non può che essere quello europeo, ci sarebbe tutto l'interesse a concepire una politica europea delle reti. Ma questo, ancora una volta, è l'esatto contrario del protezionismo nazionale ed è cosa assai diversa da un vocio politico e governativo tutto intento a farsi gli affari di un'azienda, anziché occuparsi di difendere le ragioni del mercato, quelle della competizione e del vantaggio per i consumatori. Governando così si ottiene un solo risultato: impoverire l'Italia arricchendo le rendite di posizione. Dopo di che finirà tutto, e caoticamente, in mani straniere, senza che gli interessi nazionali, quelli veri, abbiano contato nulla.
Un articolo dell'Unità che parlava con cautela e senza scomuniche di un possibile coinvolgimento di Roberto Colaninno e Mediaset in un nuovo assetto proprietario di Telecom Italia, viene giudicato da Sergio Romano come indice di un atteggiamento opportunistico, scetticamente disincantato e amorale. Dopo i guasti provocati dall'allontanamento via minacce governative di At&t, affidare un ruolo leader in Telecom Italia all'imprenditore che ha inventato un'impresa di telecomunicazioni efficiente come Omnitel e a una società leader nelle tv; che senza gli ostacoli della politica oggi occuperebbe internazionalmente il posto di Rupert Murdoch, ben lungi dall'essere un segno di opportunismo, sarebbe in realtà la scelta più razionale. E, infatti, il giorno dopo il direttore dell'Unità l'ha attaccata. Romano è un commentatore intelligente, ogni tanto l'imbrocca, talvolta no. Il problema non è lui, ma quanto certe idee siano espressione di quel piccolo establishment (grandi banche, imprenditori indebitati e stampa «indipendente») che occupa malamente il centro della società italiana e senza più virtù, cerca di condizionare il potere italiano in tutte le articolazioni, politiche, economiche, culturali.
Per il piccolo establishment sarebbe l'ora di una profonda riflessione: i suoi protagonisti sono affannati e azzoppati. Il successo dell'idea geniale di «far squadra» con la sinistra e in particolare con la Cgil si può misurare nelle richieste contrattuali dei sindacati metalmeccanici, tanti soldi e nessuna apertura sulla produttività. L'altro colpo di astuzia, poi, è stato sostenere con il noto editoriale di Paolo Mieli, il centrosinistra prodiano: i risultati di questa genialata sono davanti agli occhi di tutti. Al di là del sistema di potere meno evidente del presidente del Consiglio su cui interviene oggi il Giornale con un'argomentata inchiesta, basta considerare la politica d'intimidazione verso gli imprenditori italiani (dai Benetton a Marco Tronchetti Provera) e internazionali, compresa l'At&t, l'uso delle banche amiche (con contorno di fondazioni e società statali egemonizzate) come una sorta di Gazprom, per valutare il danno che al Paese ha fatto l'irresponsabile cinismo di un piccolo establishment che si schiera politicamente con chiunque (dando incredibili titoli di liberalizzatori a una banda di emuli di Hugo Chavez) pur di proteggere il proprio evanescente potere.
I guasti che in meno di undici mesi ha combinato Romano Prodi sono gravi. E in questo quadro è indispensabile bloccare una deriva che anche una traballante Europa, priva di un asse politico chiaro, trova inquietante. Vanno subito trovati i compromessi che possono dare stabilità e insieme una forte concorrenza (innanzi tutto tra le grandi banche) al sistema economico nazionale. Per questo obiettivo non solo è utile sgombrare il governo in carica il più in fretta possibile (qualsiasi cosa lo seguirà, sarà meglio) ma anche spiegare a quelli del piccolo establishment che non è più il tempo dei ditini alzati. D'ora in poi in politica, nella cultura, in economia e finanza il potere andrà guadagnato con il sudore della fronte (e delle idee) non con birignao senza costrutto e autorità morale.
• da Corriere della Sera del 18 aprile 2007, pag. 1
di Massimo Gaggi
La British Aerospace ha comprato alcune aziende americane della difesa, ma manager e ingegneri inglesi non possono avere accesso alle loro tecnologie ritenute dal Pentagono «strategiche» per la sicurezza nazionale e perciò rese inaccessibili a qualunque soggetto straniero. Una vecchia legge in vigore negli Stati Uniti vieta al capitale estero di acquistare una compagnia aerea americana. Il magnate australiano Rupert Murdoch si è dovuto fare cittadino americano per poter costruire un impero mediatico negli Usa (la rete nazionale Fox, varie «cable tv» e giornali come il New York Post).
Il liberismo economico che caratterizza il sistema americano non è assoluto: in alcune aree il possesso di aziende è sottoposto a vincoli anche più stretti di quelli in vigore in Italia. La vicenda At&t-Telecom, con la repentina decisione del gigante Usa di ritirare l'offerta per il controllo della società italiana, danneggia la credibilità del Paese come possibile partner industriale e finanziario non perché è stato rivendicato il ruolo strategico di un settore o di un'impresa, ma perché, ancora una volta, tutto ciò è avvenuto non al momento di fissare regole «uguali per tutti», ma solo dopo l'offerta lanciata da americani e messicani.
Come al solito la politica italiana scopre l'interesse nazionale—una protezione che, con modalità e livelli di intensità diversi, c'è in ogni Paese — quando è troppo tardi. E si considera in diritto di rimettere indietro le lancette dell' orologio. E' un grosso errore. Nel merito perché, intervenendo «a posteriori », si finisce sempre per creare un'interferenza politica nelle dinamiche di mercato: oggi tra gli analisti Usa si parla di ritorno al vecchio dirigismo italiano e anche di uno sgradevole aroma di antiamericanismo diffuso da questa vicenda. Ma l'errore è anche nel metodo perché, osservato dall'esterno, lo spettacolo di esponenti politici che si azzuffano quotidianamente e di ministri che dichiarano a getto continuo pro e contro l'affare, è francamente desolante.
Probabilmente l'offerta dell'At&t non sarebbe andata comunque a buon fine, ma chi oggi gioisce per il «salvataggio della Patria telefonica», dovrebbe riflettere su un dato: At&t non stava cercando subdolamente il colpo gobbo. E' solo la più grande società di telecomunicazioni del mondo (vale 242 miliardi di dollari) che, volendo crescere anche all'estero, aveva individuato la possibilità di acquisire un importante «asset» europeo con un investimento abbastanza limitato (2 miliardi di euro). Davanti alla levata di scudi, ha deciso di rivolgere altrove il suo interesse.
A noi rimane la proprietà nazionale di Telecom e l'immagine di un Paese nel quale è difficile investire. Incertezza delle regole, scarsa trasparenza, problemi di corruzione e illegalità dilagante li hanno anche altri Paesi. In genere sono quelli emergenti, come la Cina. Che riescono comunque ad attirare investimenti: le imprese rischiano perché lì il costo del lavoro è bassissimo e i mercati locali stanno crescendo molto rapidamente. L'Italia dovrebbe far parte di un altro mondo: quello delle democrazie industriali avanzate, che non crescono come l'Asia, ma hanno l'appeal della tecnologia, della stabilità e della credibilità.
Sul ”manifesto" dei 12 aprile Agostino Giustiniani firma un pezzo assai critico contro la cosiddetta «ricetta unica» per Telecom Italia, cioè la linea secondo la quale si deve escludere un intervento pubblico sulle reti di telecomunicazione. Su tale linea che al "manifesto" legittimamente non piace per nulla, vi sarebbero il ministro Gentiloni, «il pasdaran del liberismo» Franco Debenedetti ed Emma Bonino che viene accusata di patente contraddizione in quanto da commissaria europea avrebbe sostenuto dazi accresciuti sulle scarpe cinesi A onor del vero, occorre ricordare che Emma Bonino propose interventi all'Organizzazione mondiale del commercio proprio perché la Cina non ne rispettava regole e accordi sottoscritti al suo ingresso, dunque non è affatto in contraddizione, visto che il mercatista è per il rispetto delle regole del mercato e non per il darwinismo per cui vince il più forte. In più, per il "manifesto" le teorie del terzetto sarebbero «interessate»: e da quale cointeressenza ignota nel capitale di Telecom, viene allora da chiedere? Certo che non nutriamo alcuna aspettativa di convincere al mercatismo chi ne diffida, come gli amici del "ma-nifesto". Ma se un capitalista non ha ben gestito, come a Telecom, è proprio per questo che bisogna lasciar fare al mercato perché ne subentri uno più efficiente e migliore. Invece di allontanarli tutti uno dopo l'altro, come sta facendo palazzo Chigi. Che ieri informava che la storia sarà ancora lunga, chissà di grazia avendone quali elementi diretti.
Telecom. Capezzone: qualcuno sogna il "Pro-D'Ale-Sconi", una intesa politica ed economica a tutto campo tra Prodi, D'Alema e Berlusconi.
Sta ai Liberali (e alle persone libere) dei due schieramenti esprimersi in queste ore.
Ma vorrei dire ai protagonisti che, se anche l'operazione riuscisse, sarebbe un modo di rinchiudersi in un cortile interno (sia pur dorato), nella totale diffidenza del resto del mondo. Chi mai porterà più un euro, un dollaro o una sterlina in Italia, se apparirà chiaro che i "giocatori" italiani sono pronti a mettersi subito d'accordo tra loro, e in una logica che -diciamo così- non sembra esattamente di mercato?
Roma, 17 aprile 2007
• Dichiarazione di Daniele Capezzone, Presidente della Commissione attività produttive della Camera:
Le cose si fanno via via più chiare. Eravamo in pochi, nelle scorse settimane, a criticare la cosiddetta "soluzione di sistema". Dicevamo -in pochi- che rischiava di essere una operazione di "pareggio" e di "stabilizzazione" reciproca del potere e dei poteri italiani, senza alcun reale beneficio per la competitività del paese.
Ora è chiaro che qualcuno sogna il "Pro-D'Ale-Sconi", cioè una intesa politica ed economica a tutto campo tra Prodi, D'Alema e Berlusconi.
Adesso, sta ai liberali (o semplicemente alle persone libere.) dei due schieramenti esprimersi in queste ore, non dopo.
E vorrei dire ai protagonisti che, se anche l'operazione riuscisse, sarebbe un modo di rinchiudersi in un cortile interno (sia pur dorato), ma nella totale diffidenza del resto del mondo. Chi mai porterà più un euro, un dollaro o una sterlina in Italia, se apparirà chiaro che i "giocatori" italiani sono pronti a mettersi subito d'accordo tra loro, e in una logica -diciamo così- che non sembra esattamente di mercato?
Telecom. Capezzone: dopo questa sconfitta, Italia come il Venezuela di Chavez
La politica si assuma le sue responsabilità: a causa della canea (anche e soprattutto) del governo, sara' ben difficile che arrivino altri investitori stranieri.
-Asse Bazoli-Prodi è ormai sul punto di spadroneggiare. E la cosiddetta "soluzione di sistema" è un modo per coinvolgere nell'"operazione" Ds e Fi -A mio avviso, a questo punto, dopo che AT&T ha lasciato, la soluzione industriale più interessante tornerebbe ad essere quella con la spagnola Telefonica.
Roma, 17 aprile 2007
• Dichiarazione di Daniele Capezzone, Presidente della Commissione attività produttive della Camera:
Dopo la sconfitta rappresentata dal "no" di At&T, l'Italia assume ormai contorni paragonabili a quelli del Venezuela di Chavez, dove i contratti e le intese si fanno e si disfano a seconda del "gradimento" della "politica".
La politica e in primo luogo il Governo devono assumersi le loro responsabilità: le dichiarazioni e il lavorio irizzante di Prodi; le sfuriate e le minacce di Di Pietro; l'intervista domenicale di D'Alema a Raitre; la prospettiva di un cambio di regole a partita in corso: tutto questo ha determinato una situazione per cui perfino un gigante mondiale come AT&T ha detto basta.
A questo punto (dopo che analoga sorte era stata riservata alle offerte di Murdoch e della spagnola Telefonica; dopo la vicenda Autostrade-Abertis; dopo quello che British Gas sta sopportando rispetto al rigassificatore di Brindisi), c'è da chiedersi se e quale investitore straniero avrà il coraggio di portare un euro o un dollaro in Italia.
Su un altro piano, è sempre più chiaro che l'asse Bazoli-Prodi è sul punto di spadroneggiare; e che la cosiddetta "soluzione di sistema" è un modo di coinvolgere nell'"operazione" i Ds e Forza Italia.
Ma vorrei dire ai protagonisti che, se questa "soluzione" può soddisfare loro, rende sempre di più il nostro paese qualcosa di infrequentabile, o comunque di cui diffidare.
Per conto mio, continuo a ritenere che la soluzione più interessante dal punto di vista industriale (per caratteristiche, dimensioni e presenza geografica sul mercato delle due aziende) sarebbe un'intesa con la spagnola Telefonica. Vedremo se le ragioni del mercato saranno ancora una volta travolte e schiacciate.
Telecom, Beltrandi: ora intervenga chi ha detto di tutelare il libero mercato
Temo però che invece ci saranno molti silenzi della politica, anche di quella sedicente liberale, vista la soluzione che si prospetta…
Roma, 17 aprile 2007
• Dichiarazione di Marco Beltrandi (radicale de La Rosa nel Pugno), vicepresidente della Commissione Trasporti, poste, e telecomunicazioni della Camera:
“Ancora una volta la difesa della cosiddetta ‘italianità’ della proprietà di una azienda italiana, che sinora non ha certo evitato una gestione discutibile di Telecom Italia, ha prodotto risultati davvero non rassicuranti: si ritirano coloro, gli americani, che avevano fatto una trasparente offerta di mercato, anche se legata al quelle chiamate ‘ scatole cinesi’, portatrice di una forte prospettiva industriale, e al suo posto si fanno avanti interessi nazionali e legittimi, ma molto finanziari e non certo estranei alla politica italiana.
Mi auguro che ora si facciano sentire coloro che nei giorni scorsi hanno difeso le forze di mercato contro le soluzioni finanziare, e che permanga la necessità di una regolamentazione che garantisca una gestione indipendente dell’ultimo miglio anche se mi aspetto invece molti silenzi dalla politica data la soluzione che si sta profilando…”
Il futuro dei telefoni e l'interesse del Paese
• da Il Sole 24 Ore del 25 aprile 2007, pag. 1
di Alberto Alesina e Paola Sapienza
Il ritiro di AT&T dall'offerta per Telecom non stupisce. Quel che meraviglia è l'ingenuità dell'azienda americana di credere di potersi barcamenare nei meandri del capitalismo italiano troppo contiguo con il potere politico, come dimostrano i continui richiami a un non ben definito «interesse del Paese» e non meglio precisate cordate nazionali. Stupisce poi che anche gli azionisti di minoranza, che avrebbero potuto guadagnare da una gestione più efficiente, si siano aggiunti alle file di coloro che protestavano contro l'invasione straniera.
Ma una cordata nazionale sarebbe la soluzione più favorevole all'interesse del Paese? Ma che cos'è «il Paese»? Nel Paese esistono interessi generali e particolaristici. Tra i portatori dei primi, ci sono gli utenti e i contribuenti. Tra i portatori dei secondi, quelli particolaristici, ci sono gli azionisti di Telecom e i suoi dipendenti. Chi perde e chi vince nelle diverse ipotesi di riassetto di Telecom? Per rispondere consideriamo tre possibilità: la vendita di Telecom a un operatore con esperienza nel settore, indipendentemente dalla sua nazionalità; l'intervento, non sgradito alla politica, di investitori italiani riuniti in una cordata che "salvi" Telecom dagli stranieri; una nazionalizzazione o un intervento dello Stato nella gestione della rete.
Gli utenti telefonici italiani (non sono essi «il Paese»?) sono interessati a un servizio efficiente, economico e innovativo. Se questo servizio è fornito da italiani o stranieri non importa. L'entrata di nuovi operatori garantisce un abbassamento dei costi grazie alla competizione generata nel settore. Per esempio, la tariffa di una telefonata da Roma a Milano si è ridotta del 40% negli ultimi quattro anni grazie a un aumento della concorrenza nella telefonia mobile dove la maggior parte degli operatori è straniera. Ma Telecom ha un potere monopolistico sulla rete e chiunque la acquisirà vorrà sfruttarlo, così come ha sempre fatto Telecom stessa. Per esempio, negli ultimi quattro anni, mentre il costo delle telefonate, che è soggetto a una maggiore concorrenza, è diminuito, i servizi offerti da Telecom in settori dove c'è meno concorrenza hanno avuto qualità inferiore e prezzi più alti.
Molti concorrenti di Telecom sono costretti a utilizzare parte della rete e Telecom può ritardare l'allacciamento alla rete e la manutenzione della stessa o scoraggiare gli utenti che, per esempio, vogliono attivare un adsl in assenza dì una linea voce Telecom. Non a caso Telecom ha l’87% del mercato broadband in Italia.
Questo potere monopolistico — un problema reale, sia che Telecom rimanga italiana sia che diventi straniera — verrà necessariamente trasferito assieme alla proprietà di Telecom. Come ha ben spiegato Guido Tabellini su questo giornale (si veda «Il Sole-24 Ore» dell'8 aprile), un'appropriata regolamentazione può impedire lo sfruttamento di posizioni monopolistiche. Anzi, imporre regole anti-monopolistiche è più facile con un investitore estero che con gli "amici" capitalisti italiani. Mentre se lo Stato fosse direttamente o indirettamente monopolista, che interesse avrebbe a controllare se stesso? Naturalmente la regolamentazione deve servire a proteggere i consumatori, non a spaventare potenziali compratori, soprattutto stranieri, come è sembrato avvenire nelle ultime settimane.
Tra le paure ricorrenti in questi giorni c'è quella che una vendita di Telecom agli stranieri significherebbe abbandonare la ricerca in Italia. Non è vero. Il gruppo Motorola, americano come AT&T, ha aperto a Torino un centro di ricerca e sviluppo dove impiega 300 dipendenti italiani. Torino è oggi uno dei principali centri di eccellenza Motorola, anche grazie alla collaborazione con 0 Politecnico. Si badi che Motorola ha deciso di investire in Italia non perché un governo glielo abbia imposto, ma perché ne ha trovato convenienza.
I contribuenti (non sono anch'essi «il Paese»?) sono interessati a non esser tassati per garantire i profitti di questo o quel gruppo finanziario e dei rispettivi azionisti. L'AT&T aveva offerto un premio del 30% all'azionista di maggioranza. Nazionalizzare la rete se non addirittura il servizio finirebbe per costare ai contribuenti più di quanto avesse offerto AT&T, dato che l'azionista di maggioranza di Telecom vorrà massimizzare i profitti e un 30% di margine era già sul tappeto. In cambio di cosa dovrebbero sobbarcarsi tale onere?
Gli azionisti hanno come obiettivo la massimizzazione del valore delle azioni Telecom, ma gli interessi degli azionisti di maggioranza e di minoranza possono essere molto diversi. Nell'ultimo anno il titolo Telecom Italia ha fornito uno dei peggiori risultati nel settore delle telecomunicazioni europee: il suo valore si è ridotto del 6%, mentre la capitalizzazione del settore delle telecomunicazioni (misurato dall'indice DJ Stoxx Telecom) ha registrato un aumento del 14 per cento.
Per resistere alla "conquista" straniera una parte della politica italiana è tentata di organizzare una cordata nazionale (con quale esperienza nel settore?) e a cui parteciperebbero anche le stesse istituzioni finanziarie che sono corresponsabili della performance mediocre dell'attuale gestione. Se questo nuovo soggetto offrirà un prezzo superiore rispetto alla quotazione attuale, l'azionista di controllo (Olimpia) che vende tutta la sua quota ci guadagnerà. L'azionista di minoranza dovrà invece sperare che il nuovo management migliori l'andamento del titolo. Quindi, l'azionista di minoranza dovrebbe scegliere non tra un acquirente italiano o uno straniero, ma semplicemente chi ha il migliore piano industriale.
Nel caso estremo di una vera e propria "nazionalizzazione" della rete, l'effetto sulle azioni Telecom dipenderebbe dal prezzo pagato dallo Stato. Se fosse molto elevato, per evitare che la rete "cada" in mani estere, l'azionista Telecom ci guadagnerebbe parecchio (a spese dei contribuenti).
Per i dipendenti Telecom è possibile che una ristrutturazione dell'azienda da parte di un nuovo proprietario, magari straniero, implichi dei licenziamenti. Ma come ormai si è detto e ripetuto ad nauseam, la risposta a questi problemi non è mantenere in vita posti di lavoro inefficienti, il cui costo ricade sugli utenti. Bisognerebbe invece agevolare il passaggio dei dipendenti Telecom ad altri lavori con un sistema di ammortizzatori sociali che funzioni. Ma tutti, governo dopo governo, sembrano restii a mettere in piedi questi meccanismi. Perché? Ecco una risposta: senza di essi si può con più pathos indicare la potenziale perdita dei posti di lavoro per giustificare questa o quella cordata italiana che eviti l'ingresso di investitori stranieri capaci di massimizzare davvero l'efficienza.
"La Repubblica", GIOVEDÌ, 26 APRILE 2007
Pagina 43 - Economia
Spagnoli invitati a entrare nella cordata italiana con una quota di minoranza. Inchiesta svizzera su Stm, sentito Pistorio
Telecom, le mosse di Telefonica
In attesa di decidere su Olimpia, tratta per il 100% di Vivo
SARA BENNEWITZ
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MILANO - Mentre in Piazzetta Cuccia si continua a lavorare al dossier Olimpia in attesa di un incontro formale con Intesa Sanpaolo, il centro d´attenzione del gruppo di telefonia si sposta un´altra volta in Sudamerica dove, oltre ai nuovi problemi sorti su Entel Bolivia, il gruppo italiano si trova impegnato su vari fronti. E segue da vicino le mosse di Telefonica che insieme a Portugal Telecom starebbe ridiscutendo i termini della joint venture paritetica in Vivo, primo operatore di telefonia mobile carioca insidiato da vicino proprio da Tim Brasil. Da Madrid non hanno voluto fare commenti sui futuri assetti di Vivo mentre da Lisbona sono arrivate alcune conferme. «La trattativa con Telefonica è complessa- ha spiegato il presidente di Portugal Telecom Hernique Granadeiro - tutto è possibile, potremmo rilevare il 100% di Vivo, cedere il nostro 50% agli spagnoli, oppure rinnovare la nostra partnership con Telefonica».
La decisione di Telefonica su Vivo - per cui si parla di un esborso di 3 miliardi di euro - si incrocia inevitabilmente con le riflessioni in corso su Olimpia. Telefonica potrebbe entrare con una quota di minoranza in una cordata italiana volta a rilevare il 18% di Telecom Italia. E cercare di sviluppare sinergie in Sudamerica con Tim Brasil, la cui rete è più avanzata tecnologicamente. Entrare in Olimpia, per Telefonica, significherebbe contrastare definitivamente l´incursione dell´altro grande operatore sudamericano, America Movìl, che potrebbe formulare una nuova offerta per Olimpia. Le banche italiane che sono al lavoro per definire la cordata attendono un´indicazione di massima da Telefonica verso la fine di questa settimana in modo da poter formulare una proposta alla Pirelli.
Nei loro conti, inoltre, i banchieri dovranno tener conto di un equity swap su 124 milioni di azioni Telecom Italia (iscritto nel bilancio Pirelli) che garantisce a Olimpia un´opzione a salire dal 17,99 al 18,92% del gruppo di telefonia. Il contratto stipulato con Caboto e Ubm, ovvero i broker che fanno capo rispettivamente a Intesa Sanpaolo e Unicredito, scadrà il prossimo ottobre. Ma il prezzo pattuito per questo pacchetto risulta superiore rispetto ai valori che esprime il mercato: ben 2,9 euro per ogni azione contro 2,21 del prezzo di ieri.
Infine è da segnalare un incidente di percorso in cui è incappato il neo presidente di Telecom Italia Pasquale Pistorio. Un´inchiesta giudiziaria condotta in Svizzera su un ammanco dalle casse di Stm di 28,5 milioni di franchi in otto anni ha portato all´arresto di Pietro Paolo Mosconi, ex tesoriere della società e uomo di fiducia di Pistorio. Nel corso di un interrogatorio avvenuto nel dicembre 2006, e rivelato nei giorni scorsi dal settimanale luganese Il Caffè, l´attuale presidente di Telecom ha ammesso di aver firmato, senza esaminarne il contenuto, alcuni documento sottopostigli da Mosconi. Pistorio ha smentito la costituzione di fondi neri nella società di cui è ancora presidente onorario ma nello stesso tempo ha messo a disposizione degli inquirenti 200 mila euro frutto di una vendita di azioni in tandem con Mosconi avvenuta nel luglio scorso.
TELECOMAFIA IN MANO AI SERVIZZI POLITICI CLERICAL MAFIOSI. E' DAGLI ANNI 60 CHE SONO SOTTO OSSERVAZIONE ,DI QUESTA FINTA DEMOCRAZIA.A QUELL'EPOCA ERO SOTTO OSSERVAZIONE DALLA PROCURA DELLA REPUBBLICA. DI MILANO.ESSENDO STATO PERSEGUITATO. DAI CARABINIRI DEL PALAZZO CHE SONO RIUSCITI A TERRORIZARE MIA MOGLIE E MIA SUOCERA FINCHE MI SONO DECISO DI METTERMI IN COMUNICAZIONE TELEFONANDO AL PROCURATORE DELLA REPUBBLICA DEL PALAZZO DI GIUSTIZZIA. DA ALL'ORA NON MI ANNO PIU DISTURBATO. MA SONO CONTINUAMENTE SOTTO OSSERVAZIONE
SE UN LAVORATORE ESCE FUORI DAL SUO GREGGE, E SI METTE A FARE POLITICA LIBERA ., VIENE IMMEDIATAMENTE SEGNALATO, E TENUTO D'OCCHIO PER TUTTA LA SUA VITA.
www.ilgiornale.it
Tronchetti, scuse per le intercettazioni: "Su Telecom troppe interferenze"
di Redazione - lunedì 23 aprile 2007, 14:11
Milano - "Campagna mediatica" e "fattori esterni" che hanno influito nel negoziato con Murdoch. "Interferenze, interne ed esterne" nelle trattative con Telefonica. "Interferenze" anche nel negoziato con AT&T. Il rosario delle lagnanze di Marco Tronchetti Provera sul caso della cessione di Telecom è lungo così. La vicenda, ha ricordato Tronchetti, illustrando i fatti oggi durante l'assemblea degli azionisti, prende l'avvio nella primavera scorsa, quando "finito il ciclo della fusione Tim-Telecom avevamo organizzato un percorso di allargamento. Abbiamo avvicinato il più grande operatore al mondo nei media, avviando contatti con Murdoch che sono andati bene per un certo periodo; poi c'è stata una fase anomala dal punto di vista mediatico, Telecom ha iniziato a essere sotto pressione con iniziative per la separazione della rete o con la sottolineatura di un debito eccessivo, che peraltro stava scendendo. La campagna mediatica non favoriva un negoziato difficile, e quando sono intervenuti altri fattori esterni ho deciso di lasciare la presidenza di Telecom per non permettere uno scontro tra vertici dell'azienda e istituzioni. Con la presidenza Rossi la situazione si è normalizzata".
Nessuna scissione di Pirelli/"Non esistono a oggi progetti in merito" ha detto Tronchetti su un'eventuale scissione di Pirelli quale possibile soluzione al riassetto azionario di Telecom. "È inutile commentare - aggiunge - sono progetti inesistenti. Comunque non accetteremmo mai progetti che non mettano tutti gli azionisti nelle stesse condizioni. Non ci saranno privilegi per nessuno".
Interferenze/ Chiusa la vicenda Murdoch, si apre il capitolo Telefonica: "Abbiamo avuto dei contatti con Telefonica - spiega Tronchetti - che negoziava anche con Telecom. Delle interferenze, esterne e interne, hanno fatto sì che il negoziato cadesse nel vuoto. A questo punto in consiglio abbiamo valutato che non eravamo in condizione di dare il nostro contributo a Telecom, e abbiamo preso la decisione di valutare la vendita in toto della partecipazione in Olimpia, non a qualsiasi prezzo, ma a un prezzo che valorizzasse la partecipazione in Telecom. Abbiamo avuto molti interlocutori, e i più seri e importanti, portatori di tecnologia e di una presenza in America Latina, ci hanno avvicinati. In questo negoziato ci sono però state delle interferenze, che la stessa At&T ha stigmatizzato, decidendo di lasciare. C'erano troppe incertezze dal punto di vista normativo, non facilmente comprensibili da interlocutori stranieri".
Le scuse sulle intercettazioni/ "Voglio esprimere le mie personali scuse ai dirigenti e agli amministratori della società. Potrà sembrare poca cosa, ma è una manifestazione sincera". Tronchetti Provera, apprendo l'assemblea dei soci della Bicocca, ha parlato anche di intercettazioni illegali. Il presidente di Pirelli ha definito "grave ciò che è accaduto", ma ha sottolineato che i valori della società rimarranno "l'etica, la trasparenza, il senso di appartenenza e la voglia di continuare a fare industria". Quanto alle indagini della magistratura, Tronchetti ha ribadito che da Telecom "c'è stata la massima collaborazione e continuerà a contribuire alle attività di indagine senza reticenze e senza proteggere nessuno".
Evitare clima da campagna elettorale/Della vicenda Telecom bisogna parlare con "competenza" e su tavoli adeguati ed evitare un clima da "campagna elettorale". Tronchetti Provera ribadisce la sua "disponibilità al dialogo nell'interesse del Paese", ma pone dei paletti. "Ognuno deve svolgere il proprio ruolo nel rispetto di quello degli altri. È importante la collaborazione. Bisogna parlare in modo serio e a tavoli attorno ai quali si discute con competenza perchè invece spesso si usano strumenti da campagna elettorale; le imprese richiedono competenza ed è triste sentire commenti fatti con la stessa logica degli slogan politici".
Prodi gela il Cavaliere su Telecom
• da La Stampa.it del 23 aprile 2007
di Francesco Spini
«Esistono le leggi». Sono laconiche e criptiche, da Riad dove è in visita, le parole del premier Romano Prodi sulla possibilità che nel riassetto Telecom figuri anche la firma di Silvio Berlusconi e della sua Mediaset. Dopo le aperture, soprattutto a marchio Ds e di qualche ala dei Dl, a un impegno del Cavaliere, arrivano nuovi altolà. Proprio mentre Intesa Sanpaolo e Mediobanca discutono con il Biscione allo scopo di coniugare un partner industriale estero come Telefonica a un gruppo di imprenditori e istituzioni finanziarie di stampo italiano. Se Prodi si limita a poche parole, più esplicito è il ministro della Difesa (e prodiano della prima ora) Arturo Parisi, secondo cui un intervento di Berlusconi «potrebbe solo peggiorare la situazione del conflitto di interessi. Lo invitiamo quindi a scegliere». «La situazione va vigilata» perché l’arrivo del Cavaliere «rimescolerebbe le carte in modo negativo».
Alla frenata di Prodi e dei prodiani, si aggiungono gli strali della sinistra radicale, che insiste sull’opportunità di un «governo pubblico» delle reti. Così Franco Giordano, segretario di Rifondazione Comunista, che sul Cavaliere è netto: «Penso che Mediaset non possa entrare nella vicenda». Piuttosto «c’è bisogno di una legge adeguata per risolvere il conflitto d’interessi». A stretto giro il leader dei Comunisti Italiani, Oliviero Diliberto, declina il suo no al Cavaliere telefonico: «Sarei terrorizzato, da cittadino e non da dirigente politico, dall’idea che Berlusconi metta le mani sulla più gigantesca rete di informazioni, quale è la rete Telecom». Un fuoco di fila che tiene la barra del dibattito sul possibile ruolo che Mediaset potrebbe giocare per mantenere forte la presenza italiana nel riassetto di Telecom accanto alle istituzioni finanziarie, tra cui le Generali e alcune fondazioni, imprenditori come Roberto Colaninno e la famiglia Benetton, già presente in Olimpia.
Le «leggi» cui Prodi fa riferimento sono il più grande nemico di un intervento di Mediaset nella vicenda. C’è anzitutto la legge Gasparri e i limiti che pone all’intreccio tra operatori tv e telefonici; c’è il disegno di legge di Gentiloni che di nuovo metterebbe in difficoltà un connubio tra i due colossi. E, infine, il più volte ricordato nodo del conflitto di interessi. Un gioco a incastri che, a seconda degli scenari, potrebbe quantomeno costringere una Telecom «mediasettizzata» a dover cedere i suoi canali Tv, La7 e Mtv, se non a costringere il Cavaliere a una plateale rinuncia.
Nel frattempo, mentre continuano i contatti tra le due banche capofila e tutti i possibili attori della cordata, la settimana riserva appuntamenti importanti. Il primo è oggi: l’assemblea di Pirelli che segue di pochi giorni il patto di blocco dove Mediobanca e Generali hanno chiesto e ottenuto maggiore collegialità nelle scelte strategiche. Intanto si attendono le mosse di Telefonica. L’operatore spagnolo potrebbe ufficializzare un proprio interesse per la partita italiana entro la settimana, in attesa di capire i prossimi passi di America Movil, unica sopravvissuta dell’originale cordata tex-mex, in bilico tra un rilancio e la definitiva ritirata.
"La Repubblica", LUNEDÌ 23 APRILE 2007
Pagina 31 - Economia
La possibile vendita non piace a Mediaset. Prodi sull´intervento del Biscione: "Esistono le leggi"
Telecom, le partite La7 e Mtv frenano l´ingresso di Berlusconi
Il ministro Parisi boccia l´operazione: "Aggraverebbe il conflitto d´interessi"
GIOVANNI PONS
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MILANO - Un ingresso di Mediaset nella cordata italiana per Telecom? «Esistono le leggi», commenta lapidario il presidente del Consiglio Romano Prodi a margine di una conferenza stampa tenuta a Riad. L´intervento che si sta ipotizzando rientra comunque nei limiti della legge. Il 10% di una scatola che controlla il 18% porterebbe il controllo diretto di Mediaset su Telecom all´1,8%, un livello che non infrange alcun tetto legislativo. Ma anche se tutto rientrasse nei limiti legali i problemi derivanti da un ingresso di Berlusconi e Mediaset in Telecom non sarebbero di poco conto. I tessitori della cordata italiana, Colaninno in primis, qualora il progetto andasse in porto, si sarebbero già impegnati a vendere a terzi Telecom Italia Media, la società del gruppo che controlla due televisioni, La7 e Mtv. Questo per rispondere alle esigenze del centrosinistra di dar vita per davvero a un terzo polo televisivo, non come quello che negli ultimi sei anni è stato narcotizzato da Marco Tronchetti Provera per non disturbare Rai e Mediaset. E dunque per il gruppo di Berlusconi da questa operazione potrebbero derivare più danni che benefici, questi ultimi da ricercarsi nelle sinergie da sviluppare con l´operatore telefonico attraverso la banda larga. Mentre l´eventuale formazione di un agguerrito terzo polo tv potrebbe andare a incidere sulla torta pubblicitaria fin qui appannaggio di Mediaset. Un potenziale ingresso di Berlusconi in Telecom al fianco di banche e imprenditori è stato poi commentato negativamente da Arturo Parisi, ministro della Difesa. «Potrebbe solo peggiorare la situazione del conflitto di interessi. Lo invitiamo quindi a scegliere, la situazione va vigilata», ha detto intervenendo alla trasmissione "In mezz´ora" su Rai3.
Intanto, problemi televisivi a parte, proseguono i lavori per far avanzare la cordata italiana che nelle intenzioni dovrebbe rilevare da Pirelli il controllo di Olimpia. Tra oggi e domani si dovrebbe conoscere meglio l´orientamento di Intesa Sanpaolo, candidata a rilevare una quota importante della holding, mentre gli spagnoli di Telefonica pare non abbiano eccessiva fretta nel ripresentarsi alla corte di Telecom. Se il partner estero di minoranza, che tra l´altro dovrebbe pagare un premio di maggioranza, non dovesse palesarsi in tempi rapidi potrebbe prendere piede una sorta di soluzione B. Gli italiani rilevano da Pirelli la maggioranza di Olimpia, quindi provvedono a sostituire il management di Telecom il quale come prima missione dovrà definire se la società ha effettivamente bisogno di un partner estero e quale sarebbe il compagno di strada ideale.
L´azienda Telecom sta dunque vivendo una difficile fase di transizione che dovrebbe portare a un azionariato più stabile e a strategie più precise. Ma nel frattempo il neo presidente Pasquale Pistorio, che nei giorni scorsi ha incontrato Francesco Rutelli al convegno della Margherita, ha cominciato a prendere in mano il bastone del comando avviando un confronto serrato con il vicepresidente Carlo Buora. Quest´ultimo, nel consiglio successivo all´assemblea, aveva addirittura presentato una lettera di dimissioni per non aver ricevuto anche le deleghe relative alle strategie, affidate dall´azionista Olimpia a Pistorio. E un successivo chiarimento, richiesto dallo stesso Buora, con Marco Tronchetti Provera e Gilberto Benetton non ha portato ad alcuna correzione di rotta. Nei prossimi giorni, inoltre, Pistorio pigerà sull´acceleratore, dopo aver confermato negli incarichi sia Franco Brescia per l´area dei rapporti con le istituzioni, sia Francesco Chiappetta per la parte legale. Il presidente ha già convocato un cda per l´8 maggio in cui vorrà ottenere i poteri di firma sulle deleghe che gli sono state assegnate. E, secondo alcune voci che girano in azienda, ha intenzione di avocare a sè anche la comunicazione del gruppo che, secondo l´azionista Pirelli, negli ultimi mesi si è resa troppo autonoma dai soci di controllo.
(20 aprile, 2007) Corriere della Sera
VISTI DA LONTANO
Il caso Telecom non faccia rinascere nostalgie stataliste
Le barricate americane? Bush si è chiamato fuori e non sono state cambiate le regole
In una coraggiosa intervista a Orazio Carabini (Sole 24 Ore di domenica scorsa) l' ex capo della Fiat (ed ex editore di questo giornale) Cesare Romiti, ha criticato i capitalisti italiani «che non rischiano più niente» ed ha attribuito anche a se stesso errori importanti: negli anni 80 Romiti si battè affinché l' Iri cedesse l' Alfa Romeo alla Fiat, anziché agli americani, ma «oggi, col senno di poi, riconosco che probabilmente sarebbe stato meglio per la Fiat se la Ford fosse venuta a farci concorrenza in casa nostra». Nella polemica sul futuro della Telecom, cresciuta di tono col ritiro dell' offerta At&t, questo aspetto - la necessità di far crescere ovunque meccanismi concorrenziali all' interno di una cornice di regole certe - continua a restare sullo sfondo. Non che i temi che catalizzano l' attenzione (l' ipotesi Berlusconi e le condizioni dell' uscita di scena di chi ha fin qui gestito il gruppo in modo non certo brillante) siano secondari. Ma la necessità di soluzioni che (salvaguardando la rete) rispondano a meccanismi di mercato, non può finire nel dimenticatoio. Invece molti nella maggioranza e nello stesso governo parlano con disinvoltura di ipotesi di «ripubblicizzazione» più o meno parziale delle telecomunicazioni e il caso della Telecom viene usato anche per «bocciare» in blocco 15 anni di privatizzazioni. È senz' altro vero che il vecchio gioco delle «scatole cinesi» continua a prosperare e che la cessione delle aziende di Stato non ha fatto crescere, come si sperava, nuovi protagonisti dell' imprenditoria italiana, capaci di diventare giganti sulle ceneri di Iri ed Efim. Ma due cose non vanno dimenticate: 1) All' inizio degli anni 90 l' Italia era sull' orlo di una crisi finanziaria di tipo «argentino». La bancarotta fu evitata anche grazie ai miliardi affluiti nelle casse dello Stato con le privatizzazioni. 2) La Telecom, che nelle acque del mercato ha affrontato varie tempeste, faceva parte di un mondo delle Partecipazioni statali farcito di aziende di Stato ed enti abituati a perdere migliaia di miliardi di lire ogni anno. O a guadagnare imponendo agli utenti tariffe esorbitanti. Perfino l' Eni, il gruppo pubblico più redditizio e meglio gestito, arrivò a bruciare 1.500 miliardi nell' anno dello scontro più duro tra manager democristiani e socialisti. Oggi l' Eni - come del resto Enel e (in misura minore) Finmeccanica - guadagna vari miliardi di euro l' anno ed è spinto dagli azionisti italiani ed esteri a fare sempre meglio. Due giorni fa ho scritto sul Corriere che le interferenze politiche che hanno spinto l' At&t a ritirare la sua offerta fanno perdere credibilità all' Italia. Alcuni lettori mi hanno obiettato che anche l' America ha alzato barricate davanti a cinesi e arabi che volevano comprare rispettivamente Unocal (petrolio) e sei scali marittimi Usa. Attenti a non fare confusione: in quei due casi il governo (cioè Bush) non si è opposto né ha cercato di cambiare le regole. C' è stata una reazione dell' opinione pubblica (e di una parte del Congresso) dettata, nel caso dei porti, all' incubo-terrorismo nel quale l' America è ormai sprofondata dal 2001. Quanto a Unocal, ha pesato la natura tuttora comunista della Cina e la mancanza di reciprocità. Nonostante ciò l' Ibm ha venduto il suo settore computer ai cinesi di Lenovo. E, ancora, Lucent e Laboratori Bell, un tempo cuore tecnologico di At&t, sono passati ai francesi di Alcatel, mentre T-mobile, grande operatore Usa di telefonia cellulare, è tedesca. Di nuovo: è lecito chiedersi se At&t sia il partner giusto per Telecom (non sono così certo che sia l' impresa straordinaria descritta ieri sul Corriere dall' ambasciatore Ronald Spogli, visti i dubbi sulla lungimiranza delle sue strategie avanzati da diversi analisti Usa); ma non si possono invocare interventi contro l' «invasore».
massimo.gaggi@rcsnewyork.com
Gaggi Massimo
"La Stampa", 21 Aprile 2007, pag. 25
Berlusconi: se c’è polemica pronto a un passo indietro
il caso
L’ipotesi Mediaset deve fare i conti con i veti della politica
ALESSANDRO BARBERA
ROMA
Se c’è bisogno, siamo lì. Se non c’è bisogno, non c’è nessuna volontà di intralcio». Se non ci consentiranno di investire, «chi se ne frega, non è così importante». Silvio Berlusconi e Telecom, atto secondo. Giovedì al congresso Ds l’apertura «a difesa dell’italianità», ieri la mezza marcia indietro fra i delegati della Margherita. Mentre a Milano proseguono fitti gli incontri per costruire una cordata (forse) italo-ispanica, a Roma le quotazioni di un ingresso di Mediaset (con una quota, è l’ipotesi, attorno al 5%) sono già in discesa. La richiesta - si dice - di Roberto Colaninno e delle banche, sostenuta da Fedele Confalonieri e dai figli dell’ex premier, deve far già i conti con i veti della politica e i divieti della legge. Berlusconi l’ha chiaro e mette le mani avanti. Ascolta la promessa di «non interferenza» da parte di Francesco Rutelli su tutta la partita, poi dice la sua: «Io non mi occupo di queste cose», figuriamoci, dice l’ex premier. Il pallino c’è l’hanno Fedele Confalonieri e i figli Marina e Piersilvio. Ma a quanto risulta al Cavaliere «Mediaset e Fininvest hanno solo «risposto a una domanda» e «non è stata ancora manifestata alcuna precisa volontà». Certo, se poi «si levano voci sul conflitto di interesse» o sul fatto che sarebbe una cosa «politicamente inaccettabile», allora «Fininvest si tirerà sicuramente indietro senza rimpianto alcuno». In ogni caso, «il mercato è il mercato».
Fra i pesi massimi della maggioranza non si odono né sussulti né grida. Nel governo da un paio di giorni a questa parte circola una specie di parola d’ordine: «Non cadere nel trappolone». Nessuno si fida di una disponibilità che sembra - dicono - costruita ad arte per essere smontata. «Nella migliore delle ipotesi vuole farsi dir di no», argomenta un’autorevole fonte di governo. «Oppure il non detto è la richiesta di modifica della legge Gentiloni sui tetti a frequenze e pubblicità. E questo non si può fare». E così, mentre Rutelli parla al massimo di scatole cinesi e Vannino Chiti di «regole e basta», ieri il no a Berlusconi è arrivato da un inedito asse fra gli ex ministri delle Comunicazioni Gasparri e Maccanico, Goldman Sachs e la sinistra radicale del governo.
I primi due hanno ricordato che è la stessa legge ancora in vigore, quella varata appunto dall’allora ministro di An, a porre seri paletti alla possibilità di Mediaset di investire contemporaneamente nelle televisioni e nella telefonia. Come va dicendo da giorni il ministro Paolo Gentiloni, anche se la partecipazione fosse di minoranza e inferiore al 10% consentito, Antitrust, Autorità per le Comunicazioni e Commissione europea potrebbero eccepire «il potere di influenza» nel settore. In una nota su Telecom, poi, la banca d’affari americana Goldman Sachs si è detta «scettica» sui benefici strategici dell’acquisto di una quota che per di più, comprendendo La7 e Mtv (controllate da Telecom), farebbe sforare i tetti di legge per la raccolta pubblicitaria. Gasparri va oltre: l’ingresso del Biscione in Telecom è «politicamente inopportuno». Più o meno quel che dice tutta l’ala sinistra del governo, radicali e non: fra gli altri Sergio D’Antoni della Margherita, il verde Angelo Bonelli, i Comunisti italiani e l’Italia dei Valori. Dal palco del congresso dei Democratici di Sinistra dicono no i leader delle due correnti alternative alla mozione Fassino, ossia Fabio Mussi e Gavino Angius. Il ministro della Ricerca dice che di Berlusconi basta «la tendenza all’abuso di posizione dominante nel mercato politico». Gavino Angius, dal canto suo, non lo vede «nei panni del salvatore della patria». Il leader di Rifondazione Comunista Franco Giordano invoca «una nuova legge sul conflitto di interessi»
"La Stampa", 21 Aprile 2007, pag. 25
SI STA COMPONENDO IL PUZZLE PER IL CONTROLLO DELL’AZIENDA
Telecom, Colaninno a piazzetta Cuccia
È la cordata italiana
Guzzetti (Cariplo):
«Se ci verranno presentate proposte, le valuteremo»
Gli americani di At&t restano alla finestra, ma in pochi puntano su un loro rilancio
ARMANDO ZENI
MILANO
Una visita veloce, poco più di un’ora ieri mattina in Mediobanca, ma quanto basta per confermare che qualcosa si sta pian piano muovendo attorno al progetto di costruire una cordata italiana per rilevare il controllo di Telecom Italia.
Visita veloce, ma tutt’altro che occasionale, insomma, quella di Roberto Colaninno, patron della Piaggio e dell’Immsi, accompagnato da Ruggero Magnoni, vicepresidente di Lehman Brothers, banchiere d’affari di fiducia di Colaninno e soprattutto il banchiere, particolare niente affatto secondario, che ha appoggiato fin dall’inizio quella famosa opa di Olivetti su Telecom che portò l’imprenditore mantovano al vertice del gruppo telefonico prima di cederlo a Marco Tronchetti Provera. Dopo la disponibilità a partecipare pronunciata da Silvio Berlusconi - che ieri ha ribadito: «Siamo pronti a fare la nostra parte a parità con altri imprenditori», ma ha anche confermato che Fininvest «si tirerebbe indietro senza alcun rimpianto» se l’idea fosse considerata politicamente inaccettabile - ecco il segnale di Colaninno con la sua visita in Mediobanca. Lavori in corso, dunque. Con Mediobanca e Intesa Sanpaolo, i due big finanziari che stanno impegnandosi nella regia dell’operazione che fino a qualche giorno fa sembravano battere percorsi diversi ma che adesso, soprattutto dopo l’abbandono del progetto di scissione di Pirelli che era la via individuata dagli uomini di piazzetta Cuccia per acquisire il controllo di Olimpia-Telecom, sembrano pronti a una convergenza inevitabile.
Sullo sfondo, l’offerta per il 33% di Olimpia a 2,92 euro per azione presentata dal miliardario Carlos Slim per conto della sua America Movil: le trattative tra l’advisor del gruppo messicano, la JpMorgan, e la Pirelli non si sono interrotte come invece è capitato con At&t e fino al 30 aprile, sulla carta, America Movil ha tempo per decidere cosa fare. Ma sono in pochi a ritenere possibile un acquisto messicano. Così come in pochi, nonostante la parziale retromarcia di At&t, ad immaginare che il colosso texano possa realmente concretizzare con una nuova offerta il suo ripensamento. Anche perchè, nel frattempo, è un altro l’operatore straniero di tlc che si è fatto avanti candidandosi apertamente a fare da partner azionario e industriale in Telecom Italia: gli spagnoli di Telefonica che, per chiudere l’accordo, sarebbero pronti a sborsare 3 euro per azione e hanno da giorni fatto sapere della loro disponibilità a Mediobanca e a Pirelli.
Insomma, il grande puzzle si sta lentamente componendo. Ma servono ancora alcuni passi decisivi anche se la rinuncia di Mediobanca all’ipotesi della scissione di Pirelli può certo favorire quel progetto di cordata unica con Intesa che è nelle aspettative di quanti auspicano una soluzione che garantisca un controllo italiano a Telecom. Il modello preferito da Intesa resta quello di far acquisire il controllo di Telecom da Olimpia per poi passarlo a un gruppo di investitori composto da imprenditori, fondazioni (ieri il presidente della fondazione Cariplo Giuseppe Guzzetti ha confermato che, «se ci sono delle proposte che ci vengono presentate, le valuteremo») e banche con un partner internazionale come Telefonica. Mentre Mediobanca, archiviata la scissione Pirelli, preferirebbe una public company dove riunire una quota il più vicina possibile al 30% del capitale Telecom suddivisa tra gruppi imprenditoriali (Mediaset, Colaninno, Benetton, Leonardo Del Vecchio), istituzioni finanziarie (Mediobanca, Generali, Hopa), banche e fondazioni.
(Da "Notizie Radicali")
Chi scende in campo nella partita Telecom?
di Michele Lembo
At&t non chiude le porte a Telecom. Il direttore generale del colosso americano dei telefoni, Randall Stephenson, ha fatto sapere che per il momento «c'è troppa incertezza per poter investire capitali in quel Paese [l'Italia, ndr], c'è un'enorme agitazione». Ed ha poi aggiunto: «Se quelle cose non ci saranno più e un domani si presenterà una nuova opportunità, bene». Se dunque le resistenze dello stagnante mondo politico ed economico italiano hanno finora ostacolato l'accordo, è forse possibile immaginare, dopo queste parole, che At&t non archivierà definitivamente la pratica Telecom, con buona pace di coloro che avevano cominciato a preoccuparsi un po' troppo presto della fuga degli americani, cadendo involontariamente nella trappola di chi ha interesse a far crollare i titoli in Borsa, per rendere alla fine il gioco più appetibile. E sono in molti ad aspettare il momento giusto per "scendere in campo". A scendere in campo, lo si sa, è ormai tradizione nel nostro paese, è Silvio Berlusconi, che con un occhio compiaciuto ai congressi di Ds e Margherita che concluderanno le loro strade convolando a nozze, fa sapere che se si tratta di fare un affare del genere, a condizioni vantaggiose, non sarà certo lui il primo a tirarsi indietro.
Intanto si torna a discutere della questione "rete", ma poco o nulla si dice del danno arrecato finora, non solo al mercato, con lo stato attuale delle telecomunicazioni. Dopo che meritoriamente è stato preso ad esempio il modello inglese per una possibile evoluzione in senso liberista del nostro mercato, è arrivata una nota del Garante in cui si annuncia che il documento da sottoporre a consultazione pubblica per la separazione funzionale della rete Telecom sarà deliberato dall'Autorità per le Comunicazioni il 2 maggio prossimo.
Pare dunque che l'Authority punti a chiudere la partita entro l'estate per arrivare a fine anno alla conclusione del procedimento sulla separazione funzionale della rete Telecom. Se lo scorporo della rete non scivolerà verso una inutile e costosissima rinazionalizzazione della rete, allora saremo vicini a una soluzione del problema, mettendo il paese al riparo dalle logiche monopolistiche. Se sarà seguito il modello inglese occorrerà ricordare che esso non si basa sul carattere di bene pubblico della rete fissa, ma pone regole molto strette a chi la gestisce e a chi ne usa i servizi.
Openreach, che è nata nel 2006, è una divisione di British Telecom, separata solo operativamente dall'azienda, a cui fanno capo appunto le attività della rete. Il suo compito è quello di garantire un accesso alla rete libero e a pari condizioni per tutti gli operatori di telecomunicazioni del paese: tutto questo sotto la supervisione di Ofcom, l'autorità regolatoria di settore.
Se si seguirà la strada di Openreach ci saranno però altri nodi da sciogliere. Occore infatti capire come porre mano su quanto è avvenuto finora in Italia in termini di concorrenza tra le reti, con alcuni operatori che hanno costruito le proprie infrastrutture alternative. E qui si tratterà di smettere di pensare al modello (inglese), e occorrerà cercare di far funzionare il modello, adattandolo alla nostra realtà.
L'agenda Spogli e i bananieri
• da Il Foglio del 20 aprile 2007, pag. 3
D’Alema è stufo di parlare di Telecom, così ha detto ieri al PalaMandela di Firenze mentre quel che resta della sinistra marxista offriva il suo obolo alla costruzione di un partito "democratico", nome americano per una formazione politica pluralista in cui destra sinistra e centro sono d'accordo almeno su una cosa: che i problemi contano più delle ideologie, e che il radicamento culturale liberai, progressista, non deve accecare le classi dirigenti quando si tratti di far funzionare una moderna democrazia capitalistica (della stessa opinione sono i laburisti inglesi di Tony Blair).
Con una sua noticina, la Farnesina ha cercato penosamente di edulcorare agli italiani il senso della sculacciata di robusta mano che questo governo impiccione e bananiero ha ricevuto ieri dall'ambasciatore degli Stati Uniti a Roma, Ronald Spogli, mediante una lettera al Corriere della Sera. Non c'era bisogno dell'ermeneutica farnesiniana. Dalla lettera di Spogli, ennesima agenda del buonsenso dopo quelle di Francesco Giavazzi e dei volenterosi, compresi molti diessini ed ex diessini con la testa sulle spalle, si capisce tutto quel che c'è da capire. Non c'è impresa senza capitali, i capitali si orientano più o meno secondo la legge del mercato, in Italia ne entrano pochi, siamo agli ultimi posti in Europa perché i partiti mettono le mani sul mercato e si fanno le regole cucite addosso, rendendole "imprevedibili" e variabili in ogni momento, come afferma in sintonia con gli americani la Commissione di Bruxelles inorridita dal protezionismo declamatorio di un governo che si rende esperto nella turbativa degli incanti non appena appare un'offerta di compravendita. E' vero, come dimostrano i casi olandese e spagnolo (Barclay's vs Abn Ambro sotto il tiro della Banca centrale e Consob spagnola contro Enel per l'opa su Endesa), che non siamo gli unici, ma sicuramente siamo i peggiori. Ricordare Autostrade.
L'accanimento verso Pirelli e Telecom, l'impasto lobbistico in cui parte dei media e della magistratura mettono continuamente le loro rozze mani, è stato provvisoriamente fermato dall'offerta tex-mex per i nostri telefoni, che ha rovesciato la tendenza al solito esproprio a basso prezzo mascherato da consociazione bancocentrica all'insegna dell'italianità. Ora i ministri propalatori di decreti e leggi e nuove norme ad hoc, gli stessi che ieri tuonavano contro la Gasparri e oggi la invocano con effetti ridicoli notevoli, cercano di nuovo le vie della controffensiva contro un'azienda che sarebbe opaca nella sua catena di controllo. Pubblichiamo il grafico che mostra la trasparenza della catena di controllo del gruppo che possiede l'impero editoriale leader nella crociata anti Telecom, il gruppo dell'ottimo ingegner De Benedetti. Il grafico campeggiava ieri sulle pagine del confindustriale Sole 24 Ore, in tutto il suo effetto provocatorio. Buon segno. Forse il "capitalismo impresentabile" del presidente della Camera, che ha usato una formula utile a molti ma non al proletariato di cui assume la tutela, ha deciso di presentarsi all’appuntamento con le conventicole bananiere, per una volta con le mani libere.
Le scatole cinesi si spezzano con il mercato
• da Il Sole 24 Ore del 20 aprile 2007, pag. 11
di Alessandro De Nicola
La vicenda Telecom ha scatenato uno degli usuali psicodrammi nazionali e ha evidenziato alcuni atteggiamenti deplorevoli, tra cui un po' di nazionalismo maccheronico, una voglia di interventismo dirigista e soprattutto il vizio di voler riscrivere le regole in corso di partita per raggiungere un determinato fine politico.
Franco De Benedetti ha già brillantemente ridicolizzato in altre sedi la voglia di "retinite" che ha contagiato il mondo politico e delle autorità indipendenti, tutti protesi a scorporare la Rete Telecom proprio quando sono arrivate le offerte dei gringos.
Un altro aspetto sul quale si è concentrata l'attenzione soprattutto di Antonio Di Pietro, riguarda il diritto societario. Il ministro delle Infrastrutture lamenta che in Italia sia difficile raccogliere le deleghe dei piccoli azionisti per andare in assemblea delle società quotate, che con una minoranza delle azioni si possa ottenere la maggioranza dei consiglieri di amministrazione e che ancora esistano le famose scatole cinesi le quali consentono con poco investimento di controllare grandi società.
L'ex pm vorrebbe introdurre norme che prevedano una rappresentanza proporzionale nel consiglio di amministrazione ("70% degli amministratori col 70% delle azioni" ), facilitare la raccolta deleghe, debellare le scatole cinesi. Anche nel caso dell'approccio di Di Pietro, non si capisce perché, avendo il Governo emanato solo poche settimane fa il decreto correttivo del Testo Unico della Finanza e di quello Bancario, ora ci sia urgenza di nuove regole: possibile che si debba legiferare solo quando i barbari sono alle porte a seconda delle idiosincrasie dell'uno o l'altro politico?
E questo ci porta al discorso delle scatole cinesi. È vero che in Italia il fenomeno è diffuso e altrove no, soprattutto nei mercati più trasparenti come quelli anglo-americani, ed è indubbio che pur investendo poco denaro la holding in cima alla catena di controllo si assicura i benefici privati del controllo (come alti stipendi e stock optino per gli amministratori espressione dell'azionista dominante). In un recente libro, Salvatore Bragantini ha riassunto bene tutti gli svantaggi del sistema. È altrettanto vero però che in altri Paesi (in Scandinavia e negli Stati Uniti, ad esempio) attraverso le azioni con voto multiplo o altre forme di privilegio basta spendere pochissimo per governare una società (il New York Times ne è un esempio). Se si tratta di pochi casi, però, non è per le regole (né in America nè in Gran Bretagna le catene di controllo sono proibite) ma perché è il mercato che rifiuta la pratica, defalcando il valore delle azioni delle società "impure", atteggiamento questo che comincia ad affacciarsi anche in Italia. Piuttosto, è importante avere buone norme di governance che impediscano le operazioni con parti correlate svantaggiose perla società, diano potere di azione e rappresentanza ai soci di minoranza, puniscano severamente le manipolazioni di mercato, assicurino la trasparenza dei conti Nel Belpaese ora tutto questo c'è: ciò che da noi è storicamente mancato è l'attuazione delle regole e il dialogo tra Authority e mercato quando vengono emanati nuovi regolamenti.
Diverso è il caso di società come Telecom, ove basterebbe che qualcuno comprasse il 20% per prendere il controllo (attualmente Olimpia ha il 18%). Lì il problema non sono le scatole cinesi, ma la politica: alcune imprese sono a rischio di scossa elettrica mortale e nessuno si azzarda a toccarle senza il beneplacito del Governo. Perché arrischiare capitali quando un domani Diliberto o Bersani mi possono far perdere miliardi intervenendo sulla regolamentazione del mercato? Il ritiro di At&T conferma appieno la supposizione. Per venire alla proposta più bizzarra, quella della rappresentanza proporzionale in cda, se una regola di questo tenore dovesse essere introdotta, credo che la Borsa italiana dovrebbe chiudere per mancanza di società quotate. In primis l'Italia sarebbe l'unico Paese al mondo a dotarsi di una tale norma. In secondo luogo, i soci si dividono tra quelli che investono come risparmiatori, e se non sono contenti della governance o dei risultati aziendali vendono le azioni, e coloro i quali dirigono la società Quest'ultima richiede controlli ma anche unitarietà di azione, tutto il contrario di quello che un cda-arlecchino è in grado di garantire. Infine, se le società volessero, potrebbero già oggi dotarsi di uno statuto che prevede la proporzionalità, eppure nessuna impresa quotata al mondo, nemmeno quelle operanti in contesti ad azionariato diffuso, lo ha fatto. Possibile che Di Pietro sappia meglio di tutti gli operatori economici, le associazioni di azionisti, i fondi di investimento, i fondi pensione, o gli odiati hedge fund cosa è meglio per governare una società? Anzi un prototipo c'è ed è quello del famoso numero telefonico di Bettino Craxi. Ricordate? A chi gli chiedeva con che criteri di professionalità veniva formato il cda della Rai ai tempi della Prima Repubblica, Craxi rispondeva con il numero telefonico 643111: sei democristiani, quattro socialisti, tre comunisti e uno ciascuno ai partiti laici. Bell'esempio per chi la Prima Repubblica ha contribuito a seppellire.
Fratelli d'Italia il Cavaliere s'è desto
• da Il Riformista.it del 20 aprile 2007
«Noi siamo stati semplicemente richiesti nel caso di una cordata italiana e il mio gruppo ha detto che per mantenere l'italianità di un'azienda così importante siamo disponibili a parità di intervento di altri imprenditori». L'azienda così importante si chiama Telecom; il gruppo che si muove a compassione per il rischio di perdere l'italianità è Fininvest-Mediaset; il dichiarante, naturalmente, è Silvio Berlusconi.
Dopo giorni di voci e smentite, di ipotesi e suggestioni, è direttamente il fondatore del Biscione a esporre la posizione del gruppo, scegliendo con cura platea e parole. È stato un imprenditore esperto e un politico assai accorto, infatti, il Silvio Berlusconi che così ha parlato, rispondendo alle domande dei cronisti, prima di godersi lo spettacolo dell'ultimo congresso dei Ds dal posto in prima fila riservatogli. L'interesse dell'imprenditore Berlusconi per un pezzettino sinergico di Telecom è così arrivato forte e chiaro a una platea diessina che, nei giorni scorsi, è riuscita ad agitarsi da subito, appena il suo nome è stato accostato alla Telecom di domani. Naturalmente, quella stessa platea, quello stesso mondo politico, di fronte all'ipotesi di un suo ingresso - anche laterale o marginale - nel nocciolino italiano che potrebbe essere domani, ha già mostrato, ieri, di potersi sgretolare in mille pezzi ancora una volta. Come sempre quando c'è di mezzo il Cavaliere e il suo conflitto d'interessi.
Ma il vero capolavoro tattico di Silvio sta tutto in una parola: italianità. Basta raccogliere e antologizzare tutte le dichiarazioni di governo e maggioranza, da Romano Prodi fino all'ultimo sottosegretario, da Massimo D'Alema fino all'ultimo peones, per capire che il Cavaliere, come quasi sempre, ha preso bene la mira. Telecom? Un'azienda strategica che deve restare italiana. Telecom? Un patrimonio di questo paese che non possiamo permetterci di perdere. Telecom? Una grande e redditizia azienda che non può non fare gola alla nostra imprenditoria. Al netto del mercatismo internazionalista di Daniele Capezzone, o dell'acuta osservazione sulla «italianità di Tavaroli» di Emma Bonino, insomma, un coro a mille voci che canta Fratelli d'Italia sulle reti telefoniche.
E così, carico dell'italianità di tutto il centrosinistra, e anche e soprattutto di quella del premier, Silvio Berlusconi ha buttato sul tavolo una fiche pesantissima. Perché dopo settimane di tam-tam tricolore, lungo l'affaticata cinghia di trasmissione che ancora parte dai vertici per arrivare alla base della sinistra italiana, l'argomento non si può smontare con due parole veloci sul Cavaliere né, tantomeno, sul suo sempre verde e mai affrontato - pesa quasi ripeterlo ancora una volta - conflitto d'interessi. A contattare il gruppo nell'affannosa ricerca di costruire una filiera italiana decente, peraltro, sarebbe stata direttamente Intesa-Sanpaolo, non certo una banca antiprodiana.
Poi, naturalmente, c'è l'interesse di un gruppo, Mediaset, a mettere le mani su nuovi asset strategici, a sviluppare concretamente sinergie positive per un futuro industriale che altrimenti non sarebbe poi così roseo, magari a portarsi a casa Alice per far correre su internet i suoi contenuti e, semmai tra poco, quelli accresciuti dall'eventuale acquisto di Endemol per cui sta lavorando in Spagna. Mosse strategiche importanti, per il più grande gruppo televisivo italiano - sottolineiamo: italiano - che mira probabilmente a darsi un futuro competitivo sulle tecnologie che decideranno domani, spendendo assai meno di quanto costerebbe, sul mercato. E contribuendo in modo importante a lasciare in mani italiane - italiane - la prima azienda di tlc, cioè la Telecom. Tutti contenti, fratelli d'Italia?
(Da "Notizie Radicali", quotidiano telematico di Radicali italiani)
La giungla del copia-incolla delle intercettazioni
di Michele Lembo
La Commissione europea deve «rimanere vigile» sulla vicenda Telecom Italia, una vicenda che dimostra che in Italia permangono «pressioni protezionistiche» nel settore delle telecomunicazioni. È quanto chiede il Commissario europeo alla Società dell'informazione e dei media Viviane Reding in una lettera inviata a tre commissari Ue (Kroes, McCreevy e Piebalgs) e al presidente della Commissione Ue, Josè Manuel Barroso. Questo uno degli ultimi atti della vicenda Telecom.
Intanto la Camera dei Deputati ha approvato il disegno di legge sulle intercettazioni telefoniche. Trenta giorni di carcere o, in alternativa, una multa da 10mila a 100mila euro per chi pubblica o diffonde il contenuto di atti di indagine e di intercettazioni telefoniche, anche se non più coperte dal segreto, prima che sia cominciato il dibattimento. Il testo di legge, oltre a introdurre una serie di divieti per evitare la diffusione di notizie lesive della privacy (soprattutto di chi non è coinvolto nelle indagini), prevede anche altre novità sul fronte del ricorso alle intercettazioni da parte della magistratura. Ad esempio una su tutte: entro il 31 marzo di ogni anno, il procuratore dovrà inviare al ministro della giustizia una relazione sulle spese di gestione e amministrazione riguardanti le intercettazioni dell'anno precedente e il ministro dovrà girare la relazione alla Corte dei conti per il controllo sulla gestione amministrativa. Tutto ciò per contenere il ricorso massiccio alle intercettazioni.
Con il via libera della Camera al provvedimento, non hanno tardato a palesarsi le rimostranze della Fnsi e dell'Ordine dei giornalisti, che hanno parlato di forti limitazioni della libertà di stampa, e il direttore de "Il Giornale", Maurizio Belpietro, ha voluto ironicamente accomiatarsi dai suoi lettori dichiarando che, con tali disposizioni, si impedisce sostanzialmente al giornalista di fare il suo mestiere.
Rimane tuttavia del tutto rimosso, sepolto nella discussione pubblica, il tema del ruolo del monopolista, e per quel che riguarda gli anni passati, il ruolo di Telecom. Sarebbe utile ad esempio discutere sull'aspetto tecnologico con il quale si realizzano e si sono realizzati i controlli. Sappiamo che il Cgag è stato l'organo all'interno di Telecom Italia deputato ad avere a che fare con la magistratura. Il magistrato disponeva l'intercettato e il Cnag se ne occupava, mettendo a disposizione degli inquirenti i supporti tecnologici con i quali effettuare l' "ascolto".
Secondo quanto hanno riferito giornali e televisioni negli ultimi mesi, almeno fin dal 1995 la tecnologia usata per realizzare le intercettazioni non è stata più quella delle audiocassette, quella delle "bobine", come usò dire D'Alema nei giorni della bufera Unipol, che sembrava aver travolto anche lui. Il vantaggio della tecnologia antiquata, quella delle bobine appunto, stava nel fatto che ogni copia del materiale intercettato poteva in qualche modo essere identificata, esisteva di fatto materialmente una bobina, da tenere in mano, da mettere in una tasca, e distruggendola, si poteva avere una qualche certezza che si sarebbe garantito il cosiddetto diritto alla riservatezza delle persone intercettate.
Con la tecnologia digitale, con l'uso dei file, sappiamo che in ogni passaggio da un computer all'altro, da una casella di posta elettronica all'altra, è possibile fare una copia del materiale intercettato, e dell'operazione di copia non rimane alcuna traccia effettiva, se non nel computer dove viene effettuata la copia. Materialmente poi è praticamente impossibile rintracciare una copia in un computer, in cui un utente abile può creare un tale labirinto di cartelle e sottocartelle, dove difficilmente ci si può raccapezzare. È inoltre molto facile far passare un file da un pc in una redazione, in un ufficio, ad un pc di casa.
Questo significa, in parole povere, che siamo probabilmente ancora esposti al rischio che coloro che per conto del Cnag, e per conto della magistratura, realizzano il lavoro della intercettazione telefonica, possano ancora in qualche modo conservare copia del materiale intercettato, che può essere utilizzato dunque in qualsiasi modo. Esiste inoltre un altro scenario. La tecnologia attuale consente tagliuzzamenti e "copia incolla" del materiale intercettato nemmeno immaginabili con la tecnologia delle "bobine" di dalemiana memoria.
In tutto questo non pare sia intervenuto alcun elemento decisivo di regolamentazione, è dunque possibile che si vedrà ancora una volta, magari in un contesto particolarmente critico politicamente, ancora una volta, come ad esempio abbiamo visto nei giorni di "calciopoli", di Unipol o del caso Fazio, le redazioni dei giornali, magari quelli che avranno a che fare con la nuova proprietà Telecom, inondate del materiale intercettato.
Telecom. Capezzone: sconcertante nota Farnesina. Da giorni fuoco di fila del Governo contro presenza non italiana...
Se andiamo avanti così, peggioreremo il nostro 98° posto nell'attrazione di investimenti esteri...
19 aprile 2007
• Dichiarazione di Daniele Capezzone, Presiodente della Commissione attività produttive della Camera:
In tutta franchezza, appare piuttosto sconcertante la nota della Farnesina in risposta all'Ambasciatore americano Ronald Spogli.
Sembra che al Ministero degli Esteri sia stata smarrita la rassegna stampa delle ultime due-tre settimane, con un vero e proprio fuoco di fila del GOverno contro At&T: il Premier, il Ministro degli Esteri, il MInistro dello Sviluppo, il Ministro delle Comunicazioni, il Ministro delle infrastrutture, più -a rinforzo- il Presidente della Camera e una mezza dozzina di leader politici.
E se penso, in aggiunta, al fatto che prima di At&T si è detto no a Murdoch e alla spagnola Telefonica, e -su un altro piano- alla vicenda Autostrade-Abertis, temo che molto presto peggioreremo il già deprimente 98° posto nel mondo dell'Italia nella classifica della attrazione degli investimenti esteri...
A pagina 127, il programma dell'Unione deplorava la cosa (cioè questa maglia nera in classifica), ma ora mi pare che si voglia aggravare la situazione...
Insomma, chi porterà un euro, un dollaro, una sterlina in Italia se continuiamo a muoverci così?
Dal corriere di oggi:
«Sarebbe ingeneroso considerare le iniziative del Governo italiano come volte ad ostacolare gli investimenti stranieri» in Italia, perchè «l'interesse primario dell'Italia è quello di attrarre investimenti». Così il portavoce della Farnesina Pasquale Ferrara commenta la lettera dell'ambasciatore Usa Ronald Spogli pubblicata oggi dal Corriere della sera in merito alla vicenda Telecom.
Beh... se l'interesse primario di questo governo è attrarre investimenti e questi sono i risultati, è evidente che questo governo ha fallito, ma proprio di brutto!
Ora possono scegliere: incapaci o bugiardi?
In ogni caso farebbero bene a togliere il disturbo.
L’Italia e gli investimenti che non arrivano
• da Corriere della Sera del 19 aprile 2007, pag. 1
di Ronald P. Spogli
Caro direttore,
la decisione di At&t, una delle più grandi aziende statunitensi e leader mondiale nel settore delle telecomunicazioni, di ritirare la sua proposta d'investimento in Italia, ha suscitato tanti commenti e molte discussioni. L'Italia ha perso l'interesse da parte di un'impresa di altissimo livello, capace di migliorare i servizi di telecomunicazione, ridurre i costi per gli utenti italiani e aumentare il valore di un'azienda nazionale.
Allo stesso tempo, ciò che è accaduto è stato utile ad attirare l'attenzione sul possibile ruolo degli investitori esteri per la crescita economica dell' Italia. L'episodio Telecom Italia-At&t permette infatti un'analisi più ampia. Da oltre un anno sto promuovendo un'iniziativa dell'ambasciata degli Stati Uniti in Italia chiamata Partnership for Growth. L'obiettivo è quello di stimolare le grandi potenzialità dell'economia italiana, che spesso non vengono pienamente sfruttate.
L'iniziativa si è concentrata soprattutto sull'imprenditoria e sull'innovazione come forze trainanti della crescita. Tra le varie attività, abbiamo analizzato con diversi interlocutori italiani la necessità di ampliare il mercato dei capitali e di promuovere strumenti finanziari che possano aiutare gli imprenditori a creare nuove imprese e a far crescere e rendere più competitive quelle già esistenti. Senza accesso ai capitali, ovvero agli investimenti, l'imprenditoria rimane solo un'idea. Come noto, gli investimenti in aziende nuove o già esistenti in Italia sono scarsi.
Si preferisce investire nelle proprietà immobiliari, o nella casa per il figlio, piuttosto che scommettere su una nuova azienda promettente. Spesso, inoltre, vengono innalzate barriere nei confronti delle imprese straniere che intendono investire in Italia. Sia che si tratti di investimenti in infrastrutture (autostrade o aziende di telecomunicazione), in servizi finanziari (una grande banca) o nei trasporti (una compagnia aerea), una delle prime reazioni all'interessamento da parte di un'azienda straniera è la sottolineatura che deve prevalere l'interesse nazionale.
Qual è il risultato di questo approccio poco aperto nei confronti dei capitali stranieri? Un rapido confronto con gli altri Paesi europei può essere molto illuminante. Secondo i dati dell'Unctad, la Conferenza delle Nazioni Unite per il Commercio e lo Sviluppo, nel 2005 l'Italia ha attirato circa 20 miliardi di dollari di nuovi investimenti stranieri. La Francia oltre 60 miliardi. La Gran Bretagna, leader tra i Paesi più industrializzati, 165 miliardi.
In qualità di ambasciatore degli Stati Uniti, mi interesso maggiormente degli investimenti del mio Paese, e anche in questo caso la situazione non è confortante. Fino al 2005 il totale degli investimenti americani in Italia ammontava a poco meno di 26 miliardi di dollari, ben al di sotto dei 324 miliardi in Gran Bretagna, degli 86 miliardi in Germania, dei 61 miliardi in Francia e perfino dei 43 miliardi in Spagna. Questi dati dovrebbero far riflettere. Gli investimenti non arrivano dove non sono ben accolti, dove le regole del mercato vengono cambiate continuamente.
Modificare le regole aumenta il livello di rischio e rende molto difficile programmare le azioni future di un'impresa o di un singolo cittadino. Non conosco i dettagli della trattativa per Telecom, ma la lettera di rinuncia di At&t esprime chiaramente il timore di investire in un mercato dove le regole sono imprevedibili. Credo che sia un timore comprensibile, che la maggioranza degli italiani condividerebbe.
Bisognerebbe concentrarsi meno su chi vuole investire e maggiormente sul fatto che l'Italia è agli ultimi posti tra i Paesi europei in termini di crescita del Pil e aumento dei salari e della produttività. Esiste un chiaro legame tra questi dati e lo scarso livello degli investimenti. Per assicurare la giusta priorità alla crescita e alla produttività, occorre valutare attentamente e senza pregiudizi le proposte di investimento.
Le aziende otterranno maggiori fondi e diverranno più competitive? Il cambiamento aggiungerà valore? I servizi miglioreranno? I consumatori, a Roma, Milano o Lecce, avranno benefici? Queste sono le domande da porsi, ricordando sempre che tutto ciò che stimola gli investimenti esteri ha un impatto positivo anche sugli investimenti interni. Per questo motivo, c'è bisogno di una visione più positiva.
L'Italia deve crescere e competere con successo nel mercato globale per sostenere il suo modello sociale e per offrire nuove opportunità ai giovani. Un atteggiamento più aperto nei confronti degli investimenti può senza dubbio aiutare a raggiungere questi importanti obiettivi.
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NOTE
Ambasciatore degli Stati Uniti in Italia
Uno Stato anti-imprese
• da Il Sole 24 Ore del 19 aprile 2007, pag. 1
Devastato e impresentabile. Non ha trovato di meglio Fausto Bertinotti, presidente della Camera, per definire il capitalismo italiano. Un linguaggio che andava bene quando era leader di «Essere sindacato», non la terza carica dello Stato. Colpisce il deragliamento nei toni di chi in altre occasioni invece era stato capace di sorvegliare il linguaggio. Tutte le crìtiche sono legittime (in questo stesso giornale a pagina 11diamo conto di una polemica proprio sui rapporti tra politica e imprese), ma da un'alta carica istituzionale non ci si aspetta questo linguaggio in un momento in cui, tra l'altro, l'immagine del Paese nel mondo è profondamente sotto scacco. L'Italia si sta distinguendo per lo scarso rispetto delle regole del mercato e dell'economia: gli investitori esteri sono in fuga. Le parole di Bertinotti sono l'ennesima prova del clima anti-impresa che serpeggia nel Paese. E certo non sono un buon viatico (soprattutto se non troveranno una presa di distanza) per il doppio appuntamento congressuale che dovrebbe dare vita al Partito democratico.
At&t: «Ci ripensiamo se la politica sta fuori»
• da Corriere della Sera on line del 19 aprile 2007
di Federico De Rosa
At&t non chiude il dossier Telecom. Anzi, per certi aspetti lo riapre a sorpresa. Il compito è toccato al direttore generale del colosso americani, Randall Stephenson, che parlando ieri al club dei dirigenti del Boston College ha ammesso che «c’era troppa incertezza per poter investire ora capitali in quel Paese. C’era un’enorme agitazione». Ed ha poi aggiunto che «se quelle cose non ci saranno più e un domani si presenterà una nuova opportunità, bene». Un riferimento persino ovvio alla politica, che ha ostacolato fin dal principio l’offerta lanciata dal gruppo di San Antonio, Texas, per acquisire un terzo del capitale di Olimpia (la holding all’80% di Pirelli e al 20% di Benetton che detiene il 18% di Telecom) diventando così l’azionista dominante della maggiore compagnia italiana di telecomunicazioni. Stephenson non ha lasciato spazio all’immaginazione: «Le resistenze politiche hanno sinora bloccato l’accordo», ha concesso. Insomma, At&t non archivia la pratica e potrebbe «in futuro, se si presenterà un’altra occasione» tornare alla carica. Tantopiù che, come ha ribadito il direttore generale, «Telecom è una buona società, con ottimi asset e grande capacità nelle tecnologie di telecomunicazioni cellulari».
I MOVIMENTI ITALIANI — Lo scenario sembra insomma ancora in pieno movimento. Ieri la Consob è tornata ad accendere un faro sui movimenti attorno al gruppo telefonico. Lamberto Cardia si è fatto vivo con Intesa Sanpaolo e Mediobanca, per avere chiarimenti. Ci sono «contatti con più parti a vario titolo interessate all’eventuale operazione—ha risposto Ca’ de Sass—e sulla base dell’attuale stato interlocutorio di tali contatti non è possibile formulare indicazioni in merito al loro possibile esito». Analogo il comunicato di Piazzetta Cuccia, che ha confermato «di avere tuttora in corso contatti generici con potenziali investitori in Olimpia» ma di non poter «esprimere alcun giudizio in ordine al loro possibile esito né alle modalità attuative di eventuali operazioni».
I CANDIDATI «INDUSTRIALI» — Stavolta, però, la Consob ha fatto un passo avanti rivolgendosi anche a Roberto Colaninno e Fedele Confalonieri, i cui nomi sono stati associati alle due banche per un possibile ingresso in Olimpia. Il patron dell’Immsi «pur seguendo con attenzione le vicende relative al gruppo Telecom» ha fatto sapere che «non sono in corso trattative». E ancheMediaset «non ha in corso trattative riferibili all’eventuale cessione di quote della società Olimpia». Una precisazione, quella del Biscione, che non ferma tuttavia le critiche sollevate dall’ipotesi di ingresso nella cassaforte del gruppo telefonico. Ieri il ministro delle Comunicazioni, Paolo Gentiloni, ha chiarito che la Legge Gasparri esclude «non solo il controllo ma anche il collegamento tra le due aziende» che scatterebbe se Mediaset dovesse assumere in Telecom una «partecipazione dal 10% in su».
IL DEBUTTO DEL PRESIDENTE—Il puzzle del riassetto Telecom, comunque, sembra ancora lontano dall’esser completato. In più, adesso, oltre al possibile ritorno di At&t, c’è anche un’altra variante da tener presente: l’arrivo di Pasquale Pistorio, che ieri si è insediato nel suo ufficio di Piazza Affari. «E’ stata una prima giornata di presa di contatto con la società», ha spiegato ai cronisti che lo hanno intercettato al termine del primo giorno di lavoro da presidente di Telecom. Nessun contatto con le banche ma «solo con l’azienda, l’unica cosa che mi interessa», ha precisato. L’arrivo dell’ex numero uno di StMicroelectronics segna per il momento una svolta importante. Pistorio non voleva un ruolo di mera rappresentanza, ma pieni poteri. Emercoledì li ha avuti dal consiglio che gli ha assegnato anche la delega sulle strategie, prima in mano al vicepresidente operativo Carlo Buora. Il quale, prima della riunione del board, avrebbe avuto un faccia a faccia con Marco Tronchetti Provera.
IL DIBATTITO IN CONSIGLIO—Sulla proposta di distribuzione dei poteri, presentata al board dal consigliere anziano Luigi Fausti, ci sarebbe stata discussione in consiglio. Terminata con l’assegnazione delle strategie al neopresidente, che l’8 marzo si era astenuto dal votare il piano di sviluppo proposto da Rossi, Buora e Riccardo Ruggiero. Ora, con Pistorio alla testa dell’azienda, quel business plan sarà quasi certamente rivisto. Il board dovrebbe tornare a riunirsi l’8 maggio con all’ordine del giorno la nomina dei comitati interni per le strategie e il controllo.
"Vanity Fair", 26 Aprile 2007
La vicenda Telecom? Come un'operetta
Franco Debenedetti
Un leitmotiv attraversa il drammone Telecom: il “tema della rete” Lo espongono violini e ottoni, coprendo il sordo agitarsi di violoncelli e legni, che raccontano di lotte vere, di potere e di danaro. Lo ripetono sempre variato. Alla fine sarebbe irriconoscibile, se non fosse per lo stile inconfondibile del compositore.
Variazione prima, à la manière de Rovati. Andante maestoso. La rete è quella fissa più quella mobile; la separazione è totale, nel senso che viene venduta alla Cassa Depositi e Prestiti. Strategico è che la rete resti dov’è, come un’autostrada. A Rovati non hanno detto che la rete è un sistema informatico, una piattaforma logica che, levati servizi e partecipazioni, sostanzialmente coincide con Telecom Italia. L’italianità è salva, ma al prezzo di ripubblicizzare Telecom: imbarazzante.
Variazione seconda, texan – messicana. Agitato. Il Governo in fibrillazione. Se non tutta la rete, si separi almeno l’ultimo miglio, l’han fatto pure in Inghilterra: Openreach, Openreach! La rete si riduce ai doppini telefonici, strategica è la qualità, l’italianità significa “banda larga per tutti”: Qualcuno fa notare che proprietà e utili restano di British Telecom, che quindi quella inglese non è una separazione societaria, ma un’organizzazione concordata con il regolatore Ofcom.
Variazione terza, su un tema popolare inglese. Pizzicato. Openreach è un contratto, offerto da British Telecom, che in cambio di vantaggi sulla rete fissa accetta un controllo stringente sulle attività commerciali nell’ultimo miglio. Bruxelles è già lì col ditino alzato, la nostra AGcom si ricorda che dovrebbe essere indipendente, e che spetta a lei decidere. Al Governo resta l’ultima trincea: una legge per dare ad AGcom maggiori poteri. “Una misura di garanzia”, dice Prodi, Ma era partito col voler garantire l’“italianità”, finisce col garantire la libertà dei concorrenti (tutti stranieri) di accedere senza discriminazioni a un pezzo di una rete di proprietà, probabilmente, straniera. Il leitmotiv è irriconoscibile.
Ma riconoscibilissimo è lo stile del compositore: la diffidenza per il mercato in cui le parti liberamente si incontrano e stipulano contratti; l’idea illiberale di ingabbiarlo con la legge. Era incominciato che il Governo voleva usare il suo potere contro la proprietà, rinazionalizzando. Finisce che lo usa per mortificare le Autorità, che sono indipendenti proprio per sottrarre allo strumento coercitivo della legge uno spazio in cui i mercati, dandosi proprie regole, possano svilupparsi.
Quale dei due peccati è il più grave?
Telecom, Prodi. Capezzone: sorprendenti dichiarazioni di Prodi. Chi, se non il Governo, ha creato un'atmosfera ostile agli operatori stranieri? In tre si sono (o sono stati) fermati: Murdoch, telefonica e At&T
Se a parlare, e a parlare in modo ostile o comunque frenando, sono il Primo Ministro, il Ministro degli Esteri, il Ministro delle Comunicazioni, il Ministro dello Sviluppo, il Ministro delle Infrastrutture, con -per sovrammercato- il Presidente della Camera e una mezza dozzina di leader politici, come si può pensare che tutto questo resti senza effetti?
18 aprile 2007
• Dichiarazione di Daniele Capezzone, Presidente della Commissione attività produttive della Camera:
Ho ascoltato con un certo stupore le dichiarazioni odierne del Primo Ministro sull'affaire Telecom.
Dice il Premier: non siamo "intervenuti"; finora, ci sono state soltanto parole da parte di esponenti del Governo.
Ma se a parlare, e a parlare in modo ostile o comunque franando, sono il Primo Ministro, il Ministro degli Esteri, il Ministro delle Comunicazioni, il Ministro dello Sviluppo, il Ministro delle Infrastrutture, con -per sovrammercato- il Presidente della Camera e una mezza dozzina di leader politici, come si può pensare che tutto questo resti senza effetti?
Chi, se non il Governo e "la politica", ha creato un'atmosfera ostile agli operatori stranieri?
E infatti, in tre si sono (o sono stati) fermati: Murdoch prima, poi la spagnola Telefonica, e infine At&T.
Telecom. Capezzone: politica faccia tesoro delle parole dell'ambasciatore Usa Spogli e del presidente Montezemolo.
Non spetta a Governo fare e disfare cordate. Italia rischia di pagare prezzo alto a tentazioni neodirigiste e neoirizzanti.
Roma, 18 aprile 2007
• Dichiarazione di Daniele Capezzone, Presidente della Commissione attività produttive della Camera:
Spero che la politica italiana, dopo tanti errori, voglia e possa fare tesoro delle parole di ieri dell'Ambasciatore americano Spogli e del Presidente di Confindustria Montezemolo.
Non spetta al Governo né alla politica in generale fare e disfare cordate, assecondare od ostacolare competitori, o, peggio ancora, dosare bastone e carota nei confronti degli uni o degli altri.
Qualcuno confonde ancora il ruolo dello stato-regolatore (di cui abbiamo necessità) con quello dello stato-giocatore o dello stato-imprenditore, che è un'anticaglia del passato (a dire poco) e un residuo di decenni di politiche assai criticabili.
L'Italia rischia di pagare un prezzo molto, troppo alto alle tentazioni neodirigiste e neoirizzanti di un pezzo del Governo e della politica: sta ai liberali dei due schieramenti lavorare per scongiurare gli scenari peggiori.
L'Atlantico più largo
• da Il Sole 24 Ore del 18 aprile 2007, pag. 1
di Mario Platero
AT&T non è scappata dall’affare Telecom sulla base di «valutazioni riguardanti il business», come si è sostenuto ieri in Italia. Il timore di un cambiamento "in corsa" delle regole è stato invece determinante. L'ambiente delle normative mobili, dei due pesi e delle due misure e delle intimidazioni politiche non appartiene alla cultura di un gruppo industriale che opera in una democrazia di mercato avanzata. E ci sono già, chiare e misurabili, le conseguenze di questo ritiro (anticipato) del gruppo americano: il gelo nel rapporto politico fra Italia e Stati Uniti, che allarga ulteriormente l'Atlantico. Gruppi industriali potenzialmente alternativi ad AT&T si tengono prudentemente ai margini; il "premio" per l'investimento diretto nel rischio Italia aumenta. E il pericolo per Roma di essere marginalizzata dai grandi flussi internazionali di capitale, cultura e innovazione cresce invece di diminuire.
AT&T, come riferiscono al Sole-24 Ore fonti americane bene informate, aveva un progetto industriale ben definito: avrebbe portato il suo know-how di azienda globale, protagonista delle telecomunicazioni anche in comparti specifici dove l'Italia è in ritardo, come — per fare un esempio — la logistica per installare rapidamente le linee Dsl e rendere molto più rapido il traffico su internet.
La società texana aveva ben chiaro che con il gruppo Telecom non avrebbe fatto un investimento di controllo assoluto, visto che in ballo c'era soltanto un 18% circa, per di più da dividere con altri. Ma sapeva che avrebbe costituito una piattaforma europea.
Quanto a i conti, Telecom Italia ha un Ebidta del 40%, contro il 28-35% di altri gruppi europei inclusa British Telecom. Ha davanti a sé, come tutti, problemi di crescita. E, proprio per questo, ha bisogno dell'intervento di un partner industriale che la tenga agganciata, al contesto dello sviluppo mondiale delle tlc. In teoria — è la percezione americana — dovrebbe essere nell'interesse dell'Italia e dei suoi governanti auspicare che un progetto di respiro europeo parta dal Paese e vi resti ancorato.
In pratica prevalgono altri interessi. E su tutto prevale la politica. Basta leggere l'articolo di fondo ieri sul «Corriere della Sera», firmato da Sergio Romano, sugli intrecci di partito che si nascondono dietro l'affare Telecom. Ed è facile capire, anche per chi è lontano da queste logiche, che non era in gioco l'interesse nazionale di un settore strategico, ma la gestione di equilibri interni della maggioranza.
Per questo altri gruppi industriali, e fra questi c'è la spagnola Telefonica, pur essendo interessati, si tengono ai margini. E comunque questi sono meccanismi che l'investitore americano non capirà mai. Se si tratta di un fondo di private equity potrà prendere il rischio, ma applicherà, come sta già capitando a Wall Street, un premio più elevato.
Ed è vero che negli Stati Uniti ci sono stati casi di ostruzionismo per gli investimenti stranieri, ma è anche vero che ci sono regole fisse e non mobili.
Lo ha detto ieri alle agenzie di stampa l'ambasciatore americano a Roma, Ronald Spogli: «Da noi si vive in una società dove il Governo stabilisce delle regole che in certi settori sono molto importanti e molto dure... In Italia invece c'è una lunga tradizione di intervento pubblico nell'economia con una presenza molto forte del Governo». E ha osservato che lo stock di investimenti americano in Italia è molto basso rispetto a Gran Bretagna, Francia, Germania e persino alla Spagna. Le cifre sono preoccupanti: dalla fine della Seconda Guerra mondiale al 2005 gli Usa hanno registrato questo stock di investimenti in Europa: in Gran Bretagna 324 miliardi di dollari; in Germania 86; in Francia 61; in Spagna (che pure è "partita" con grande ritardo) 43; in Italia 26 miliardi. E il fanalino di coda.
A Washington la temperatura sale: perché acquistare elicotteri da un Paese dove nella coalizione di Governo emergono professioni di antiamericanismo?
È per queste ragioni che deve squillare l'allarme. L'intervento di Spogli dà voce a un sentimento diffuso negli Stati Uniti. In questo contesto, l'Italia sarà sempre più tagliata fuori dai grandi canali della globalizzazione, superata anche dalla Polonia o dall'Ungheria. E rischia di trovarsi più indietro nella corsa competitiva in cui sono impegnate tutte le grandi democrazie mondiali.
Prodi vuole nazionalizzare
• da Libero del 18 aprile 2007, pag. 1
di Renato Brunetta, Davide Giacalone
Da giorni, da quando è stato dato l'annuncio delle trattative tra Pirelli e At&T/America Movil, non passa ora che non vi sia una dichiarazione degli esponenti della sinistra per chiedere un intervento di legge sulla rete di Telecom Italia. E ora che gli americani si sono ritirati, quel mondo politico insisterà, perché per questi signori il problema non è lo straniero, ma la gestione degli investimenti sulla rete. S'invocano decreti e disegni di legge per separarla o scorporarla, escludendo a parole una rinazionalizzazione precedentemente proposta da Palazzo Grigi con la scandalosa vicenda del "piano Rovati". Come sappiamo, allora, le cose andarono male e la merchant bank di Palazzo Chigi non riuscì nel tentativo di togliere la proprietà della rete a una società privata e quotata in Borsa.
L'approssimazione politica e l’ignoranza specifica impediscono anche di capire il vero significato del recente voto del Parlamento Europeo con il quale si chiede l'abbassamento e poi l'azzeramento delle tariffe di roaming: la rete è una sola ed è europea. Questa è la ragione per cui non si dovrebbe pagare diversamente a seconda che una telefonata la si riceva a Catania o a Lione. Ed è assurdo che mentre questo avviene in Europa, in Italia si discuta sul valore strategico della rete nazionale, un concetto fuorviante ed antiquato.
La persistenza e la costante volontà del governo Prodi, nel tentare di scorporare la rete Telecom, questa volta, però, ha incuriosito (e forse preoccupato) la commissaria europea Viviane Reding, responsabile per la società dell'informazione e i media e, quindi, del settore delle telecomunicazioni. Possiamo immaginare la confusione nel gabinetto della commissaria, poco abituata alle contraddittorie esternazioni degli esponenti di governo e della maggioranza di centro-sinistra. Noi siamo purtroppo quotidianamente sommersi da dichiarazioni di questo o di quel ministro in contrasto con quelle di un suo qualsiasi collega di governo o di un qualche leader della variegata maggioranza che li sostiene. Ma a Bruxelles no. Tant'è che è giunta una telefonata della Reding al ministro Gentiloni per avere chiarimenti.
Una cortesia, quella della commissaria, fatta direttamente al ministro, con lo scopo d'informarlo dell'esistenza delle norme comunitarie che regolano il settore delle telecomunicazioni. Immaginiamo che per prima cosa da Bruxelles sia giunta la notizia che non spetta al governo decidere sulle sorti della rete Telecom, meno che mai con decreto. Esiste, infatti, un "Pacchetto Telecom", in vigore già dal 2002, formato da 5 direttive, che dispone il quadro normativo di riferimento dentro al quale le Autorità per le telecomunicazioni svolgono le loro funzioni, nel rispetto dei princìpi di indipendenza e autonomia. Quel pacchetto, poi, è figlio del libro verde delle telecomunicazioni e delle prime direttive sulla rete aperta, datate fine anni Ottanta.
La direttiva e l’Agcom
In particolare, le autorità nazionali di regolamentazione devono promuovere la concorrenza nella fornitura delle reti e dei servizi di comunicazione elettronica, assicurando che gli utenti ne traggano il massimo beneficio sul piano della scelta, del prezzo e della qualità: incoraggiano investimenti efficienti in materia di infrastrutture e promuovono l'innovazione. Inoltre, e sempre compito delle Autorità nazionali contribuire allo sviluppo del mercato interno, incoraggiando la messa in atto e lo sviluppo di reti transeuropee e l'interoperabilità dei servizi paneuropei; garantire che non vi siano discriminazioni nel trattamento delle imprese che forniscono reti e servizi di comunicazione elettronica; e, non da ultimo, garantire l'applicazione coerente del quadro normativo relativo al settore delle telecomunicazioni.
Tra le direttive del "Pacchetto Telecom", quella relativa all'accesso alle reti di comunicazione elettronica, alle risorse correlate, e all'interconnessione delle medesime (direttiva che porta il nome di tal Brunetta) è assai chiara. In questo testo viene ribadito, di fatto, il ruolo particolarmente strategico delleAutorità di regolamentazione nazionali, cui spetta, secondo l'articolo 8 (già recepita nel diritto interno italiano con decreto legislativo n° 259 dell’agosto 2003 - Codice delle Comunicazioni Elettroniche), il giudizio circa il livello di competitività del mercato, la conseguente individuazione e notifica degli operatori aventi significativo potere di mercato, l'elencazione degli obblighi specifici derivanti ad ogni singolo operatore, nonché la decisione di introduzione o di mancata introduzione delle misure di soft law (linee guida).
Allora, nel 2002, si osservava che alcuni di questi compiti evidenziavano uno spazio di discrezionalità estremamente elevato, con il rischio di creare situazioni di disomogeneità tra i diversi Stati dell'Unione. Il timore era che le diverse Autorità di regolamentazione interpretassero in maniera anche sensibilmente diversa il proprio ruolo. Proprio a tal scopo venne esplicitamente previsto che gli Stati dovessero tutelare le imprese con la possibilità di ricorrere alla giustizia ordinaria, contro le decisioni della Autorità, in caso le si ritenessero danneggiate.
Un'altra norma all'articolo 8 (comma 3) della direttiva "Accesso" prevede, poi, che "in circostanze eccezionali" l'Autorità nazionale abbia la l'acuità di chiedere alla Commissione europea di autorizzare o impedire obblighi in materia di accesso diversi daquelli stabili ti negli articoli da 9 a 13 e, cioè, relativi a trasparenza, non discriminazione, separazione contabile, controllo dei prezzi e di contabilità dei costi. Dunque, se per l'Autorità nazionale c'è necessità per separare (o aprire di più) la rete Telecom, perché non ha esercitato prima questa sua prerogativa? Perché tanta sollecitudine da parte della nostra Autorità nei confronti del governo? È questo il modo di esercitare autonomia e indipendenza?
Le cose, in Italia, sono andate male e la nostra Agcom si è dimostrata non all'altezza del compito. Se al quadro delle norme europee si fosse data corretta applicazione, se la politica avesse consapevolezza di cosa significano e dì quanto siano rilevanti dal punto di vista dell'integrazione europea,, oggi non discuteremmo oziosamente sulla proprietà della rete, e non si tirerebbe in ballo, senza conoscerla, l'esperienza inglese, perché proprio quella è a sua volta figlia dei riferimenti europei.
Consumatori beffati
Sono quasi venti anni che i gestori della rete dovrebbero essere obbligati a praticare tariffe orientate ai costi. E come volete che siano noti i costi se non con una contabilità che li metta in evidenza? Non lo sapevano, le nostre Autorità? Ma non basta, perché la rete si evolve in continuazione e in altre parti d'Europa sono già operanti sistemi di trasmissione a larga banda in radiofrequenza, come il WiMax, che da noi restano sconosciuti proprio per inadempienza delle Autorità di governo e di controllo. È chiaro che l'ex monopolista difende il valore della vecchia rete, ed è chiaro che avversa la partenza di sistemi che le tolgono centralità, ma da noi è mancata la lucidità e la volontà politica di non sottostare a quegli interessi, che sono una rendita, e di far entrare nel mercato nuovi protagonisti.
Se ora si prendesse la vecchia rete fissa e la si portasse in qualche modo sotto le ali della politica (si pensi al possibile impegno della Cassa Depositi e Prestiti) si farebbe un salto indietro, accentuando l'arretratezza dell'Italia, che è un costo per gli operatori economici e per i cittadini.
Siccome il quadro normativo di riferimento non può che essere quello europeo, ci sarebbe tutto l'interesse a concepire una politica europea delle reti. Ma questo, ancora una volta, è l'esatto contrario del protezionismo nazionale ed è cosa assai diversa da un vocio politico e governativo tutto intento a farsi gli affari di un'azienda, anziché occuparsi di difendere le ragioni del mercato, quelle della competizione e del vantaggio per i consumatori. Governando così si ottiene un solo risultato: impoverire l'Italia arricchendo le rendite di posizione. Dopo di che finirà tutto, e caoticamente, in mani straniere, senza che gli interessi nazionali, quelli veri, abbiano contato nulla.
La logica dell’intimidazione
• da Il Giornale del 18 aprile 2007, pag. 1
di Lodovico Festa
Un articolo dell'Unità che parlava con cautela e senza scomuniche di un possibile coinvolgimento di Roberto Colaninno e Mediaset in un nuovo assetto proprietario di Telecom Italia, viene giudicato da Sergio Romano come indice di un atteggiamento opportunistico, scetticamente disincantato e amorale. Dopo i guasti provocati dall'allontanamento via minacce governative di At&t, affidare un ruolo leader in Telecom Italia all'imprenditore che ha inventato un'impresa di telecomunicazioni efficiente come Omnitel e a una società leader nelle tv; che senza gli ostacoli della politica oggi occuperebbe internazionalmente il posto di Rupert Murdoch, ben lungi dall'essere un segno di opportunismo, sarebbe in realtà la scelta più razionale. E, infatti, il giorno dopo il direttore dell'Unità l'ha attaccata. Romano è un commentatore intelligente, ogni tanto l'imbrocca, talvolta no. Il problema non è lui, ma quanto certe idee siano espressione di quel piccolo establishment (grandi banche, imprenditori indebitati e stampa «indipendente») che occupa malamente il centro della società italiana e senza più virtù, cerca di condizionare il potere italiano in tutte le articolazioni, politiche, economiche, culturali.
Per il piccolo establishment sarebbe l'ora di una profonda riflessione: i suoi protagonisti sono affannati e azzoppati. Il successo dell'idea geniale di «far squadra» con la sinistra e in particolare con la Cgil si può misurare nelle richieste contrattuali dei sindacati metalmeccanici, tanti soldi e nessuna apertura sulla produttività. L'altro colpo di astuzia, poi, è stato sostenere con il noto editoriale di Paolo Mieli, il centrosinistra prodiano: i risultati di questa genialata sono davanti agli occhi di tutti. Al di là del sistema di potere meno evidente del presidente del Consiglio su cui interviene oggi il Giornale con un'argomentata inchiesta, basta considerare la politica d'intimidazione verso gli imprenditori italiani (dai Benetton a Marco Tronchetti Provera) e internazionali, compresa l'At&t, l'uso delle banche amiche (con contorno di fondazioni e società statali egemonizzate) come una sorta di Gazprom, per valutare il danno che al Paese ha fatto l'irresponsabile cinismo di un piccolo establishment che si schiera politicamente con chiunque (dando incredibili titoli di liberalizzatori a una banda di emuli di Hugo Chavez) pur di proteggere il proprio evanescente potere.
I guasti che in meno di undici mesi ha combinato Romano Prodi sono gravi. E in questo quadro è indispensabile bloccare una deriva che anche una traballante Europa, priva di un asse politico chiaro, trova inquietante. Vanno subito trovati i compromessi che possono dare stabilità e insieme una forte concorrenza (innanzi tutto tra le grandi banche) al sistema economico nazionale. Per questo obiettivo non solo è utile sgombrare il governo in carica il più in fretta possibile (qualsiasi cosa lo seguirà, sarà meglio) ma anche spiegare a quelli del piccolo establishment che non è più il tempo dei ditini alzati. D'ora in poi in politica, nella cultura, in economia e finanza il potere andrà guadagnato con il sudore della fronte (e delle idee) non con birignao senza costrutto e autorità morale.
Credibilità zero
• da Corriere della Sera del 18 aprile 2007, pag. 1
di Massimo Gaggi
La British Aerospace ha comprato alcune aziende americane della difesa, ma manager e ingegneri inglesi non possono avere accesso alle loro tecnologie ritenute dal Pentagono «strategiche» per la sicurezza nazionale e perciò rese inaccessibili a qualunque soggetto straniero. Una vecchia legge in vigore negli Stati Uniti vieta al capitale estero di acquistare una compagnia aerea americana. Il magnate australiano Rupert Murdoch si è dovuto fare cittadino americano per poter costruire un impero mediatico negli Usa (la rete nazionale Fox, varie «cable tv» e giornali come il New York Post).
Il liberismo economico che caratterizza il sistema americano non è assoluto: in alcune aree il possesso di aziende è sottoposto a vincoli anche più stretti di quelli in vigore in Italia. La vicenda At&t-Telecom, con la repentina decisione del gigante Usa di ritirare l'offerta per il controllo della società italiana, danneggia la credibilità del Paese come possibile partner industriale e finanziario non perché è stato rivendicato il ruolo strategico di un settore o di un'impresa, ma perché, ancora una volta, tutto ciò è avvenuto non al momento di fissare regole «uguali per tutti», ma solo dopo l'offerta lanciata da americani e messicani.
Come al solito la politica italiana scopre l'interesse nazionale—una protezione che, con modalità e livelli di intensità diversi, c'è in ogni Paese — quando è troppo tardi. E si considera in diritto di rimettere indietro le lancette dell' orologio. E' un grosso errore. Nel merito perché, intervenendo «a posteriori », si finisce sempre per creare un'interferenza politica nelle dinamiche di mercato: oggi tra gli analisti Usa si parla di ritorno al vecchio dirigismo italiano e anche di uno sgradevole aroma di antiamericanismo diffuso da questa vicenda. Ma l'errore è anche nel metodo perché, osservato dall'esterno, lo spettacolo di esponenti politici che si azzuffano quotidianamente e di ministri che dichiarano a getto continuo pro e contro l'affare, è francamente desolante.
Probabilmente l'offerta dell'At&t non sarebbe andata comunque a buon fine, ma chi oggi gioisce per il «salvataggio della Patria telefonica», dovrebbe riflettere su un dato: At&t non stava cercando subdolamente il colpo gobbo. E' solo la più grande società di telecomunicazioni del mondo (vale 242 miliardi di dollari) che, volendo crescere anche all'estero, aveva individuato la possibilità di acquisire un importante «asset» europeo con un investimento abbastanza limitato (2 miliardi di euro). Davanti alla levata di scudi, ha deciso di rivolgere altrove il suo interesse.
A noi rimane la proprietà nazionale di Telecom e l'immagine di un Paese nel quale è difficile investire. Incertezza delle regole, scarsa trasparenza, problemi di corruzione e illegalità dilagante li hanno anche altri Paesi. In genere sono quelli emergenti, come la Cina. Che riescono comunque ad attirare investimenti: le imprese rischiano perché lì il costo del lavoro è bassissimo e i mercati locali stanno crescendo molto rapidamente. L'Italia dovrebbe far parte di un altro mondo: quello delle democrazie industriali avanzate, che non crescono come l'Asia, ma hanno l'appeal della tecnologia, della stabilità e della credibilità.
Manifesto e pensiero unico
• da Il Riformista del 18 aprile 2007, pag. 2
di Oscar Giannino
Sul ”manifesto" dei 12 aprile Agostino Giustiniani firma un pezzo assai critico contro la cosiddetta «ricetta unica» per Telecom Italia, cioè la linea secondo la quale si deve escludere un intervento pubblico sulle reti di telecomunicazione. Su tale linea che al "manifesto" legittimamente non piace per nulla, vi sarebbero il ministro Gentiloni, «il pasdaran del liberismo» Franco Debenedetti ed Emma Bonino che viene accusata di patente contraddizione in quanto da commissaria europea avrebbe sostenuto dazi accresciuti sulle scarpe cinesi A onor del vero, occorre ricordare che Emma Bonino propose interventi all'Organizzazione mondiale del commercio proprio perché la Cina non ne rispettava regole e accordi sottoscritti al suo ingresso, dunque non è affatto in contraddizione, visto che il mercatista è per il rispetto delle regole del mercato e non per il darwinismo per cui vince il più forte. In più, per il "manifesto" le teorie del terzetto sarebbero «interessate»: e da quale cointeressenza ignota nel capitale di Telecom, viene allora da chiedere? Certo che non nutriamo alcuna aspettativa di convincere al mercatismo chi ne diffida, come gli amici del "ma-nifesto". Ma se un capitalista non ha ben gestito, come a Telecom, è proprio per questo che bisogna lasciar fare al mercato perché ne subentri uno più efficiente e migliore. Invece di allontanarli tutti uno dopo l'altro, come sta facendo palazzo Chigi. Che ieri informava che la storia sarà ancora lunga, chissà di grazia avendone quali elementi diretti.
Telecom. Capezzone: qualcuno sogna il "Pro-D'Ale-Sconi", una intesa politica ed economica a tutto campo tra Prodi, D'Alema e Berlusconi.
Sta ai Liberali (e alle persone libere) dei due schieramenti esprimersi in queste ore.
Ma vorrei dire ai protagonisti che, se anche l'operazione riuscisse, sarebbe un modo di rinchiudersi in un cortile interno (sia pur dorato), nella totale diffidenza del resto del mondo. Chi mai porterà più un euro, un dollaro o una sterlina in Italia, se apparirà chiaro che i "giocatori" italiani sono pronti a mettersi subito d'accordo tra loro, e in una logica che -diciamo così- non sembra esattamente di mercato?
Roma, 17 aprile 2007
• Dichiarazione di Daniele Capezzone, Presidente della Commissione attività produttive della Camera:
Le cose si fanno via via più chiare. Eravamo in pochi, nelle scorse settimane, a criticare la cosiddetta "soluzione di sistema". Dicevamo -in pochi- che rischiava di essere una operazione di "pareggio" e di "stabilizzazione" reciproca del potere e dei poteri italiani, senza alcun reale beneficio per la competitività del paese.
Ora è chiaro che qualcuno sogna il "Pro-D'Ale-Sconi", cioè una intesa politica ed economica a tutto campo tra Prodi, D'Alema e Berlusconi.
Adesso, sta ai liberali (o semplicemente alle persone libere.) dei due schieramenti esprimersi in queste ore, non dopo.
E vorrei dire ai protagonisti che, se anche l'operazione riuscisse, sarebbe un modo di rinchiudersi in un cortile interno (sia pur dorato), ma nella totale diffidenza del resto del mondo. Chi mai porterà più un euro, un dollaro o una sterlina in Italia, se apparirà chiaro che i "giocatori" italiani sono pronti a mettersi subito d'accordo tra loro, e in una logica -diciamo così- che non sembra esattamente di mercato?
Telecom. Capezzone: dopo questa sconfitta, Italia come il Venezuela di Chavez
La politica si assuma le sue responsabilità: a causa della canea (anche e soprattutto) del governo, sara' ben difficile che arrivino altri investitori stranieri.
-Asse Bazoli-Prodi è ormai sul punto di spadroneggiare. E la cosiddetta "soluzione di sistema" è un modo per coinvolgere nell'"operazione" Ds e Fi -A mio avviso, a questo punto, dopo che AT&T ha lasciato, la soluzione industriale più interessante tornerebbe ad essere quella con la spagnola Telefonica.
Roma, 17 aprile 2007
• Dichiarazione di Daniele Capezzone, Presidente della Commissione attività produttive della Camera:
Dopo la sconfitta rappresentata dal "no" di At&T, l'Italia assume ormai contorni paragonabili a quelli del Venezuela di Chavez, dove i contratti e le intese si fanno e si disfano a seconda del "gradimento" della "politica".
La politica e in primo luogo il Governo devono assumersi le loro responsabilità: le dichiarazioni e il lavorio irizzante di Prodi; le sfuriate e le minacce di Di Pietro; l'intervista domenicale di D'Alema a Raitre; la prospettiva di un cambio di regole a partita in corso: tutto questo ha determinato una situazione per cui perfino un gigante mondiale come AT&T ha detto basta.
A questo punto (dopo che analoga sorte era stata riservata alle offerte di Murdoch e della spagnola Telefonica; dopo la vicenda Autostrade-Abertis; dopo quello che British Gas sta sopportando rispetto al rigassificatore di Brindisi), c'è da chiedersi se e quale investitore straniero avrà il coraggio di portare un euro o un dollaro in Italia.
Su un altro piano, è sempre più chiaro che l'asse Bazoli-Prodi è sul punto di spadroneggiare; e che la cosiddetta "soluzione di sistema" è un modo di coinvolgere nell'"operazione" i Ds e Forza Italia.
Ma vorrei dire ai protagonisti che, se questa "soluzione" può soddisfare loro, rende sempre di più il nostro paese qualcosa di infrequentabile, o comunque di cui diffidare.
Per conto mio, continuo a ritenere che la soluzione più interessante dal punto di vista industriale (per caratteristiche, dimensioni e presenza geografica sul mercato delle due aziende) sarebbe un'intesa con la spagnola Telefonica. Vedremo se le ragioni del mercato saranno ancora una volta travolte e schiacciate.
Telecom, Beltrandi: ora intervenga chi ha detto di tutelare il libero mercato
Temo però che invece ci saranno molti silenzi della politica, anche di quella sedicente liberale, vista la soluzione che si prospetta…
Roma, 17 aprile 2007
• Dichiarazione di Marco Beltrandi (radicale de La Rosa nel Pugno), vicepresidente della Commissione Trasporti, poste, e telecomunicazioni della Camera:
“Ancora una volta la difesa della cosiddetta ‘italianità’ della proprietà di una azienda italiana, che sinora non ha certo evitato una gestione discutibile di Telecom Italia, ha prodotto risultati davvero non rassicuranti: si ritirano coloro, gli americani, che avevano fatto una trasparente offerta di mercato, anche se legata al quelle chiamate ‘ scatole cinesi’, portatrice di una forte prospettiva industriale, e al suo posto si fanno avanti interessi nazionali e legittimi, ma molto finanziari e non certo estranei alla politica italiana.
Mi auguro che ora si facciano sentire coloro che nei giorni scorsi hanno difeso le forze di mercato contro le soluzioni finanziare, e che permanga la necessità di una regolamentazione che garantisca una gestione indipendente dell’ultimo miglio anche se mi aspetto invece molti silenzi dalla politica data la soluzione che si sta profilando…”