RADIO CARCERE

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Carceri: il recital di Ugo De Vita per Stefano Cucchi in scena a Sollicciano e su Rainews 24

Stefano Cucchi
Giovedì 11 novembre, alle ore 14 presso la Casa di Reclusione di Sollicciano (Firenze) andrà in scena "In morte segreta-conoscenza di Stefano" il recital di e con Ugo de Vita dedicato a Stefano Cucchi, promosso dalle associazioni Nessuno tocchi Caino, Ristretti Orizzonti, A buon diritto e la Nazionale italiana cantanti, con il patrocinio del Garante per i diritti dei detenuti del comune di Firenze, Franco Corleone.
 
Il recital, della durata di sessantacinque minuti, si compone della proiezione di un video con la sorella di Stefano, Ilaria Cucchi, e la mamma Rita. E' poi proposta una celebre aria del Mefistofele e una lettura da "Aspettando i barbari" del premio Nobel 2003 J. M. Coetzee, poi alcune liriche e il monologo "Il Sogno", una scrittura musicale fuori da ogni riferimento alla cronaca giudiziaria che ha portato a tredici rinvii a giudizio. Il progetto propone anche l'uscita di una raccolta di versi "In morte segreta" (Edizioni del Manto, Roma).
 
La prosa privilegia invece i pensieri, i ricordi, i sogni, le contraddizioni, le emozioni del giovane Cucchi. La parte musicale è affidata alle improvvisazioni di un sax soprano e ad alcune registrazioni dal repertorio della canzone italiana.
 
Sabato 13 novembre, alle ore 21.30 su Rai news 24 andrà in onda la versione integrale del recital portato in scena nei giorni scorsi al Teatro della Pergola di Firenze.
 
Giovedi 18 novembre, infine, presso la Casa di Reclusione di Padova, prenderà il via il progetto "Parole oltre le sbarre", in collaborazione con la Lupoe Libera università per ogni età di Firenze.
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DELEGAZIONE RADICALE AL CARCERE DI TORINO: 1638 DETENUTI, 803 AGENTI. CRONACA DI ORDINARIA INGIUSTIZIA. IL CONSIGLIO REGIONALE ELEGGA IL GARANTE REGIONALE DELLE CARCERI.

 
Una delegazione radicale - composta dal senatore Marco Perduca (membro della Commissione Giustizia di Palazzo Madama), da Bruno Mellano (Radicali Italiani) e  da Domenico Massano (Associazione radicale Adelaide Aglietta) - ha visitato martedì 9 novembre la Casa Circondariale “Lorusso e Cutugno” di Torino.
 
I detenuti presenti erano 1638, uno dei picchi più alti di sovraffollamento; di questi 135 erano donne. Ben 8 i bimbi al di sotto di tre anni “ospiti” del carcere.

Gli agenti di Polizia Penitenziaria in servizio effettivo, a fronte di un organico previsto di 966 unità, erano 803, di cui 188 per il Nucleo traduzioni e solo 615 adibiti alla gestione dell'Istituto.

 
Accompagnata dalla vice Direttrice D'Acquino, dalla vice commissaria Coscarella e dall'Ispettore Incerto, la delegazione ha visitato l'Ufficio Matricola, il reparto femminile, il 3° piano del Padiglione B (tossicodipendenti e nuovi giunti), l'ambulatorio del SERT per la somministrazione delle terapie, le cucine dei detenuti, la direzione sanitaria ed una delle caserme degli agenti. 
 
Particolarmente inquietante ed intollerabile la situazione igienico-sanitaria e di "abitabilità" nella sezione del 3° piano B: finestre senza vetri, pareti particolarmente fatiscenti, docce letteralmente indecenti.
 
Si è notato e sottolineato anche il numero davvero esiguo di trattamenti farmacologici con metadone e con buprenorfina: 25 trattamenti in tutto, solo a scalare, rispetto a 1350 detenuti che si dichiarano tossicodipendenti. La delegazione ha chiesto alla Direzione sanitaria ulteriori dati sulla situazione, di competenza diretta (dopo la riforma della medicina penitenziaria) del SERT dell'ASL TO2.
 
Perduca, Mellano e Massano, all’uscita del carcere, hanno dichiarato:
 
“La situazione di negazione dei diritti umani e civili che abbiamo riscontrato all’interno della comunità penitenziaria di Torino è la stessa esistente in ciascun carcere italiano; partendo da tale consapevolezza, Marco Pannella sta conducendo dal 2 ottobre un’iniziativa nonviolenta volta al ristabilimento della legalità all’interno del “pianeta carcere”.
 
Partendo da tale consapevolezza, richiediamo al Consiglio Regionale del Piemonte di attuare quanto prima la legge regionale n. 28 del 2 dicembre 2009, che ha istituito il Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale; una legge che prende spunto da una proposta radicale risalente al 2005. L’art. 2 della legge dispone che il Garante è nominato, all'inizio della legislatura, con decreto del Presidente della Giunta Regionale, su designazione del Consiglio regionale.”.
 
Torino, 11 novembre 2010
                www.associazioneaglietta.it
 
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Carceri, convochiamo gli “stati generali”

 

«Le carceri italiane sono diventate la discarica sociale di tutto il Mediterraneo, lì si vive una nuova Shoah». Queste parole, dure e drammatiche, sono di Marco Pannella. E sono alcune delle parole con cui ha motivato oltre un mese fa, la decisione di intraprendere un lunghissimo digiuno. Probabilmente il più lungo - ha detto - della sua vita, con l’obiettivo di ottenere Giustizia (quella con la G maiuscola, non quella priva di credibilità che nel nostro Paese razzola sempre più nella direzione opposta) nelle nostre carceri. E riportarle, così, a livelli quantomeno minimi di legalità. In Italia il carcere è il luogo della pena fine a se stessa. Che non insegna, né rieduca. Un luogo dove si annidano la solitudine, la malattia e la morte. Una struttura di persecuzione sociale, ha osservato ancora il leader Radicale, con cui si è voluto risolvere il problema della droga e quello dell’immigrazione. E come dargli torto, se gli stranieri senza permesso di soggiorno fanno la spola tra i Cie e la galera; se il 30 per cento circa dei detenuti in Italia sono consumatori di sostanze stupefacenti. Ma l’umanità dolente che abita le nostre carceri si estende ben oltre i quasi 70 mila reclusi. E l’intera comunità penitenziaria a soffrire questa situazione di sfascio: gli agenti, in numero gravemente insufficiente rispetto al necessario, che sempre più spesso si tolgono la vita, provati da un lavoro difficile anche quando svolto in condizioni normali; i direttori degli istituti, che non sanno più come gestire il sovraffollamento: i volontari e gli educatori scoraggiati dalla difficoltà di portare avanti qualsiasi tipo di attività formativa e ricreativa. E poi i medici, gli psicologi che in poche ore mensili devono prestare assistenza a centinaia di persone. L’emergenza, dunque, danneggia anche chi sta dall’altra parte delle sbarre. Per questo motivo i Radicali, tra i pochi ad aver conquistato una reale credibilità in materia, hanno lanciato una proposta ragionevole, quella di convocare gli "Stati generali celle carceri". Una grande assemblea che includa tutte le realtà del sistema penitenziario: dal governo ai sindacati, dai garanti per i diritti dei detenuti al mondo dei volontariato. Per discutere seriamente e individuare insieme sia le misure da adottare nell’immediato, per arginare la crisi, che quelle strutturali e organiche, perché il carcere torni finalmente ad essere ciò che la Costituzione prevede. Nell’interesse di tutti, liberi e non.

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Incompatibile Lo Cascio

 

Scrivo come persona informata dei fatti, essendo stato - con Antigone - tra i promotori delle prime proposte per l’istituzione di un garante dei detenuti e io stesso, tra il 2003 e il 2006, quando la figura del Garante muoveva i suoi primi passi nel Comune di Roma, direttore dell’ufficio che ne avrebbe dovuto sostenere l’attività. Come persona informata dei fatti posso testimoniare che l’ispettore Vincenzo Lo Cascio è incompatibile con l’incarico di Garante delle persone private della libertà nel Comune di Roma affidatogli dal Sindaco Alemanno.
 Non me ne vogliano il segretario della sua organizzazione sindacale, orgoglioso del riconoscimento, il mio amico Beppe Lumia che ne canta le lodi e lo stesso Lo Cascio, che ho incontrato solo una volta in vita mia e per il quale non ho alcuna riserva mentale: il problema non è personale, né nella sua esperienza professionale (è il leader de La Destra Storace che dice che è come mettere Dracula a capo dell’Avis), ma nella sua appartenenza ai ranghi dell’Amministrazione penitenziaria. So che è difficile fare un discorso di questo genere in Italia, di questi tempi, ma il problema è istituzionale. Non a caso la delibera istitutiva esplicita una incompatibilità per chiunque eserciti una funzione pubblica nel campo della giustizia e della sicurezza pubblica.
 Mi si potrà rispondere che Lo Cascio non eserciterà alcuna funzione pubblica durante il mandato, essendosi messo in aspettativa, ma resta il fatto che alla scadenza del mandato rientrerà nei ranghi dell’Amministrazione penitenziaria, alle dipendenze funzionali di un dirigente o al fianco di un collega al quale avrebbe dovuto contestare qualcosa nella sua attività di Garante dei detenuti: avrà avuto il coraggio di farlo, di tener fede al suo mandato istituzionale? Il solo sospetto che così possa non essere rende Lo Cascio un interlocutore infido per chi, viceversa, vi si dovrebbe affidare.
 Per molto meno, Antigone ha aspettato che Patrizio Gonnella fosse fuori dall’Amministrazione penitenziaria da sette anni e certo di non rientrarci più per affidargli la presidenza di una libera associazione di privati cittadini e oggi sì, dopo tre anni che non ne è più dipendente, potrebbe essere nominato Garante nazionale dei detenuti, come gli augura Rita Bernardini.
 Ricordo le motivazioni con cui un vecchio amico si congedò dalla magistratura al termine del mandato parlamentare: non è sufficiente sentirsi indipendenti nello svolgimento di un’attività istituzionalmente terza, è essenziale che anche le parti ti riconoscano come tale. Delle due l’una, caro ispettore, si dimetta irrevocabilmente dall’Amministrazione penitenziaria o rinunci all’incarico che il Sindaco di Roma le ha affidato incautamente.

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Carceri, è l’ora del risarcimento

 

 Se una legge deve essere retroattiva questa deve essere quella inerente la riparazione per ingiusta detenzione, legge introdotta in Italia con il nuovo codice di procedura penale nell’ottobre 1989. Prima di quella data, le tante persone detenute e poi assolte non hanno potuto beneficiare di nessuna riparazione, proprio perché la norma è compresa tra gli istituti applicabili solo per i procedimenti ancora in corso all’entrata in vigore del codice di procedura penale e non anche per quelli già conclusi. Molte vittime dell’errore giudiziario, contemplato dall’art. 314 del codice di procedura penale, sono rimaste quindi prive della giusta riparazione e ciò è accaduto in aperta violazione degli articoli 2 e 24 della Costituzione, nonché delle norme della citata Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Esistono tanti cittadini che hanno subito l’umiliazione del carcere, talvolta per anni e l’annichilimento del diritto inviolabile della libertà personale, consacrato dall’articolo 13 della Costituzione, ma non hanno ottenuto nessuna giusta riparazione e nemmeno quella somma di denaro che certo si direbbe meglio "conforto" che non "riparazione". E tutto ciò perché la loro completa assoluzione si è potuta ottenere solo in un momento precedente, talvolta di pochi giorni o di poche settimane soltanto, a quella dell’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale. È questa una situazione che offende la dignità del Paese e che contrasta con la concezione di salvaguardia dei diritti inviolabili dell’uomo che la Repubblica ha posto a fondamento del suo ordinamento costituzionale. È una situazione deplorevole e ingiusta che non può consentire a nessuno di dire: "È ormai troppo tardi". Esistono depositate alla Camera ma non ancora calendarizzate in commissione giustizia due proposte di legge, che vanno nella direzione di introdurre la retroattività nella riparazione per ingiusta detenzione una la n. 3158 prima firmataria l’On. Rita Bernardini (radicali - Pd) e l’altra n. 1865 firmatario l’On. Pier Luigi Mantini (Udc). Facciamo in modo che questi disegni di legge vengano discussi e approvati.
 
 Giovanni Russo Spena, Luigi Manconi, Associazione Antigone, Paolo Ferrero, Rita Bemardini, Sandro Favi, Elettra Deiana, Katia Bellillo, Antonio Distasi, Annamaria Rivera, Claudio Grassi, Italo Di Sabato, Andrea Ricci, Loris Campetti, Stefano Azzarà, Linda Santilli, Eleonora Martini, Vittorio Agnoletto, Marcello Pesarmi, Giulio Petrilli, Paolo Sospiro, Gabriele Sospiro, Paolo Cacciaci, Imma Barbarossa, Sergio Sinigaglia, Roberto Mancini, Giuliano Pisapia, Orazio Sturniolo, Silvana Pisa, Francesco Manna, Roberto Musacchio, Luigi Vmci, Alberto Bugio,
 
 Per adesioni contattare Marcello Pesarini 339 1347335 0 INVIARE MAIL marcello.pesarini@virgilio.it

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ITALIA - Caso Cucchi. Chiesto giudizio per medici, infermieri e agenti
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Notizia 
26 ottobre 2010 17:49
 
Le condizioni in cui si trovava Stefano Cucchi, arrestato il 16 ottobre per droga lo scorso anno e deceduto sei giorni dopo all'ospedale Sandro Pertini non consentivano il suo ricovero in questo ospedale, destinato solo a ricoveri ordinari. Questo ospedale era inadeguato per prestare assistenza ad una persona che fu messa in una stanza e qui abbandonata senza cure.
E' quanto, ricostruendo la vicenda hanno sostenuto oggi i pubblici ministeri Vincenzo Barba e Maria Francesca Loi per sollecitare da parte del gup Rosalba Liso, che oggi ha ammesso in Aula i giornalisti, il rinvio a giudizio di tre guardie carcerarie, di sei medici del Sandro Pertini, di tre infermieri dello stesso ospedale.
Per il 13° imputato, il funzionario del Dap Claudio Marchiandi, accusato di falso e abuso d'ufficio i pubblici ministeri hanno chiesto la condanna a due anni di reclusione in quanto Marchiandi ha scelto di essere processato con rito abbreviato. 
Lesioni aggravate, abuso di autorita' nei confronti di un arrestato, falso ideologico, abuso d'ufficio, abbandono di persona incapace, rifiuti di atto d'ufficio, favoreggiamento e omissione di referto.
Sono i reati contestati, a seconda della posizione processuale alle 13 persone coinvolte nell'inchiesta che nello svolgimento dei loro ruoli hanno messo per quanto riguarda le cure necessarie per tentare di salvare la vita a Stefano Cucchi, 'di adottare i piu' elementari presidi terapeutici e di assistenza che nel caso in esame apparivano doverosi e tecnicamente di semplice esecuzione'. 
Parlando per piu' di tre ore il pubblico ministero Vincenzo Barba ha ricostruito la vicenda a cominciare dal 16 ottobre dello scorso anno quando Cucchi, ragioniere di 31 anni e arrestato la sera prima per possesso di stupefacenti dai carabinieri fu portato in Tribunale e affidato alle guardie carcerarie per l'udienza di convalida dell'arresto. E' da questo momento, ha ricordato il pubblico ministero che ci sono le prime denunce di percosse fatte dall'imputato e confermate poi da un altro arrestato che con lui divideva la cella.
Poi Barba ha ricordato le successive tappe del calvario di Cucchi fino al ricovero al 'Sandro Pertini'. Barba nella ricostruzione per quanto riguarda le percosse a Cucchi ha escluso che si possano accusare i carabinieri che lo ebbero in consegna dopo l'arresto per detenzione di droga. Il problema e' sorto dopo la consegna del detenuto alle guardie carcerarie quando arrivo' in Tribunale a Piazzale Clodio. 
Barba ha poi ricordato i due ricoveri temporanei di Cucchi all'ospedale Fatebenefratelli intervallati dal suo ritorno a Regina Coeli e poi il trasporto al Sandro Pertini. Particolarmente critico e' stato nei riguardi di chi in questo ospedale seppure obbligato a prestare assistenza al paziente ha trattato la vicenda come una mera pratica burocratica. Ha parlato di evidenti inadempienze da parte del personale del nosocomio.
Stefano una volta qui ricoverato praticamente isolato dal mondo, non puo' comunicare con i genitori, non puo' parlare con il suo avvocato.
Altrettanto critico e' stato il pubblico ministero Maria Francesca Loi per quanto riguarda il comportamento dei medici del Pertini. Al magistrato e' toccato il compito di illustrare il perche' sono state formulate le accuse per i 13 imputati. Per quanto riguarda le guardie carcerarie Nicola Minichini, Corrado Santantonio e Antonio Domenici non ci sono elementi emersi dall'inchiesta che consentono di contestare loro il reato di concorso in omicidio preterintenzionale e questo perche' non c'e' nessun nesso causale tra la morte di Cucchi e le lesioni subite.
Si spiega anche cosi' la decisione della Procura della Repubblica di opporsi alla richiesta di una super perizia per dimostrare che proprio queste lesioni hanno contribuito alla morte di Cucchi. 
Esaminando poi la posizione processuale dei medici e degli infermieri del Sandro Pertini e cioe' Aldo Fierro, Silvia Di Carlo, Flaminia Bruno, Stefania Cordi, Luigi De Marchis Preite, Giuseppe Flauto, Elvira Martelli e Domenico Pepe (gli infermieri sono gli ultimi tre) il pubblico ministero Loi ha sottolineato che Cucchi e' morto per mancanza di cure. In 5 giorni di ricovero ha perso 15 chili.
C'e' stato un disinteresse totale dei medici e degli infermieri.
Il loro comportamento mette in evidenza profili di imperizia. Cucchi e' stato messo in una stanza e nessuno se ne e' occupato. Nonostante le sue condizioni e' stato abbandonato e sarebbe bastato poco per salvarlo. Un paziente e' stato lasciato solo nel suo letto senza che venissero prese le necessarie cure.
 

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Un nuovo caso Cucchi risveglia il Palazzo sul problema delle carceri

 

Nel giorno in cui il lodo Alfano ottiene nuovi segnali favorevoli in commissione ma continua a essere oggetto di polemiche, un caso di cronaca raccontato dal Messaggero, il decesso nel carcere di Regina Coeli del trentaduenne Simone La Penna in circostanze forse non dissimili da quelle che avevano portato alla morte di Stefano Cucchi, ha parzialmente ridestato l'attenzione del Palazzo sulla situazione delle carceri italiane. Per il decesso di La Penna la procura di Roma ha indagato sette medici e infermieri del carcere romano.
Il ragazzo era stato arrestato un anno fa per detenzione di stupefacenti, stava male e aveva perso trenta chili. Una storia che ieri in Parlamento si è intrecciata con le vicende del lodo Alfano e ha rimesso a tema, almeno pare, la questione carceraria. Il sovraffollamento negli istituti di pena e la revisione delle priorità secondo le quali si dovrebbe intervenire nella più complessa riforma della giustizia, ieri sono state oggetto di riunioni e dichiarazioni, non soltanto delle opposizioni, con il determinato contributo dei Radicali e di Marco Pannella.
Il leader radicale è in sciopero della fame dal 2 ottobre per denunciare i "cinquantuno suicidi di detenuti nel solo 2010". Ieri il Pd ha stretto un accordo con il partito di Nichi Vendola (estendibile ai finiani di Fli) intorno alla riforma della giustizia che, come spiega il responsabile d'area, Andrea Orlando, "non ha niente a che vedere con il lodo Alfano, ma individua nella questione carceraria il primo punto". Anche l'Udc è intervenuta, conce spiega Rocco Buttiglione: "Riteniamo necessari degli interventi di carattere ordinario e non costituzionale, in primo luogo per risolvere il problema dell'edilizia carceraria e del sovraffollamento".
L'opposizione, Radicali in testa, contesta al governo di avere varato il cosiddetto Piano carceri, ma di avere poi abbandonato la legge nei corridoi del Senato. Un rilievo cui ieri ha risposto il ministro della Giustizia Angelino Alfano: "Nel periodo che va dal 2008 al 2010 sono stati realizzati duemila nuovi posti, più di quanto non sia stato fatto negli ultimi dieci anni. Per fare le cose ci vuole del tempo". Il progetto del governo prevede la creazione di circa tredicimila posti in più per i detenuti con la costruzione di undici nuovi istituti penitenziari e l'edificazione di nuovi padiglioni all'interno delle carceri già esistenti. D'altra parte la questione del sovraffollamento carcerario, oltre a essere stata oggetto di numerose contestazioni nei confronti dell'Italia da parte della Corte europea per i diritti dell'uomo, rischia di diventare oggetto di indagini anche da parte della magistratura italiana. Con effetti che potrebbero essere paradossali.
La procura di Firenze ha aperto ieri un fascicolo sulle condizioni dei detenuti nel carcere fiorentino di Sollicciano dove, a marzo del 2010, risultavano recluse 957 persone a fronte di una capienza regolamentare di 476. Il Piano carceri è una priorità del ministro Alfano. Ma secondo indiscrezioni di Palazzo, Giulio Tremonti potrebbe non garantire la completa copertura. La stima dell'investimento è enorme: 1,6 miliardi di euro. Non è detto che al Guardasigilli riesca di forzare la flemma proverbiale del superministro dell'Economia. Lo si scoprirà nel Milleproroghe di novembre.

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"La Stampa", 27 Ottobre 2010, pag. 20

La storia
Simone La Penna

“Lasciato morire come Cucchi”
6 indagati a Roma

E per Stefano Cucchi il pm chiede 12 rinvii a giudizio

La vittima/Un trentaduenne di Viterbo: arrestato per droga, aveva perso 30 chili in prigione
Malato: Era anoressico ma per il tribunale «compatibile» con il carcere

ROMA
FULVIO MILONE

  Due morti che si potevano evitare, due casi di indifferenza e di cieca burocrazia costati la vita a giovani rinchiusi nel carcere di Regina Coeli. Del primo, com’è noto, è protagonista Stefano Cucchi, pestato a sangue da un gruppetto di agenti di custodia e morto il 22 ottobre dell’anno scorso. Il secondo caso, di cui si è saputo solo ieri, riguarda un altro arrestato, Simone La Penna, rinchiuso in cella nonostante fosse gravemente malato, tanto che il suo cuore ha smesso di battere un mese dopo quello di Stefano. Chiedeva di essere curato, ma i medici e gli infermieri del carcere, finiti sotto inchiesta, avevano dichiarato che le sue condizioni erano compatibili con la vita dietro le sbarre.
L’agonia di Cucchi «venne trattata come una pratica burocratica», e i medici dell’ospedale si mossero «con l’esigenza di mettere le carte a posto per non far trapelare nulla di quanto era accaduto», cioè il pestaggio compiuto dagli agenti di custodia nelle celle di sicurezza del palazzo di Giustizia. Per questo motivo, 12 fra agenti di custodia, medici e infermieri andrebbero processati per lesioni aggravate e abbandono di persona incapace seguito dalla morte, oltre a una serie di reati minori. Questa la richiesta avanzata ieri al giudice per l’udienza preliminare dai pm che hanno indagato sul caso di Stefano, arrestato il 16 ottobre dell’anno scorso per droga e morto sei giorni dopo. I sostituti procuratori Vincenzo Barba e Francesca Loy hanno anche chiesto la condanna a due anni di carcere per il tredicesimo imputato, Claudio Marchiandi, funzionario del Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria. E ieri, nello stesso giorno in cui i magistrati hanno formalizzato le loro accuse per la morte di Cucchi, si è saputo dell’altra brutta storia che ha per protagonista e vittima Simone La Penna, 32 anni, arrestato per droga e morto in carcere un mese dopo Cucchi. Soffriva di anoressia; le sue condizioni, secondo i legali della famiglia, non erano compatibili con la detenzione. Eppure, dopo settimane trascorse fra il centro clinico del penitenziario romano e l’ospedale «Sandro Pertini», il cuore di Simone ha smesso di battere nel chiuso di una cella. Il giovane chiedeva di essere curato. Aveva perso 30 chili e nonostante ciò nessuno ha capito che si stava spegnendo lentamente. Per la sua morte la procura della Repubblica ha indagato sette fra medici e infermieri di Regina Coeli: alcuni di loro avrebbero addirittura inviato relazioni rassicuranti al giudice di sorveglianza che doveva decidere sull’eventuale ricovero del detenuto in un ospedale. Le condizioni di Simone, secondo gli «esperti» del carcere, erano compatibili con la vita in cella.
Toccherà ai magistrati decidere se chiedere per loro il rinvio a giudizio come hanno fatto per il caso Cucchi. Il che, però, non significa necessariamente che giustizia sia fatta. Così, ad esempio, la pensano i familiari di Stefano, i quali sostengono che «la procura ha fatto un gran lavoro, ma si muove lontano dalla realtà». Sono parole di Ilaria Cucchi, sorella del giovane morto, che non accetta la tesi dei pm secondo cui non c’è relazione fra il pestaggio avvenuto nella cella di sicurezza del Palazzo di Giustizia e la morte del giovane avvenuta dopo una settimana. I magistrati, in base a una consulenza di esperti, sostengono che Stefano fu ucciso non dalle botte degli agenti della polizia penitenziaria, ma dall’inerzia dei medici che lo abbandonarono al suo destino in ospedale, senza curarlo.

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ITALIA - Morte Cucchi, la sorella: per Giovanardi sentenza già scritta
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Notizia 
24 ottobre 2010 11:31
 
Ilaria, sorella di Stefano Cucchi, il giovane arrestato per droga e morto un anno fa nel reparto detentivo dell'ospedale Pertini a Roma, ha presento ieri una denuncia alla Procura della Repubblica dopo "quanto accaduto nella scorsa udienza" del processo, in corso a Roma. Durante l'udienza, spiega Ilaria Cucchi in una nota, "siamo stati scortati fuori dal tribunale dai carabinieri, ci spiace di avere dato tanto fastidio al pm tanto da doversene lamentare col giudice. A fronte delle gravi dichiarazioni rilasciate dal Pm durante la stessa udienza, dove si fa esplicito riferimento a condizionamenti esterni, prendiamo atto che per l'onorevole Giovanardi, che fa parte del governo, la sentenza è già scritta". "D'altronde - conclude Cucchi- non ci stupisce, visto che il professor Albarello aveva dichiarato a Canale 5 che il suo compito sarebbe stato quello di dimostrare la totale responsabilità dei medici, e questo ancor prima di iniziare le operazioni peritali".
 

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Cucchi, un anno dopo

 

Una giornata dedicata alla memoria di Stefano Cucchi nell'anniversario della sua uccisione, ma anche a tutti gli altri. Alle "morti sospette", alle cause "naturali" non meglio chirite di decesso in carcere, alle malattie "fulminanti". I familiari del giovane geometra deceduto a soli sei giorni dall'arresto per detenzione di stupefacenti, scelgono oggi di condividere la ricorrenza con rappresentanti delle istituzioni, della società civile, del giornalismo perché, ha spiegato il padre di Stefano, Giovanni, «il nostro caso appartiene a questa società». «Per evitare che questo possa ancora accadere» è scritto sulla locandina che scandisce gli appuntamenti: una messa in suffragio, una rappresentazione teatrale, un dibattito aperto a partire dal libro scritto da Ilaria Cucchi 'Vorrei dirti che non eri solo' (edizioni Rizzoli).
Con l'udienza di martedì scorso in cui il gup Rosalba Liso ha respinto la richiesta della parte civile di una nuova perizia sul corpo del giovane, la famiglia ha subito l'ultima offesa. «La Procura ha manifestato segnali di insofferenza nei nostri confronti che ci hanno veramente umiliato», ha dichiarato il padre alla vigilia dell'anniversario. «Pretendiamo la stessa chiarezza e la stessa onestà - ha aggiunto con cui noi stiamo cercando di affrontare questa doloroso dramma che ci è capitato». Restituire dignità a Stefano, ripete la famiglia.
Alla sua vicenda e a quella delle altre "morti di carcere" è dedicato l'annuale rapporto dell'associazione Antigone sulle condizioni di detenzione in Italia. Un dossier la cui pubblicazione è stata fatta coincidere con l'anniversario di oggi perché, si spiega nell'introduzione, «si descrivono alcune delle condizioni che hanno reso possibile la tragedia di una persona fragile. in quel momento pressoché indifesa, uccisa mentre era nelle mani dello Stato che dovrebbe avere come obiettivo irrinunciabile la garanzia della sicurezza dei suoi cittadini». Nella ricostruzione di un anno dietro le sbarre, Antigone si affida agli interventi di parlamentari che finora hanno tentato di portare in Aula il tema del sovraffollamento carcerario e dell'eccessivo ricorso alla reclusione.
Dalla radicale Rita Bernardini al democratico Guido Melis senza trascurare membri della maggioranza come il deputato Fli Flavia Perina, né delle forze politiche extraparlamentari di Sel e Prc. A caratterizzare l'anno trascorso in carcere, secondo il dossier, gli «indurimenti delle leggi penali e delle pratiche di polizia», ma anche interventi legislativi come l'approvazione del pacchetto sicurezza dell'agosto 2009. Le carceri sono sempre più piene, sfiorano le 70mila presenze; mentre continuano le pressioni politiche per irrigidire ulteriormente le condizioni di detenzione. L'ultima proposta, a firma Lega Nord, vorrebbe estendere il regime del 41bis ai casi di omicidio particolarmente efferati, «delitti odiosi» da punire col carcere duro. In controtendenza con il crescente allarme sociale, Antigone rende la fotografia di un sistema allo stremo che necessita di trovare alternative alla cella chiusa.

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ITALIA - Caso Cucchi. Giovanardi: ancora da chiarire se c'e' stato pestaggio
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Notizia 
22 ottobre 2010 16:48
 
"Vedo che le cose che ho detto un anno fa hanno trovato un riscontro nelle vicende giudiziarie. Fin dal primo momento ho detto che il povero Stefano Cucchi non era stato curato e che fu determinante il fatto che i medici non avessero capito che non era in grado di gestirsi. Se l'avessero nutrito, trattandolo come una persona malata, forse si sarebbe salvato. E questo dato ha trovato riscontro in sede giudiziaria, dove infatti i medici sono stati incriminati. La parte del presunto pestaggio e' invece ancora tutta da definire". Cosi', ai microfoni di CNRmedia, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Carlo Giovanardi parla ancora del caso Cucchi. "Dobbiamo ricordare - continua Giovanardi - che il povero Stefano Cucchi era stato ricoverato 17 volte nei mesi precedenti, per varie lesioni, per cause che lui attribuiva a caduta dalle scale, incidenti stradali etc? c'e' tutto un pregresso di una vita segnata dalla droga, una vita segnata da situazioni patologiche. Sara' il processo a stabilire questi punti ma quello che rilevo, ed e' la cosa piu' grave, e' che i medici non abbiano tenuto conto della fragilita' di questo ragazzo e non abbiano capito che la sua volonta' era inficiata da una serie di dati comportamentali, elementi che avrebbero dovuto essere palesi ai medici vista la sua storia clinica".
Infine Giovanardi si rivolge alla famiglia Cucchi: "Alla famiglia vorrei dire di fidarsi dei pubblici ministeri, di non mettersi in conflitto con la pubblica accusa, perche' a me sembra di una gravita' inaudita il fatto che una persona possa morire perche' non viene curata o non viene nutrita. Insistere sulla colpa dei tre agenti, voler a tutti i costi farli condannare per omicidio premeditato quando la stessa accusa non arriva a queste conclusioni, e' una strada che consiglierei alla famiglia di non seguire. Anche alla luce dei fatti accaduti prima del suo arresto".
 

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ITALIA - Sorella Cucchi: la giustizia non e' uguale per tutti
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22 ottobre 2010 15:55
 
"Una parte delle istituzioni continua ad esserci vicina, penso al sindaco Alemanno e al Presidente della Camera Fini. Da altre parti non abbiamo ricevuto la stessa solidarieta' ma va bene cosi'. A un anno di distanza penso a quelle ore e il dolore che provo e' indescrivibile. E fa ancora piu' male quando penso che ora cercano di minimizzare quanto e' accaduto nei sotterranei del Tribunale, come se le botte a mio fratello non contassero nulla e non avessero provocato la sua morte". Ilaria Cucchi, a un anno di distanza dalla morte del fratello, parla ai microfoni di CNRmedia. "Oggi in quello stesso Tribunale veniamo scortati fuori dalla polizia come se fossimo un pericolo per l'ordine pubblico. Noi un pericolo, non chi ha picchiato mio fratello - aggiunge -. E il dolore e' ancora piu' forte davanti al fatto che sembra che si voglia negare l'evidenza dei fatti. Devo dire che in questi dodici mesi sto imparando un'amara lezione: evidentemente la giustizia non e' uguale per tutti. Perche' non ci e' data la possibilita' di discutere davanti a un giudice le colpe degli imputati? Si continua a parlare di lesioni lievi. Siamo lontani da una giustizia vera".
 

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ITALIA - Carceri. Rapporto Antigone: 68.000 detenuti in 44.000 posti
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22 ottobre 2010 13:21
 
I detenuti presenti nei 206 istituti di pena sono 68.527 per 44.612 posti letto regolamentari. E' questa la fotografia del sovraffollamento carcerario in Italia secondo l'associazione 'Antigone' che ha presentato oggi a Roma il settimo rapporto sulle condizioni di detenzione. Dalle visite effettuate dall'associazione tra giugno e luglio scorsi in alcuni degli istituti penitenziari piu' affollati d'Italia risulta che tutte queste carceri sono fuori legge dal punto di vista socio-sanitario. Per questo sono gia' 1.300 le richieste di ricorso alla Corte Europea per i diritti umani contro le condizioni di vita inumane.
Questa, in dettaglio, la situazioni della popolazione carceraria: il 43,7% dei detenuti e' imputato, 15.233 sono i detenuti in attesa di giudizio, record assoluto in Europa. Sono 28.154 quelli che hanno commesso violazioni della legge sulle droghe e 11.601 le persone che devono scontare una pena inferiore a un anno (la meta' stranieri). Sono 5.726 i detenuti italiani imputati o condannati per associazione a delinquere di stampo mafioso. Gli ergastolani italiani sono 1.437 mentre gli stranieri 54. I semiliberi sono 877, sono 7.800 i detenuti ammessi all'affidamento in prova mentre sono 4.692 le persone in detenzione domiciliare. Solo lo 0,23% ha commesso reato durante il periodo di misure alternative. Le donne costituiscono il 4,35% del totale e 57 sono i bambini sotto i tre anni ospitati in carcere con la madre. Per loro esistono 18 asili nido.
Sono 7.311 i detenuti con meno di 25 anni e 463 gli ultrasettantenni. Gli analfabeti sono 930 e 2.342 i detenuti senza titolo di studio; 9.197 quelli che hanno finito la scuola elementare mentre 595 sono laureati. Il costo medio per un detenuto e' di 113 euro; per pasti, igiene e trattamento rieducativo si spendono 7,36 euro.
 

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ITALIA - Caso Cucchi. No alla superperizia
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19 ottobre 2010 12:05
 
La Procura ha chiesto il processo per 13 persone: sei medici e tre infermieri dell'ospedale Sandro Pertini che ebbero in cura Cucchi, tre agenti penitenziari e del direttore dell'ufficio detenuti e del trattamento del provveditorato regionale dell'amministrazione penitenziaria. Le accuse sono quelle di lesioni aggravate, abuso di autorità nei confronti di arrestato, falso ideologico, abuso d'ufficio, abbandono di persona incapace, rifiuto in atti d'ufficio, favoreggiamento, omissione di referto. I reati sono contestati a seconda delle singole posizioni processuali.
Gli agenti penitenziari sono accusati, tra l'altro, di lesioni aggravate e di abuso d'autorità nei confronti di arrestati o detenuti per aver, secondo l'accusa, il 16 ottobre del 2009 picchiato Cucchi nelle camere di sicurezza del tribunale in attesa dell'udienza di convalida. Medici e infermieri, in sostanza, per i magistrati avrebbero abbandonato il paziente "incapace di provvedere a se stesso", omettendo anche "di adottare i piú elementari presidi terapeutici".
Almeno per il momento non si farà la superperizia per accertare le cause della morte. Il gup del tribunale di Roma, Rosalba Liso, ha respinto l'istanza degli avvocati di parte civile ritenendo che questi non sono abilitati a chiedere un approfondimento di indagini all'inizio udienza preliminare.
Secondo gli avvocati della famiglia, Fabio Anselmo e Alessandro Gamberini, il reato di lesioni colpose, contestato agli agenti penitenziari è insufficiente e che si debba loro contestare l'omicidio preterintenzionale. "La condotta di chi aveva in custodia Cucchi ha determinato la morte di Stefano"". I pm Vincenzo Barba e Maria Francesca Loy hanno chiesto al gup di rendere pubblica l'udienza, autorizzando cosí ad assistervi anche giornalisti con registratori e telecamere.
"Il tribunale mi ha umiliata. Mi e' sembrato che tutti ce l'avessero con me. Evidentemente li' non mi ci vogliono. Me lo dicano chiaro, cosi' non ci andro' piu'". Lo afferma ai microfoni di CNRmedia Ilaria Cucchi al termine dell'udienza preliminare.
"Mi e' sembrato che tutti ce l'avessero con me - racconta Ilaria -, intanto il pm che chiede la presenza della stampa in udienza, in modo inusuale, lamentando 'pressioni mediatiche'.
Come a dire: serve la presenza di giornalisti in modo che ci sia un'altra voce oltre alla mia". A udienza conclusa, poi, Ilaria denuncia di essere stata allontanata a forza dal palazzo di giustizia, senza neppure poter parlare con i suoi avvocati.
"Non mi sembra normale - racconta la sorella di Stefano Cucchi -. Evidentemente li' dentro non mi vogliono. In realta' non ho fatto nient'altro se non chiedere il riconoscimento della verita', che non sono stati i medici ad ucciderlo. Oggi mi sono sentita veramente umiliata e intimidita".
 

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"La Stampa", 18 Ottobre 2010, cronaca di Torino

Boglione (Robe di Kappa)
“Non siamo buoni, in fondo ci conviene”


  Marco Boglione, come mai la Robe di Kappa di cui lei è presidente, ha deciso di «entrare in carcere» affidando alcune lavorazioni ai detenuti e alle detenute delle Vallette?
«Non perchè siamo buoni, ma, forse, perchè siamo furbi».
E’ un’ammissione di cinismo?
«No, è solo una battuta. Intanto preciso subito che non si tratta d’una questione economica: le lavorazioni affidate ai reclusi ci costano un po’ di più che se le facessimo fare a un’aziendina normale. Ma quest’operazione ha un importante valore immateriale perchè noi pensiamo che perseguire il bene comune abbia un ritorno con gli interessi per chi lo fa».
Boglione, sembra di sentire parlare Don Bosco.
«Ma no. Essere etici, ripeto, non è solo bello, ma conviene. Ed è una convenienza che, in qualche modo, entra anche nel portafoglio perchè un’azienda come la nostra non è solo cifre, produzione e incremento del pil: la creatività è un valore. Se ne rendono conto anche i ragazzi che lavorano da noi: questo progetto li fa contenti e aumenta il loro senso di appartenenza».
Le lavorazioni delle Vallette hanno numeri consistenti.
«Vero. Soprattutto, alle micropersonalizzazioni ossia applicare su un numero limitato di capi una scritta legata a un evento o a una manifestazione. Da aprile a oggi i pezzi trattati in carcere sono stati 142 mila. Il volume d’affari d’una piccola azienda. Per non parlare dell’altro progetto, il Basic Orli, che affida a una cooperativa di detenute le piccole riparazioni richieste dai nostri clienti. Sono scelte che, anche se non rendono denaro, fanno sì che l’azienda sia comunque un po’ più ricca».\

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"La Stampa", 18 Ottobre 2010, cronaca di Torino

La fabbrica nascosta dietro le sbarre

Reportage
RENATO RIZZO

  Ha le mani di uno che ha fatto pugilato, non necessariamente su un ring: forti, grandi, il pugno a martello. Potrebbero spezzare senza sforzo il mestolo d’acciaio posato sul tavolo, eppure si muovono, inaspettatamente, caute e delicate mentre sistemano attorno a una torta decori di panna. Il proprietario di queste mani è romeno, si chiama Andrea e ha, da poco, imparato a fare il pasticciere. «Prima di che cosa si occupava?». Lui: «Facevo il delinquente». «Di mestiere?». «Certo». Ha finito ieri di scontare 7 anni per spaccio ed è qui, nelle cucine del carcere delle Vallette ad aspettare che la giustizia gli dica quando dovrà tornare in Romania per sciropparsene altrettanti. La galera, l’ha messa a frutto: s’è preso il diploma di scuola media e quello professionale. Adesso è occupato con altri 25 compagni - stipendio 1000-1100 euro al mese - nella cooperativa «Liberamensa» che, oltre a preparare prodotti di gastronomia e pasticceria, realizza catering per cerimonie ed eventi.
Il breve viaggio nella prigione che lavora comincia su queste mani e su una frase: «Il carcere è un ozio senza riposo dove il facile è reso difficile dall’inutile». Il direttore delle Vallette, Pietro Buffa, fa spesso questa citazione quando parla dell’importanza d’avere un’occupazione dietro le sbarre. E aggiunge: «Le aziende sostengono che il tempo è denaro. Noi siamo una banca del tempo e riattivare questo tempo, indirizzarlo positivamente, è determinante per chi, come i reclusi, ne ha tanto a disposizione». A inizio estate la Casa Circondariale ha presentato il primo bilancio come polo produttivo: «Nel 2009 il fatturato è stato di 2,5 milioni di euro dei quali 700 mila finiti nelle tasche dei detenuti-lavoratori. E si sta concretizzando il progetto di creare un call-center, l’apertura d’una lavanderia, d’una panetteria e d’una serra produttiva».
Avete presente le grandi fioriere verdi in legno e le panchine che punteggiano le strade di Torino? Le costruiscono in gran parte qui - insieme a porte, gazebi, tavoli da pic-nic, distribuiti dalla Lombardia al Lazio - 8 detenuti assunti dalla cooperativa Puntoacapo. Agli occhi di chi ha metabolizzato tanti film di Eastwood e Stallone questo laboratorio appare come qualcosa di diverso da una falegnameria: è un’armeria ricca di punteruoli, catene, lime, accette, anticamera perfetta d’una evasione. Clint s’annoierebbe: mai nessun problema sinora, qui.
Poco oltre, un’officina che impegna quattro detenuti seguiti dalla cooperativa Ergonauti: riparano componenti di autobus e tram del Gtt con uno standard qualitativo che raggiunge il 97%. Omar, 29 anni, algerino, è alle Vallette da un anno e uscirà a febbraio 2014: «Guadagno 600 euro al mese, ma la cosa più bella è la certezza che, a fine pena, mi garantiranno un posto “fuori”». Nella città con le sbarre, un aroma che non t’aspetti: il caffè che comprate a Eataly è prodotto qui per Pausacaffè, da 20 persone come Mario che, prima, al di là di questo orizzonte di muri, prediligevano magari un fumo diverso rispetto a quello che s’alza, gentile, dalla tostatrice a legna.
Il viaggio è ancora lungo. Passa dalla montagna di scarpe e tute - 12 mila da agosto a oggi - che i 5 detenuti occupati da Extraliberi controllano, imbustano, personalizzano per la Robe di Kappa in queste stanze di luce a scacchi, ai giovani che operano nella prima cooperativa entrata in un carcere italiano: la Eta Beta in cui si digitalizzano documenti e si producono e-book per aziende. Sotto la macchina da cucire e le abili dita di Rita e delle altre 5 detenute che lavorano per la Papili Factory, feltro, coperte militari, iuta, materiali di recupero diventano borse, portachiavi, lampade, gadget. Occhi duri di donne approdate qui per furti, induzione alla prostituzione, estorsioni. Gli stessi reati in cui hanno annaspato anche le altre che, nella cooperativa Arione o nell’associazione Casadipinocchio, cuciono bambole Pigotte o creano i pezzi unici per il marchio «Fumne». Nessuna reclusa racconta se stessa alle compagne se non raramente. L’altro giorno una ha parlato di un sacco di banconote rapinato da un furgone portavalori che, appena aperto, le è esploso in faccia schizzandola di blu. Qualcuna ha riso.

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"La Stampa", 15 Ottobre 2010, cronaca di Torino

Vallette
Inaugurato il nuovo campo all’interno del Lorusso Cutugno

In carcere il futuro inizia dal pallone

 

PAOLO COCCORESE

Ne hanno fatto le spese le rappresentative della Polizia Penitenziaria e dei giornalisti: a vincere il torneo organizzato per festeggiare l’inaugurazione del nuovo campo da calcio del carcere «Lorusso e Cutugno» è stato conquistato dalla formazione dei detenuti. La riqualificazione del campo è stata possibile con il contributo della Compagnia di San Paolo che stanziato 250 mila euro. «È un intervento non solo finanziario - dice il presidente della fondazione bancaria Angelo Benessia -, ma un impegno in un programma che attraverso lo sport deve contribuire a dare un esempio per tutti». In particolare in un luogo dove ogni giorno si deve convivere con i problemi dettati dal sovraffollamento di strutture troppo piccole. «Attraverso lo sport è possibile ridurre le tensioni che si riversano sul personale e sugli stessi detenuti», dice il direttore del carcere, Pietro Buffa. Un obiettivo da raggiungere con manifestazioni del calibro di «Un pallone di Speranza».
Arrivato all’undicesima edizione il torneo vedrà protagoniste fino a maggio gli studenti delle scuole superiori dell’intera provincia e i detenuti. Le formazioni si potranno sfidare su un impianto finalmente messo in sicurezza. «Lo sport regala importanti storie di passione - dice il vicepresidente dell’Uisp, Massimo Aghilar -. Questo campo è un segno di civiltà e di speranza e ha infuso uno spirito di intraprendenza per tutti». Quest’estate, per esempio, all’interno della casa circondariale si è svolto «Terzo tempo». Il progetto, che richiama il rugby e il suo fair play, ha permesso a tanti detenuti di lasciare la cella per la terza volta nella giornata. «Con l’aggiunta di un’altra ora d’aria - dice Placido Barresi, detenuto e rappresentante del Comitato Sportivo del carcere - sono stati organizzati tornei di calcetto, pallavolo, ping pong e calcio balilla». Occasioni di svago per rendere la vita carceraria più simile a quella al di fuori. «A questo punto - dice Giovanni Mantelli, presidente del comitato provinciale della Figc -, il desiderio è iscrivere una formazione di detenuti ad un campionato agonistico con le altre squadre della città».

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ITALIA - Morte Cucchi, la sorella: vogliamo essere risarciti con la verità
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12 ottobre 2010 19:04
 
"La pena di morte in Italia non esiste, ma per mio fratello e' stata applicata'. Lo ha detto Ilaria Cucchi, intervenuta alla trasmissione "24 Mattino" su Radio 24, a un anno dalla morte del fratello Stefano, arrestato il 15 ottobre a Roma e morto dopo qualche giorno in circostanze mai chiarite. Cucchi, commentando il risarcimento di 2 milioni di euro ottenuto dalla famiglia di Federico Aldrovandi, morto durante un fermo di polizia a Ferrara, ha affermato: "Il risarcimento che chiedo allo Stato e' semplicemente la verita', verita' da cui oggi siamo lontani".
"Paragonare un risarcimento economico a una vita umana mette davvero tristezza - ha detto - ma e' importante come segnale, e' un modo dello Stato per ammettere che al proprio interno qualcosa non ha funzionato e quel qualcosa e' costato la vita a qualcuno. E' quasi un modo di chiedere scusa, allora assume un contesto diverso. Un risarcimento per la nostra famiglia? Noi siamo all'inizio di questo percorso, parlarne mi sembra talmente impensabile. Il risarcimento che chiedo allo Stato e' la verita', da cui oggi siamo lontani".
"Ho l'impressione che arriveremo alla fine di un processo - ha detto ancora Ilaria Cucchi - in cui verra' fuori una qualche giustizia di comodo ma non la verita' su cio' che e' successo a mio fratello'. Ilaria Cucchi ha scritto un libro sulla morte di Stefano: 'Mio fratello aveva sbagliato, ma aveva una famiglia alle spalle, normale. E' stato inghiottito dalle istituzioni, e dopo sei giorni e' morto in condizioni disumane. Mio fratello aveva sbagliato, sono la prima a dirlo, ma chi deve rispettare le leggi deve tutelare l'essere umano. Non esiste la pena di morte in Italia, nel caso di mio fratello e' stata applicata'.
Infine e' tornata sulla polemica con il sottosegretario Giovanardi che disse a Radio 24 che Cucchi era morto 'perche' anoressico e tossicodipendente e la droga ha rovinato la sua vita': 'Non c'e' mai stato un vero chiarimento tra di noi - ha detto Ilaria Cucchi - Giovanardi mi telefono' cercando di spiegarmi il senso delle sue parole. Ma continuo a pensare che siano state parole, oltre che false, inopportune nei confronti di una famiglia che stava soffrendo e di una persona che non poteva difendersi piu'. Mio fratello non e' morto perche' era tossicodipendente o perche' si faceva gli spinelli a 16 anni, mio fratello e' stato ucciso, e' una cosa diversa'.
 

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Situazione disumana Per un cambio di rotta bastano due articoli

 

Da solo, tra i politici, Marco Pannella sta portando avanti la sua personale e collettiva (radicale) battaglia per assicurare migliori condizioni di vita nelle carceri. Le galere - dimenticate da tutti, governo, opposizione e media - sono ormai al limite estremo di tollerabilità umana. I detenuti sono costretti a vivere in modo indegno, ammassati in spazi di vita impossibili. Il personale penitenziario è anch'esso costretto a una vita massacrante. Mettere a rischio la serenità degli operatori significa mettere a rischio i diritti e l'incolumità personale dei detenuti.
I parlamentari di destra e sinistra che hanno visitato le carceri ad agosto non hanno prodotto una che sia una proposta di soluzione del problema. Il Piano carceri del governo è ormai carta straccia. Periodicamente - e oramai poco credibilmente - il ministro della Giustizia Alfano promette misure eccezionali, espulsioni di massa di stranieri, nuovi programmi di edilizia penitenziaria e nuove assunzioni di poliziotti.
Il Satyagraha di Pannella, il suo sciopero della fame, la sua protesta non-violenta non ha quindi nulla di vecchio, di ripetuto, di foildoristico. Di fronte al silenzio istituzionale e alla vergogna di prigioni dimenticate, ben venga la sua protesta non-violenta, o come più precisamente afferma il leader radicale, la sua proposta.
Tra qualche giorno sarà trascorso un anno dalla morte, per mano ancora ignota, di Stefano Cucchi. Quella vicenda ha squarciato il velo dell'ipocrisia carceraria, ha aperto uno sguardo pubblico dentro le prigioni e gli ospedali detentivi. I colpevoli di quella morte non sono stati ancora con certezza individuati. Il processo è agli inizi. Quella morte non ha scosso però le coscienze di chi ci governa. Tutto, dopo le solite lacrime di coccodrillo, è rimasto come prima. Nel carcere catanese di Piazza Lanza un detenuto di 43 anni affetto da un cancro allo stomaco, pare che da quindici giorni non riceva medicine per la terapia antitumorale e neanche i più generici antidolorifici. La sua vita vale zero.
Di fronte alla tragedia di una condizione carceraria drammatica, di fronte all'internamento di massa di consumatori di droghe e di immigrati irregolari, di fronte a oggettivi trattamenti inumani e degradanti non si deve chiedere a noi il suggerimento di soluzioni alternative allo status quo. Il sovraffollamento carcerario, la violenza istituzionale, la carcerazione di massa del disagio sociale non sono eventi naturali. Sono il frutto di politiche pubbliche scellerate decise per ottenere consenso.
Basterebbe una proposta di legge composta da due articoli. Articolo 1: sono abrogate le leggi ex Cirielli sulla recidiva, Bossi-Fini sull'immigrazione, Fini-Giovanardi sulle droghe; articolo 2: sono introdotti il crimine di tortura nel codice penale e la figura del difensore civico delle persone private della libertà nell'ordinamento giuridico. Due articoli soli, per restituire senso, logica e umanità al sistema. Siamo, però, stanchi di ripeterlo a vuoto, urlando contro i governanti di turno. Abbiamo elaborato documenti lunghissimi a supporto delle nostre tesi giuridiche. Li useremo per fare cultura, per parlare ai giovani, non più per fare lobby. Lo sciopero della fame di Marco Pannella serve a rendere trasparente ciò che è opaco, a dare luce a ciò che è in un cono di ombra. Non serve per estorcere consensi popolari. Ciò è segno di onestà e coraggio politico.
 
* Presidente di Antigone

 

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TORINO, DIBATTITO “CARCERE IN EMERGENZA” ALLE EX CARCERI NUOVE. Interviene Bruno Mellano.

A conclusione del Forum: La pena di morte, da Le Nuove ad oggi, organizzato a Torino dall’Associazione “Nessuno è un’isola” all’interno della struttura del Museo dell’ex-carcere  Nuove (via Borsellino 3), mercoledì 13 ottobre dalle ore 16.00 alle 19.30 è prevista una tavola rotonda dal titolo: “Carcere in emergenza: risposta inefficace per una società in emergenza”.

Sono programmati gli interventi dei rappresentanti dell’Amministrazione Penitenziaria, degli Enti Pubblici locali, dei rappresentanti dei Partiti Politici e del privato sociale.
Il dibattito si svolgerà presso ex Sezione femminile e sarà coordinato e moderato da Antonio De Salvia. Dopo una prolusione del moderatore e la presentazione degli interventi, saranno presi in rassegna i problemi che identificano l'emergenza carceraria italiana: sovraffollamento, tipologia dei detenuti, sanità e salute in carcere, lavoro, istruzione, reinserimento lavorativo e sociale, attività trattamentale, la concessione delle misure alternative alla detenzione, gli operatori penitenziari. Obiettivo della tavola rotonda: analisi problemi, prospettive, programmi, indicazione tempi di realizzazione iniziative, attraverso un confronto di opinioni.

 

Interviene Bruno Mellano, Presidente di Radicali Italiani.

 

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LA STAMPA, 12 Ottobre 2010, cronaca di Alessandria

RECLUSORI. PARLAMENTARE IN VISITA A SAN MICHELE

Chance per salvare la scuola del carcere
Ma emerge anche il dramma dei detenuti a caccia di cibo


Clicca sull immagine per ingrandirla

SELMA CHIOSSO
ALESSANDRIA

«Presenterò subito una interrogazione in Senato per risolvere il problema delle lezioni per geometri e odontotecnici negate al carcere San Michele». Lo dice la senatrice Maura Leddi del Pd, in visita ieri insieme a Bruno Mellano, presidente nazionale dei Radicali, alla casa di reclusione. Le lezioni non sono iniziate per un intoppo burocratico. Praticamente la direzione del carcere  non ha comunicato in tempo al Provveditorato agli studi il numero degli «studenti» che intendevano seguire i corsi. Quando è stato fatto le lezioni e le ore erano già state distribuite. Aggiunge Mellano: «Non è possibile che per una questione del genere venga a mancare uno strumento essenziale come la scuola. Inoltre a San Michele è attivo il polo universitario e così facendo si interrompe la filiera». Dare la possibilità ai detenuti di studiare, oltre a garantire loro un futuro diverso, significa alleviare le tensioni interne. Lo sanno bene gli educatori: avere la mente occupata nello studio la allontana da azioni non legali.
Un altro grave problema è quello della fame. Alessandria è la seconda città del Piemonte per popolazione carceraria. Nel carcere San Michele il 50% della popolazione detenuta è straniera. Tenendo conto che su 412 carcerati solo 65 sono ammessi al lavoro interno, con la possibilità di «guadagnare» e quindi acquistare alimenti, il resto o è sostenuto dalle famiglie o come nel caso degli extracomunitari non ha alcuna possibilità di accedere al denaro e quindi in caso di fame poter comprare qualcosa di extra al vitto. Ciò inizia a generare tensioni. Continua Maura Leddi: «La fame è uguale per tutti e fa male al cuore pensare a persone che si accalcano per accaparrarsi quel qualcosa in più quando passa il vivandiere».
Sul tappeto rimane il problema sanità. In ospedale esiste un repartino apposito per i detenuti che per ragioni varie non può essere utilizzato. Aggiunge Leddi: «Aprire il reparto come anche risolvere il problema della scuola rientra in quelle operazioni a costo zero che mi ero ripromessa di portare a termine dopo la visita di Ferragosto».
Cronici sono i problemi di sovraffollamento: 412 detenuti a fronte di una capienza di 263 e mancanza di personale: 190 invece di 220. E il sindacato Osapp lancia un missile: «Non ci sarebbero i fondi per costruire il nuovo padiglione a San Michele e neppure gli altri presenti nel piano carcere in scadenza nel 2012».

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Sentenza Corte Costituzionale

S.291/2010 del 04/10/2010
Camera di Consiglio del 22/09/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore SILVESTRI
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Norme impugnate: Art. 58 quater, c. 7° bis, della legge 26/07/1975, n. 354, aggiunto dall'art. 7, c. 7°, della legge 05/12/2005, n. 251

Oggetto: Ordinamento penitenziario - Divieto di concessione di benefici - Affidamento in prova al servizio sociale nei casi previsti dall'art. 47 dell'ordinamento penitenziario - Divieto di concessione per più di una volta al condannato al quale sia stata applicata la recidiva prevista dall'art. 99, quarto comma, cod. pen.

Dispositivo: inammissibilità
Atti decisi: ord. 128/2010

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L'articolo di Alessandro Margara per la rubrica di Fuoriluogo sul Manifesto del 6 ottobre 2010. Il dibattito “Ripensare il carcere” su www.fuoriluogo.it.

Fonte: Il Manifesto, di Alessandro Margara 06/10/2010

Sono convinto che la questione penitenziaria si collochi in un punto strategico e di forte crisi di questo nostro mondo dopo Cristo, come dice Marchionne, con una espressione che temo non voglia dire, come è d’uso, dopo la apparizione di Cristo, ma dopo la sua sparizione. Perché un punto strategico? Perché vi si incrociano due aspetti: da un lato, il trasferimento delle risorse economiche dalle politiche sociali – gli ultimi scampoli del welfare – alle politiche di contrasto di polizia e penale contro le crisi urbane (dallo stato sociale allo stato penale, come si dice); e dall’altro lato, la scoperta che tali politiche calamitano consenso, anche se del tutto inefficaci sul piano delle soluzioni delle crisi che si propaganda di affrontare. Meno stato e più galera. Il credo in cui tutti concordano, destra e sinistra, è: “La sicurezza è un diritto, l’insicurezza è una ingiustizia sociale”. E questo credo è accettato nonostante sia accertato che queste politiche colpiscono proprio le fasce più deboli della popolazione e quando è indubbio che il diritto alla sicurezza non riguarda la sicurezza sociale (dalla culla alla tomba, slogan ampiamente negato dalla demolizione del Welfare) e il recupero delle situazioni sociali critiche. L’adempimento di quel diritto è soddisfatto dall’arresto di più persone e dal placare, più che la paura, il cattivo umore della gente.
La mia conclusione è che il sovraffollamento è ormai strutturale e che, per questo, non c’è modo di interromperlo. La volontà è questa (con le leggi riempi carceri, con l’inerzia a intervenire successivamente, maledicendo il condono e promuovendo, dopo lo stesso, un ritmo di ri-carcerazione più veloce di prima: aumento di 31.000 detenuti in 4 anni: il condono fu preceduto da un aumento di 10.000 detenuti in un decennio) e occorrerebbe una volontà opposta, che non si vede apparire all’orizzonte.
In questa rubrica, sul Manifesto, sono intervenuti recentemente Franco Corleone (25/8), Mauro Palma (15/9) e Stefano Anastasia (22/9). Pongono problemi seri su un possibile ripensamento del carcere relativamente alla sua organizzazione interna e, in particolare, ai problemi del personale. Ci sono prospettive in questo senso? La risposta che mi viene immediata è no, perché è chiaro che questo governo rifiuta il dettato costituzionale (vedi le leggi Bossi-Fini, ex-Cirielli, Fini-Giovanardi) e pensa ad un carcere di sola contenzione, che rifiuta qualunque funzione riabilitativa, come dimostra la precisa scelta di carceri sempre più grandi, contro l’art. 5 dell’O.P. (vedi il fantomatico piano edilizio del DAP), che saranno sempre più affollati e nei quali parlare di  trattamento individualizzato – art. 13 O.P. – è solo una “sfottitura”). Questa la politica dei responsabili attuali: nessuno spazio per i ripensamenti di Corleone, Palma e Anastasia. Ma, nel ripensare i ripensamenti, si può notare che gli stessi parlano di un carcere più ragionevole che, in qualche misura, può alleggerire le responsabilità dello Stato, cosa gradita oggi. La proposta di creare carceri con maggiore responsabilizzazione dei detenuti e minore impiego di personale viene incontro alle minori spese auspicate. E la presa d’atto che molte attività vengono via via passate ad altre amministrazioni, dalla sanità alla scuola, a tutte le iniziative riabilitative, nelle quali la Amministrazione sta arrivando a non mettere più un soldo e l’idea conseguente di spostare il personale di servizio sociale dallo Stato alle amministrazioni locali: anche qui risparmi e meno responsabilità per lo Stato. E, per la Polizia penitenziaria, è possibile un impiego più razionale e meno dispersivo, impegnata com’è anche in funzioni ben diverse da quelle che le sono proprie: un’altra possibilità di economie di personale e di risorse. Una conclusione molto sommaria, che sintetizza le varie proposte, può essere questa: responsabilizzare i detenuti per deresponsabilizzare lo Stato e i suoi rappresentanti. E’ ben vero che ne risulterebbero un carcere e una politica penitenziaria migliori, ma credo che si imporrebbe l’opposizione degli “spiriti della prigione”, che vogliono con fermezza la prigione e la vogliono così com’è, piena, incapace di pensarsi e vedersi, utile solo per propaganda, del tutto inutile e indifferente per gli uomini che ci sono chiusi. Il carcere dopo Cristo, appunto.

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Allarme suicidi nel carcere dl Poggioreale

 

Era lo scorso 9 settembre, quando dal carcere di Poggioreale arrivò l'allarme suicidi tra i detenuti, ben 51 nel corso di quest'anno. Ieri c'è stato il 52esimo. Antonio Granata, 35enne di origini campane, arrestato il 29 settembre scorso, si è tolto la vita impiccandosi. Appena entrato nell'istituto penitenziario l'uomo era stato allocato nel Padiglione Firenze, nel reparto «nuovi giunti». Successivamente, notificatagli un'ordinanza di custodia cautelare per 416 bis era stato spostato nel padiglione «Livorno-Alta Sicurezza Con quello di ieri sono dunque 52 i suicidi verificatisi nelle celle delle prigioni italiane dall'inizio del 2010. «Una mattanza - scrive Eugenio Sarno, segretario generale Uil Pa Penitenziari - che il Dap e il ministero della Giustizia non sembrano capaci di arginare. Tra autosoppressioni, aggressioni, violenze, sovrappopolamento e violazione del diritto», continua Samo, «le nostre galere hanno perso ogni residuo di civiltà, umanità e legalità. Nonostante gli sforzi del personale, abbandonato a se stesso, nulla si può se non intervengono quelle soluzioni strutturali più volte richieste».
Il precedente suicidio registrato a Poggioreale risale al 9 settembre scorso: un transessuale di 34 anni, il pugliese Francesco Consoli, detenuto da circa un anno, si era tolto la vita inalando del gas. Il terzo caso in pochi giorni nel carcere campano: nelle settimane precedenti un detenuto era morto assumendo un mix di farmaci (Sanax e Rivodril) introdotti fraudolentemente in cella, mentre un altro era stato stroncato da un infarto. Ma nel penitenziario napoletano non ci sono soltanto i suicidi.
Lo stesso 9 settembre, a denunciare un allarme decessi a Poggioreale furono Riccardo Arena, curatore della trasmissione Radiocarcere su Radio Radicale, e l'associazione Ristretti Orizzonti. «A Poggioreale e per giunta nello stesso padiglione, ovvero nella stessa palazzina chiamata Roma, sono morti nel giro di pochi giorni tre persone detenute» dissero.
«Il primo detenuto - recitava una nota - è morto il 24 agosto, ma la notizia si è appresa solo ieri. Si chiamava Sergio Scotti ed è morto dopo aver assunto un mix di farmaci introdotti fraudolentemente in cella». «Domenica 5 settembre - continuano Radiocarcere e Ristretti Orizzonti durante la notte, è morto un altro detenuto a causa di un infarto. Si chiamava Giuseppe Coppola, di 60 anni,.ed era detenuto sempre nel padiglione Roma del carcere di Poggioreale. Pare che Coppola, verso le tre di mattina, si sia sentito male ed abbia- accusato dolori al petto. Portato in infermeria, gli è stato somministrato un antidolorifico ed è stato rimesso in cella». A questo punto, la denuncia si tinge di giallo. «Non è chiaro se il medico lo abbia visitato o meno. Dopo un paio d'ore Coppola si è di nuovo, sentito male tanto che è svenuto in cella. È morto durante il trasporto in autoambulanza». «Mercoledì sera, l'ultimo decesso - conclude la nota - sempre nel padiglione Roma è morto Francesco Consolo, di 34 anni. Consolo era detenuto nella sezione Transex, dove vengono ubicati tossico dipendenti, omosessuali e transessuali ed è morto dopo aver inalato il gas dalla bomboletta data in dotazione ai detenuti per cucinare in cella». Secondo i dati dell'Osservatorio sulla condizione della detenzione dell'associazione Antigone, nel carcere di Poggioreale sono,attualmente, presenti 2.602 detenuti a fronte di una capienza di 1.658 posti. Mille carcerati più di quel che sarebbe consentito.

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In carcere a 77 anni

 

Per tutti è "la nonnina". Così l'hanno soprannominata le compagne di Buoncammino. Chiunque la conosce nel carcere cagliaritano. E chi l'estate scorsa l'ha incontrata, la descrive come un personaggio leggendario. Un concentrato di simpatia, sempre pronta a dispensar consigli alle detenute più giovani. Un bel da fare, visto che Silvana Malu, originaria di Cagliari, di anni ne ha 77.
In galera da 20 mesi, e davanti altri 30 da scontare, la nonnina però non ce la fa più. ,E chiede di poter scontare il resto della pena a casa. La sua età e la sua salute sono chiaramente incompatibili con la detenzione. Ma non si tratta di banali acciacchi legati all'anzianità, per quanto anche quelli basterebbero da soli a chiedersi cosa ci faccia una settantasettenne in carcere. In uno dei più difficili della Sardegna, tra l'altro, se non d'Italia. Silvana, infatti, soffre di numerosi gravi disturbi: tra cui cardiopatiaipertensiva, aneurisma dell'aorta addominale, ipercolesterolemia, steatosi epatica e infezione delle vie urinarie.
Si racconta che avesse imparato a fabbricarsi da sola dei pannoloni, ritagliando alcuni stracci o lenzuola. Pannoloni di fortuna, certo, ma su misura, dal momento che quelli che le davano in carcere erano sempre troppo piccoli o troppo grandi. L'ingegno, però, non basta a sopportare i disagi della vita dietro le sbarre. Né bastano a lenire la sofferenza le attenzioni, le cure che pure gli agenti penitenziari e i medici le riservano. Nel corso dei mesi le sue condizioni sono andate via via peggiorando, fino a dare segni di un inizio di demenza senile. Silvana non può più restare in carcere. E non vuole.
Tanto da arrivare - ha fatto sapere Maria Grazia Caligaris presidente dell'associazione Socialismo Diritti Riforme - a rifiutare le terapie, non sapendo più come denunciare il proprio malessere. Sebbene sia previsto che gli ultrasettantenni possano scontare la pena in strutture alternative al carcere, l'anno scorso l'anziana donna si è vista respingere la richiesta di differimento. Richiesta che l'avvocato ha presentato nuovamente, alla luce del suo peggioramento, e che si spera venga finalmente accolta. Intanto il caso di Silvana Malu è sbarcato in Parlamento, dove la deputata Rita Bernardini e i colleghi radicali hanno depositato un'interrogazione ai ministri della Giustizia e della Salute per sapere quali provvedimenti intendano adottare per far fronte a quella che appare come una palese violazione dei diritti fondamentali della detenuta. In primis il diritto alla salute. La storia della nonnina di Buoncammino è emblematica di tante altre, ugualmente drammatiche, che,spesso restano prigioniere con i loro protagonisti tra le mura di un carcere. Storie di ordinaria follia, di fronte al soffocante sovraffollamento delle galere. Storie da cui partire, se davvero si intende risolverlo.
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Inferno dietro le sbarre

Alza la maglietta, appoggia il petto alle sbarre e mostra una cicatrice rossa, che lo taglia in due: «Ecco qua, sono stato operato a cuore aperto e sono stato in coma. Eppure qui da tre anni non vedo mia madre: ha 59 anni ed è paralitica. Mi dicono che piange per me e io non la posso vedere». Non grida, Pietro Buccheri, solo perché non ha abbastanza fiato. A trent'anni non sa scrivere e trovare un detenuto che l'ascolti, mentre detta qualche riga da spedire a casa, è difficile all'Ucciardone di Palermo. È uno dei penitenziari più disastrati d'Italia. E lui sconta la pena nella nona sezione. Lì fa un caldo infernale d'estate. Freddo e acqua che s'infiltra nel letto durante l'inverno. La cella vicino alla sua, la numero sei del braccio destro, è inagibile perché quell'acqua proprio non si ferma. Penetra dal soffitto e scende sulle pareti. Una questione di tegole rotte. Anzi, una questione di burocrazia. Soldi che non ci sono. Firme che non arrivano. E Pietro, come i suoi compagni di cella, si chiede se forse tutto questo non sia troppo anche per chi ha rubato, rapinato o spacciato droga: «Siamo stipati in pochi metri quadri. Dalla finestra a bocca di lupo non entra aria. Ci stiamo anche 21 ore al giorno in questa maledetta cella. Così non possiamo vivere. A volte è meglio l'idea di morire». Una storia che sono decine di storie qui a Palermo. E migliaia nell'Italia delle galere vecchie e sovraffollate che il ministro Angelino Alfano promette di ampliare con un piano di investimenti da oltre un miliardo che però stenta a partire. Tante, tantissime storie raccolte nei 216 istituti di pena che ad agosto hanno aperto i cancelli a una delegazione di parlamentari su proposta del partito radicale. Muri crepati, gabinetti sporchi, pavimenti rotti, cibo poco e cattivo, acqua razionata.
Un viaggio per raccogliere cifre, voci e testimonianze fra gli oltre 70 mila detenuti. Solo all'Ucciardone, il più grande istituto siciliano, sono rinchiusi in 707 dove al massimo ne potrebbero entrare 402. Non tutti condannati. Anzi. Solo 384 hanno già ascoltato la sentenza definitiva. Gli altri, poco meno della metà, sono in attesa di un giudizio, un processo che forse tarderà ancora anni. Il turn-over è impressionante. Ogni giorno ne arrivano 25 nuovi e se ne vanno altrettanti. Un detenuto su cinque non resta in carcere per più di sette giorni. Ma, nella vita di ogni giorno, significa spazio, aria e cibo tolti a qualcun altro. Come denuncia Angelo Faraci, che lamenta gravi carenze nell'assistenza sanitaria. Ha raccontato alla deputata radicale Rita Bernardini, che ha guidato la delegazione, di avere subito un intervento di angioplastica al Policlinico di Palermo a maggio. Il chirurgo aveva chiesto di poterlo rivedere dopo un mese. Ma dal carcere è arrivato il no: «Mi hanno risposto che non occorre, una, due, tre volte. E io sto male e di notte piscio sangue».
Ripete che casi come il suo sono all'ordine dei giorno. Basta salire i piani, passeggiare lungo i corridoi, passare i catenacci che separano le aree per i detenuti comuni da quelle di massima sicurezza. La sesta sezione ha quattro piani. Celle anguste, buie. C'è puzza. Materassi vecchi e impregnati di sudore, generazioni di detenuti sdraiati sulla stessa tela ormai logora. Niente docce in cella. Solo un labirinto di docce comuni, sporche e rotte. «In media, su tre docce alla settimana, due sono con acqua fredda perché quella calda non funziona», dice un detenuto. Tutto il primo piano della sezione è stato dichiarato inagibile. E, quando sali ai livelli superiori, dove sono rinchiusi 214 detenuti, sfoghi e urla raccontano la tragedia quotidiana di chi è costretto a sopravvivere là dentro. C'è Paolo. C'è Luca. C'è Francesco. C'è Gaetano. E poi Yassine, El Abbouby, Adel, Radu. «Siamo trattati peggio degli animali, il cibo di uno va diviso in due, ci sono formiche e blatte dappertutto, l'acqua che esce dal rubinetto è gialla, non c'è il sapone per lavarsi e ci danno due rotoli di carta igienica al mese: siamo murati vivi». Il braccio conta sei celle identiche, una di fila all'altra. Venti metri quadri ognuna, per nove detenuti. Fanno circa due metri a testa. Significa che non riesci a stare seduto, né a spostarti nella cella: «Lo scorso inverno eravamo in dodici qui dentro», raccontano, «dormivamo a turno».
La privacy non esiste. Un muretto alto appena un metro separa gabinetto e fornello. Siccome mancano gli agenti di custodia, se qualcuno si sente male durante la notte rischia di restare a terra nell'indifferenza generale. E così fra i detenuti dell'Ucciardone s'è affinata una tecnica di intervento: «Gridiamo da dietro le sbarre in modo da farci sentire dal piantone dell'altro braccio. Lui avvisa la sentinella e, forse, qualcuno arriva». Achille Custini ha 37 anni. L'hanno operato a una gamba e adesso, per potersi reggere in piedi, deve fare i conti con una placca di metallo che gli tiene unite le ossa. Fa ? male. Ma nell'assurdo della burocrazia carceraria il problema è che, a causa di quel- l'incidente, lui rischia di perdere lo sconto di pena per buona condotta: «I giorni di liberazione anticipata si ottengono solo facendo le ore d'aria. Ma io non posso scendere e salire quattro piani ridotto come sono. Riesco a farne al massimo due, perché poi mi fa male. E così rischio di perdere tutto». La stessa burocrazia che ha trasformato le visite di una madre calabrese al figlio carcerato in Sicilia in una specie di Odissea: «Quando viene a trovarmi in treno, mia madre arriva verso le 4 del mattino. Ma qui la fanno passare a mezzogiorno. Passa ore e ore sotto il sole, o sotto la pioggia. Ed è una donna anziana e malata», denuncia Antonio Morabito, 37 anni, di Reggio Calabria. Da nove mesi invia richieste di trasferimento per avvicinarsi alla famiglia. Niente da fare. «Anche i bagni per gli ospiti sono inservibili, così come quelli degli agenti di polizia. La situazione è quella di un degrado generalizzato. Vivere anni e anni in queste condizioni crea depressione, problemi psichiatrici, malattie, epidemie e violenza», denunciano i radicali. Al carcere lombardo di Vigevano le sindromi psichiatriche suonano come un'emergenza. Il 40 per cento dei detenuti è stato visitato nell'ultimo anno per problemi di questo tipo. A cui si aggiungono ipertensione diffusa e claustrofobia.
L'epatite C sta dilagando. È una vera epidemia. Da Bologna a Napoli, i casi si moltiplicano. E le condizioni igieniche favoriscono la trasmissione dei virus. «Dopo che andiamo in bagno, ci dobbiamo lavare con la bottiglia... Mica siamo animali. Io ho sbagliato e sono un delinquente, ma lo Stato è più delinquente di me», ripete un detenuto. Così anche a Enna e Mistretta. Ma anche a Poggioreale e Rebibbia. Letti a castello di quattro piani, alti poco più di un metro. E ancora lo stesso lavandino per l'igiene intima e le stoviglie. O la cella con il bagno a norma per i disabili, ma la porta troppo stretta perché davvero ci possa passare una carrozzina. O ancora le visite mediche negate. Come nel caso di Giovanni Zullo, 28 anni, di Salerno. Chiede da un anno e mezzo una Tac alla schiena. Ha dolori forti. Di notte spesso non chiude occhio. Ma al tribunale di sorveglianza, almeno per ora, la richiesta resta inevasa. Nella sezione femminile di Enna c'è invece Maria Mascali. A 12 anni era mamma, a 32 è nonna. Ha quattro figli e tre nipotini. Una deve operarsi di tumore. Le resta un anno e mezzo di carcere e ha chiesto di terminare la pena ai domiciliari. Ma per ora non se ne parla. Così i bambini vengono a trovarla in galera. «Soffrono molto. Una bimba è sorda e non parla. Quando viene qui piange in continuazione», racconta la manona detenuta. L'ora d'aria sono lunghi corridoi all'aperto chiamati "passeggi".
A Palermo ce n'è uno su cui si favoleggia. È chiuso da due porte blindate e, dopo circa due metri da sbarre di acciaio. «Lì passeggiava Totò Riina», raccontano i detenuti. Ma la realtà è che quelle strettoie sono gabbie lunghe 15 metri e larghe sei. C'è solo cemento. Nulla all'interno. Nemmeno un lavandino. Solo un vecchio gabinetto alla turca che non funziona, ma odora come funzionasse. Sopra la testa una rete metallica taglia l'azzurro del cielo. Altre sbarre, anche lì. «Sono gabbie per leoni, senza nemmeno i domatori», dice un detenuto della quinta sezione. Perché la carenza di organico pesa sui carcerati, ma pesa anche sulla polizia penitenziaria. Costretta a turni massacranti. All'Ucciardone mancano 165 agenti rispetto alle piante organiche, già striminzite, dei ministero della Giustizia. E sono quelli che ci vorrebbero solo per gestire la capienza regolamentare. La beffa è che l'ottava sezione, completamente ristrutturata, è lì in fondo al cortile. La palazzina borbonica è stata rimessa a nuovo. Peccato resti chiusa. Vuota. In attesa di un collaudo che forse arriverà quando malte e tubi goccioleranno di nuovo. «Anche se ce la facessero, non servirebbe. L'apertura di questo reparto, che potrebbe ospitare 120 detenuti e dare ossigeno a tutto il carcere è subordinata all'assunzione di 40 agenti. Che non arriveranno mai. C'è pure Adel. È un ragazzino di Casablanca. Ha 22 anni ed è finito in quell'inferno per una ventina di cd contraffatti. Come tutti i nuovi è stato spedito al cosiddetto "canile", celle microscopiche con gabinetto alla turca, quando va bene, senza bagno in molti casi. «A luglio i muri erano scrostati, adesso sono stati ridipinti. Il direttore ha stanziato 200 euro per la manutenzione ordinaria e ci ha detto che con quella cifra deve arrivare al 31 dicembre», spiega la parlamentare Bernardini. Perché i direttori hanno i budget decimati. Al carcere dell'Armerina, in provincia di Enna, c'è un detenuto che mangia con le mani. Non ha potuto comprarsi una forchetta. Non ha soldi. Ha chiesto un sussidio, come previsto dalla legge, ma non ha ottenuto risposta. E questo perché il direttore del carcere può contare su 300 euro l'anno per tutti i detenuti. Che sono 123, contro una capienza regolamentare di 45. Un detenuto nigeriano, Okorie Okalimbo,è uno di loro. Gli mancano tre mesi per scontare la pena e, intanto, una ditta di Vicenza ha chiesto di poterlo assumere durante il giorno. Una bocca in meno da sfamare, ma non per i regolamenti carcerari. La risposta è stata no: «La direttrice si è spesa, ma il magistrato di sorveglianza è stato irremovibile», spiega. Col rischio che fra tre mesi, una volta fuori, quel posto se lo sia preso un altro.
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Stefano Anastasia scrive sulla situazione carceraria per la rubrica settimanale di Fuoriluogo sul Manifesto del 22 settembre 2010.

Fonte: Il Manifesto, di Stefano Anastasia 22/09/2010

“Passata la festa, gabbato lu Santu”. Il ferragosto si allontana e la sensazione che il precetto evangelico sia stato seguito ritualmente sembra ogni giorno più forte: dal carcere continuano ad arrivare notizie di morti e disperazione e non abbiamo notizie di un sussulto di iniziativa da parte delle centinaia di parlamentari che sono andati a visitare i carcerati. In Senato pende il disegno di legge per la detenzione domiciliare a fine pena, mentre la Camera discute delle alternative al carcere per le detenute madri: progetti pure condivisibili nell’ispirazione, ma nulla che possa raddrizzare quel piano inclinato che da due anni sta facendo scivolare il sistema penitenziario italiano verso la catastrofe umanitaria. Balliamo sul Titanic e magari qualcuno al Ministero della giustizia starà pensando che una bella crisi di Governo potrà alleggerirlo dalle proprie responsabilità per azioni e omissioni di atti d’ufficio.
Hanno ragione, quindi, Franco Corleone (il manifesto/fuoriluogo, 25.8.2010) e Mauro Palma (il manifesto/fuoriluogo, 15.9.2010) a richiamarci a uno sforzo di elaborazione ulteriore, a partire dall’Ordinamento penitenziario, dal Regolamento del 2000 e da una revisione critica delle “grandi riforme” del sistema, come quella che smilitarizzò gli agenti di custodia e ne fece il nuovo Corpo di polizia penitenziaria. Parto proprio da qui per farne un’altra, di proposta.
Non si può disconoscere che di strada ne è stata fatta: chi ricordi i vecchi “secondini” ante-riforma non può non apprezzare la qualità professionale della gran parte dei nuovi “poliziotti penitenziari”. Ma i problemi del Corpo di polizia penitenziaria restano e sono i problemi del sistema penitenziario. In deroga al blocco delle assunzioni nel settore pubblico, negli ultimi vent’anni l’Amministrazione penitenziaria ha assunto prevalentemente agenti di polizia, affidando loro le mansioni più disparate, in nome del “trattamento penitenziario” e del fatto che anche loro dovessero parteciparvi. Da qui una tendenza bulimica del Corpo (come quella del sistema penitenziario nei confronti dei detenuti) e lo slabbrarsi della qualificazione professionale dei poliziotti, che in carcere sono agenti della sicurezza, del trattamento, della disciplina, dell’amministrazione, della contabilità, delle relazioni con il pubblico, ecc. ecc.., e comunque mai sufficienti alla bisogna.
Sarà anche stato un cattivo sindacalismo a portarci fin qui, ma forse una spiegazione va cercata nella stessa ispirazione del nostro sistema penale e penitenziario. Nonostante le diverse tendenze di molti Paesi comparabili al nostro, il sistema penitenziario italiano resta un sistema “carcero-centrico”, nel quale le altre possibilità sanzionatorie (e le professionalità non custodiali) restano delle “alternative”, solo eventuali. Tanto più eventuali quanto più la loro stessa attuabilità sia ormai estranea alle competenze delle amministrazioni dello Stato. Non bisogna dimenticare, infatti, che la riforma costituzionale del 2001 ha affidato alle Regioni e agli enti locali, oltre che le competenze sanitarie, quelle sull’organizzazione dell’offerta di istruzione, sulla formazione professionale, sulle politiche attive del lavoro, sulle politiche sociali. Di tutto ciò che ha a che fare con il reinserimento sociale dei detenuti e con la possibilità che i condannati scontino la loro pena all’esterno del carcere l’Amministrazione statale non sa più nulla, e meno che mai ne sa quel suo piccolo pezzo da cui dipende la gestione delle carceri.
In questa prospettiva, per potenziare le alternative al carcere, per emanciparle dalla loro condizione di minorità, non avrebbe più senso riconoscere che il sistema penitenziario è il frutto del concorso di più livelli e di più competenze tra Stato ed enti territoriali, e quindi riconoscere i confini oltre i quali l’amministrazione della giustizia non può andare e lasciare operare più efficacemente Regioni ed Enti locali? Perché gli Uffici dell’esecuzione penale esterna, con i loro assistenti sociali impegnati tra carcere e territorio, non possono passare direttamente alle dipendenze delle Regioni e degli Enti locali? Non ne sarebbe facilitata la presa in carico dei condannati sul territorio e, magari, le alternative al carcere?

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"La Repubblica", VENERDÌ, 17 SETTEMBRE 2010
Pagina VII - Torino
 
Giallo sulla morte di un detenuto disabile
L´avvocato: "Invalido al cento per cento, non doveva essere in carcere"
Una girandola di trasferimenti, fino alle Vallette Trovato senza vita sulla sedia a rotelle
 
LORENZA PLEUTERI
Di carcere, in carcere, si continua a morire. Ieri alle 7.58 di ieri gli agenti della penitenziaria, poi pronti a dire che «alla conta della mezzanotte era tutto a posto», hanno trovato senza vita un detenuto calabrese debilitato dall´infermità e dai malanni, dal non starci più con la testa, dallo stare a centinaia di chilometri dalla famiglia. Era accasciato sulla sua sedia a rotelle in una cella a due posti del padiglione A del Lorusso e Cutugno, quarto piano, sezione ad alta sicurezza e a sorveglianza più stretta, in teoria. Non respirava più, è uscito di galera con i piedi davanti. Si chiamava Placido Caia, aveva 64 anni, stava scontando una pena per associazione mafiosa, ritenuto un uomo di punta della ‘ndrangheta di Seminara, già condannato anche per sequestro. «Il predetto - recita testualmente comunicazione fatta avere alla vedova, Maria, attraverso i carabinieri - è deceduto presso questo istituto per cause presumibilmente naturali tuttora in corso di accertamento».
I familiari e i legali non la fanno così semplice. Al contrario. Sono arrabbiati, agguerriti, decisi a scavare a fondo. Oggi arriveranno a Torino per presentare un esposto-denuncia contro il carcere, i medici, il dipartimento dell´amministrazione penitenziaria. E affiancheranno i loro consulenti agli specialisti indicati dalla procura per autopsia e esami tossicologici. «Sono troppe le cose che non tornano, da cui discendono responsabilità gravi», ripete l´avvocato Domenico Putrino, mentre dalle Vallette arrivano solo «no comment». «Caia dentro non ci doveva stare. Era invalido al cento per cento, non autosufficiente, bisognoso di quotidiana assistenza». Solo poche ore prima del decesso, mercoledì, il difensore aveva inviato un preoccupato fax alla direzione per chiedere conto delle condizioni dell´assistito e sollecitare una copia della cartella clinica. «Nel 1978 - ricorda l´avvocato - si era dato fuoco, in un altro istituto, per respingere l´accusa di sequestro. Da allora, ustionato e inabile, con mille altri malanni fisici e mentali, non era più lui. Per dieci anni ha avuto il differimento della pena, per motivi di salute». Poi è stato riarrestato ed è cominciata la girandola di trasferimenti. Secondigliano. Sulmona. Torino, a fine giugno. «Non abbiamo mai saputo il perché di tutti questi spostamenti. E per capire come è stato trattato basti dire che, all´ultimo viaggio, la sua sedia a rotelle è rimasta a Sulmona». Non è tutto. «È strano che fosse sulla carrozzina e non in branda». E ancora: «I parenti lo hanno incontrato per l´ultima volta a luglio, poi è stato detto loro che aveva scritto una dichiarazione per rifiutare i colloqui. Essendo analfabeta, non avrebbe potuto farlo».

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Mauro Palma scrive sulla situazione carceraria per la rubrica di Fuoriluogo sul Manifesto del 15 settembre 2010. Il dibattito sul carcere su www.fuoriluogo.it.

Fonte: Il Manifesto, di Mauro Palma 15/09/2010

Qualche ventosa giornata ricorda a tutti l’arrivo dell’autunno e, ai consueti problemi della ripresa, si aggiunge l’affanno di un’estate in cui lo scontro politico istituzionale ha avuto la meglio su quello politico sociale. Scenari multipli sono stati proposti per gli equilibri dell’assetto dei partiti e delle loro alleanze, ma nessuno scenario è stato proposto per altri problemi; in primis, per quello di una società che non è in grado di misurarsi con le proprie contraddizioni. E misurarsi non è darne una mera descrizione, bensì  ipotizzare modalità concrete per ridurre la loro drammatica incidenza nelle condizioni di vita dei soggetti e nelle culture in cui esse si collocano.
Così, l’enfasi descrittiva di un’estate in cui anche i disattenti si sono resi conto delle condizioni di vita di chi è in carcere e dell’impossibilità delle pene che là si scontano di rispondere al senso di umanità e al dettato costituzionale, rischia di lasciare il campo a stanche e rituali ripetizioni: stesse analisi, stessi dibattiti, stesse inefficaci proposte.
Proprio su queste pagine però si è manifestata, nel mese scorso, la volontà di aprire una riflessione diversa su questi temi – da ultimo lo ha fatto Franco Corleone (25/8). Partendo da alcuni fallimenti, inclusi quelli che riguardano provvedimenti su cui molto si era puntato negli anni passati: la riforma della polizia penitenziaria, il nuovo regolamento, la definizione delle professionalità operanti in carcere. Aspetti, questi, che, integrandosi, determinano nel concreto la vita detentiva. Può, quindi, essere utile aprire una discussione su di essi.
Il primo, il carcere in Italia difetta anche plasticamente e architettonicamente di spazi che diano senso a una pena volta al reinserimento: questo anche nelle situazioni non sovraffollate (qualora ce ne fossero). Perché è centrato su due modelli: quello panottico delle vecchie costruzioni e quello lineare adottato dagli anni settanta. Entrambi interpretano una visione occhiuta e deresponsabilizzante del tempo detentivo e, quindi, dello spazio dove esso scorre: luogo dove sostanzialmente controllare e custodire soggetti “infantilizzati”  a cui si chiede solo di aderire a una routine quotidiana, distante dalla complessità della scena esterna; luogo dove si ritrovano mescolate persone che attendono gli esiti dell’indagine, persone che avrebbero più bisogno di tutela sociale che non di punizione, persone che hanno commesso gravi reati. Già la distinzione tra indagati e condannati stenta a essere praticata e tutti sono insieme, fruitori della stessa attesa inerte.
Il secondo riguarda l’identità professionale di chi in carcere lavora. Non credo si possano giudicare positivamente gli esiti della ormai ventennale smilitarizzazione del corpo degli agenti di polizia penitenziaria senza interrogarsi se nei fatti si siano dati solo nomi diversi a situazioni pre-esistenti e se l’attuale fisionomia non finisca in fondo per deprimere proprio la connotazione professionale. Bandiere, scudetti e cerimonie del “corpo” non sostituiscono di certo l’identità che chi lavora in questo settore richiede. Che si costruisce invece con formazione, numeri non esorbitanti, distinzione di funzioni e riduzione di quelle strettamente di controllo a un più ristretto sottoinsieme.  Colpisce vedere, in alcune esperienze ben funzionanti fuori Italia, i numeri molto più contenuti degli addetti alla sicurezza e un ben più ampio settore di coloro che svolgono funzioni di tipo diverso.
Il terzo aspetto riguarda l’esterno del carcere, cioè le misure alternative che oggi sembrano disegnate sulla logica dell’interno, seppure senza sbarre. Il territorio resta muto supporto e non attore. Anche qui intervengono gli spazi: perché non recuperare il patrimonio territoriale, spesso non utilizzato, per un progetto di esperienza abitativa esterna, controllata, ma non piegata al ritorno a sera tra le mura e alle sue logiche? E riguarda anche il personale: la funzione di assistenza  sociale di giustizia deve continuare a rimanere diversa da quella sociale tout court o non integrarsi con essa, fino a un completo mescolamento?
Aspetti su cui vale la pena discutere se la promessa estiva del voltare pagina la vogliamo declinare oltre che sull’emergenza , che ovviamente richiede risposte urgenti, anche su un più generale ripensamento.